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martedì 12 settembre 2023

Roma arcaica e i conflitti con l'etrusca Veio, intrecciatisi al conflitto degli ordini

Roma arcaica, Veio, le saline
alla foce del Tevere e i 7 pagi di
Veio, da http://odysseus-viaggio
nellastoria.blogspot.com/2006/
04/roma-si-rafforza-le-guerre
-sannitiche.html
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Fin dalla sua mitica fondazione, le guerre di Roma contro la città etrusca di Veio sono state una costante, per motivazioni di tipo economico. Veio era ricca, posta a 20 km di Roma in direzione nord-ovest, dall'alto di un altopiano facilmente difendibile, dominava il territorio della riva destra del Tevere nel suo tratto finale, nei pressi del confine naturale fra il territorio etrusco e quello delle popolazioni latine del Latium vetus, limitrofo alla principale via di traffico del sale, dalle saline alla foce del fiume verso l'interno appenninico, quella che i Romani chiameranno via Salaria.
Dalla foce del Tevere poi, gli Etruschi potevano prendere il mare per raggiungere Capua, il primo avamposto etrusco nel meridione italiano, incuneato fra i Latini e l'incombente marea colonizzatrice dei coloni Greci.
In verde i territori
degli Etruschi nel
 800 a.C. - 500 a.C.
e loro espansioni.

Per i Veienti, Roma era una pericolosa potenziale concorrente, posta in posizione dominante sul lato sinistro del Tevere, a controllo della navigazione e dei commerci che avvenivano su di esso, per cui lo scontro fra le due città era inevitabile, poiché la potenza e la ricchezza di una avrebbe significato la decadenza e la povertà dell'altra.

In verde, Veio e le altre cittadine
etrusche, in giallo le latine, da ht
tps://upload.wikimedia.org/wiki
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Fondamentale era quindi il controllo dei septem pagi, i sette villaggi che sorgevano di fronte a Roma ma dall'altra parte del Tevere, sulla via del commercio del sale che, dalle saline poste alla foce del fiume, portava verso l'interno e che i romani chiameranno infatti via Salaria. Roma quindi poteva ostacolare i traffici fra Veio e il mare e d'altra parte, per Roma, la città etrusca era il primo grosso ostacolo per la propria espansione commerciale e militare verso l'Etruria, ed era inoltre strettamente alleata alle città di Capena (fondata, secondo la tradizione, da Veienti guidati dal leggendario re Properzio), Falerii e Fidene.

I conflitti fra Roma e Veio, si protrassero dal 750 a.C. circa al 396 a.C. A quanto raccontano Tito Livio e Plutarco, fu Veio a iniziare le ostilità, reclamando Fidene, poiché riteneva che le appartenesse. Secondo Plutarco: «Era una pretesa non solo ingiusta ma anche ridicola, perché quando i Fidenati stavano combattendo ed erano in grave pericolo, a quel tempo non solo non li avevano aiutati, ma avevano permesso che molti uomini morissero, ed ora pretendevano di avere diritti su città e territorio, quando essi già appartenevano ai Romani.». (Plutarco, Vita di Romolo, 25, 2.). Livio scrisse come Romolo, nei confronti di Veio, volesse una dimicatio ultima, una battaglia risolutiva: «La guerra fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità per la comune appartenenza al popolo estrusco [...] Persero parte del territorio, ma ottennero una tregua di ben cento anni.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)

Lazio arcaico nel 600 a.C., da
https://upload.wikimedia.org/
wikipedia/commons/8/89/.
Albe_planlatium.jpg

Ecco l'intero paragrafo di Tito Livio: «15 La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura. Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace. 
Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sè, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)

Plutarco racconta che i Veienti divisero il loro esercito in due schiere e con l'una assalirono l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e con l'altra si scontrarono con Romolo. A Fidene ottennero una vittoria parziale in cui riuscirono ad uccidere 2.000 Romani, ma nel secondo scontro persero la vita ben 8.000 Veienti e Romolo ebbe la meglio. Il successivo e decisivo scontro vide i due eserciti combattere sempre nel territorio di Fidene, dove Romolo dimostrò il maggior merito della vittoria per la sua grande abilità tattica e per il coraggio. Al termine della terza ed ultima battaglia, c'erano sul campo di battaglia ben 14.000 caduti. E Romolo, dopo aver sbaragliato l'esercito nemico, inseguì i Veienti fin sotto le mura della loro città, e poté sottrarre a Veio i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e quelli delle Saline, alla foce del Tevere, in cambio di una tregua della durata di cento anni, tregua contrassegnata da continue frizioni fra le due città, tali da sfociare, con una certa continuità, in combattimenti serrati e saccheggi nei rispettivi territori.

Dopo gli anni di Romolo ed il pacifico regno di Numa Pompilio, che aveva iniziato a dare forma alla parte spirituale della città, con re Tullo Ostilio la tregua con Veio, pur se a fatica, resse anche se, approfittando dei postumi della conquista e distruzione di Albalonga, la pressione dei Sabini su Roma favorì il radunarsi di una certa quantità di volontari etruschi a Veio, per poter approfittare della situazione, anche se «Ufficialmente non fu dato alcun aiuto perché era ancora valido presso i Veienti il patto di tregua stipulato con Romolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30, op. cit.)

Con il regno di Anco Marzio, i cent'anni di tregua fra Roma e Veio erano di certo scaduti. Infatti si legge in Livio che uno dei metodi del re romano per ingrandire lo Stato, oltre alla deportazione a Roma delle genti latine sconfitte, fu l'acquisizione territoriale: «la Selva Mesia, strappata ai Veienti, fece arrivare il dominio romano fino al mare. Alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia e tutt'intorno vennero create delle saline.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33, op. cit.). Infatti i Romani combatterono e vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus salinarum) contro la città di Veio, che pretendeva di riottenere i possedimenti persi all'epoca di Romolo.

Si assistette così alla graduale spoliazione del territorio veiente e ad un sovrapporsi di Roma nella produzione e nel commercio del sale. La creazione di Ostia alla foce del fiume mostrò come il controllo del Tevere fosse determinante per la ricchezza delle città etrusche dell'interno.

Gli intervalli degli scontri fra Roma e Veio, potevano essere dovuti all'osservanza di tregue (come quella della durata di cento anni) o all'impegno sostenuto nel combattere altri nemici. Roma era sempre impegnata militarmente con i vari vicini Sabini, Latini, Ernici, Rutuli, Volsci ecc. e anche Veio aveva dei vicini turbolenti, ed essendo ripetutamente sconfitta dai Romani, certamente doveva pagare anche le conseguenti riparazioni economiche, in genere con perdite di territorio e di conseguenza si andava via via impoverendo.

Il re Etrusco Tarquinio Prisco si batté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle e Vetulonia, corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica. Gli scontri continuarono anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che occuparono Fidenae con una propria guarnigione per poi continuare gli scontri. Gli scontri tra i Romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni e si risolsero con un grande scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinto dai romani. In seguito a questo scontro gli etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città, Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.

Con re Servio Tullio (che ha regnato dal 578 a.C. al 535 a.C., per 43 anni) Roma continuerà comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di VeioCere e Tarquinia, che non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio Prisco; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord. I Veienti videro così Roma tornare a farsi minacciosa. In effetti, anche se gli etruschi che comandavano a Roma provenivano da Tarquinia, per Veio la situazione non era certo migliorata, tutt'altro. Nonostante la comune discendenza, Veio si trovò circondata da concorrenti: l'etrusca Tarquinia a nord, e Roma a sud, guidata da etruschi ma padrona dell'intera area latina. Può essere anche che l'influenza etrusca su Roma, cominciasse già a scemare e la figura di Servio Tullio adombrasse i primi rivolgimenti politici (come l'eliminazione dei figli di Tarquinio) che riporteranno la città fuori dall'orbita etrusca. E infatti Servio Tullio, per mantenere il potere e volgere verso l'esterno l'attenzione delle forze politiche e militari dell'Urbe, riprese le ostilità con Veio e con gli altri etruschi. «Molto accortamente mantenne tranquille le vicende interne a Roma, affrontando la guerra contro i Veienti (con i quali era già terminata la tregua) e con gli altri etruschi. Tullio in quella guerra brillò per valore e fortuna.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42).  

Con l'ultimo dei Tarquini, Veio vide ritornare la tranquillità. Tarquinio il Superbo si dedicò a rafforzare la supremazia di Roma sull'etnia latina, spostando la direttrice degli attacchi romani da nord a est, verso Gabi e poi contro Ardea, capitale dei Rutuli. La sua cacciata non ci permette di appurare quali fossero i suoi intenti politico-militari nei confronti di Veio, però i prodromi erano evidentemente rivolti a imporre la supremazia romana sulle popolazioni non-etrusche in generale e latine in particolare mentre con gli Etruschi rinnovò il trattato di non belligeranza.

Ad organizzare un nuovo conflitto fra Roma e gli Etruschi di Veio, ci pensò Tarquinio il Superbo dopo la sua cacciata dal trono, che prima provò a riottenerlo con un colpo di Stato eseguito da alcuni giovani esponenti dell'aristocrazia romana, fra cui i Vitelli, che però fallì per la delazione di un loro schiavo, dall'"eloquente" nome di Vindicio (= vendicatore). 

Così Tarquinio chiese l'aiuto degli Etruschi, sia dei Tarquiniesi che dei Veienti. Tarquinia per il desiderio di aumentare il proprio potere e Veio per ansia di rivalsa su Roma, si diressero in armi contro Roma al seguito di Tarquinio. «Veienti e Tarquiniesi, oltre a tutto, avevano l'occasione di vendicare vecchi torti: eserciti tante volte distrutti e territori portati via. Queste parole valsero a smuovere i Veienti, i quali, fremendo minacciosi pensavano tutti a cancellare i torti subiti e a riconquistare, sia pure sotto il comando di un Romano, ciò che avevano perso in guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 6, op. cit.)

La battaglia (nel 509 a.C.) si scatenò appena gli eserciti delle due città entrarono nel territorio di Roma. Il console Publio Valerio, che aveva sostituito il dimissionario Tarquinio Collantino, avanzò al comando della fanteria che marciava in formazione quadrata, mentre l'altro console Giunio Bruto guidò la cavalleria e, nello scontro con Arrunte Tarquinio, figlio del re detronizzato, fu mortalmente ferito. La battaglia si protrasse nell'incertezza di chi avrebbe vinto finché, mentre l'ala tarquiniese faceva indietreggiare i Romani, «I Veienti furono sbaragliati e messi in fuga...» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 6, op. cit.)

Così Tarquinio coinvolse contro Roma lars Porsenna, il potente lucumone di Chiusi, che infine «ottenne che a Veio fosse restituito il territorio e i Romani furono anche costretti a dare degli ostaggi se volevano che il Gianicolo fosse liberato dal presidio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 13)

L'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante.

Stando a Tito Livio, due anni dopo il ritorno a Chiusi, Porsenna, ammirato dal rigido e coerente atteggiamento romano, non solo promise di non aiutare più Tarquinio il Superbo nelle sue pretese, ma "restituì gli ostaggi e quella porzione di territorio che era tornata a Veio in virtù del trattato del Gianicolo".

Nel 485 a.C., Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense furono i consoli, mentre Spurio Cassio Vecellino, il console dell'anno precedente che aveva proposto di distribuire parte della terra del demanio, era condannato e in seguito giustiziato. Con la sua morte, la questione agraria non veniva dimenticata e si levava da più parti la richiesta di dare corso alla legge agraria che era stata promulgata. 

Per la necessità di distrarre l'attenzione del popolo dalla loro sudditanza cittadina per rivolgerla al di fuori del pomerium, da dove potevano invece arrivare nuove ricchezze, l'aristocrazia romana organizzava quindi azioni militari contro i vicini e cessava di conseguenza anche la tranquillità di Veio, il nemico più ovvio di Roma.

I due consoli Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense infatti, temendo l'insorgere di disordini e approfittando di razzie e incursioni nemiche effettuate in territorio romano, chiamarono alla leva contro le città vicine, distogliendo così la plebe dalla questione agraria; Servio avrebbe condotto i romani contro Veio, mentre Quinto Fabio li avrebbe guidati contro i Volsci e gli Equi. Alla testa dell'esercito costituitosi, Fabio prima invase il territorio degli Equi, poi da lì quello dei Volsci, razziando e saccheggiando il territorio. Solo i Volsci provarono a resistere sul campo contro l'esercito romano, venendo però da questo sconfitto. Fabio però si inimicò il popolo, quando tornato a Roma con il bottino di guerra, ordinò che questo fosse interamente incamerato nelle casse dell'erario, senza che i soldati ne ricevessero alcuna parte.

Le discordie interne occuparono quindi, fin dagli inizi della repubblica, un ampio spazio nella politica di Roma. L'aristocrazia sembrava conoscere un solo modo di frenare le tensioni e i prodromi di rivolta dei plebei. Ogniqualvolta la tensione interna saliva oltre un limite considerato pericoloso, molto opportunamente giungevano notizie di attacchi di qualche popolazione vicina. La leva veniva chiamata, la plebe resisteva e non prendeva le armi, poi il nemico arrivava troppo vicino e la decisione di prendere le armi era inevitabile se non si voleva che Roma venisse sconfitta senza nemmeno combattere. Quando l'esercito era tenuto in armi fuori dal pomerium, le tensioni politiche scomparivano per riapparire alla fine della campagna militare.

In questo modo, gli attacchi dei Veienti erano funzionali alla politica romana, funzionalità che veniva meno quando Roma doveva affrontare nemici più pericolosi. Poi, per qualche anno, essendo Roma impegnata con gli eserciti ben più pericolosi dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, si trattenne dall'infierire, limitandosi a frenare le incursioni dei Veienti senza cercare l'affondo risolutivo.

In “Ab Urbe Condita libri” Tito Livio scrive che al tempo dei consolati di Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio Iullo, quindi nell'anno 482 a.C.:  «Quell'anno la lotta di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e accesa della guerra combattuta all'estero. Gli Equi presero le armi; le scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro romano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43)

L'anno successivo (481 a.C.), consoli Cesone Fabio Vibulano e Spurio Furio Medullino Fuso: «Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti, già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti questi campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con la politica del boicottaggio del servizio militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento in poi il tradizionale odio nei confronti del tribunato si concentrò esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva militare. Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio sarebbe stato il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande figura, il console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in tutti i modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo esempio: dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità nella strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un assalto della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la vergogna che in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui propri passi, nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura o, se non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini, ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti, rientrano alla base maledicendo a turno il generale e l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì a rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai cittadini che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna quindi a Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43, op. cit.)


«Ciò nonostante, i senatori ottennero che il consolato rimanesse presso la famiglia dei Fabi e per l'anno 480 a.C. nominarono console Marco Fabio Vibulano a cui viene affiancato, come collega, Gneo Manlio Cincinnato. Scrive Tito Livio «Quell'anno vide un tribuno, Tiberio Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo periodo riuscì a ostacolare la leva. Di fronte al rinnovarsi delle preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse che l'anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che la vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per i giorni a venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva essere annientato proprio con le sue stesse forze. Infatti ci sarebbe sempre stato un tribuno desideroso di ottenere un successo personale ai danni del collega e disposto a conquistarsi il favore del patriziato rendendo un servizio allo Stato. E, all'occorrenza, un numero più consistente di tribuni non avrebbe esitato a spalleggiare il console; d'altra parte sarebbe bastato uno contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori più in vista dovevano fare era questa: cercare di portare, se non tutti, almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato. L'intero ordine senatoriale, seguendo le istruzioni di Appio, cominciò a dimostrare ai tribuni gentilezza e disponibilità; e gli ex consoli, contando sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con favori personali, in parte con l'autorità di cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i loro poteri al servizio dello Stato. Così, quattro di essi, contro un solo e ostinato avversario dell'interesse generale, collaborarono coi consoli nella realizzazione della leva. Fatto questo, partì la spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti da tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto perchè c'era la speranza che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l'egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide. Quello era l'unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità. A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi c'era un'opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo militare romano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44.)

Nella battaglia che ne seguì si registrarono astute resistenze di consoli ad attaccare per aumentare la vergogna e scatenare l'ira dei soldati Romani, gli atti di eroismo dei semplici combattenti e dei componenti la gens Fabia che affiancavano il consanguineo console Quinto Fabio e la morte dell'altro console Gneo Manlio Cincinnato. Questa è la prima descrizione accurata di una battaglia fra Romani e Veienti.

«I consoli romani, a loro volta, non temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori del deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran terrorizzati all'idea di scendere in campo per affrontare contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così stazionavano all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel doppio pericolo. Non era escluso che il tempo e i casi della vita avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso. Ma proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti, stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime li provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa. Dicevano che la storia della lotta di classe era un pretesto per coprire la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini. Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio da sotto il fossato e le porte. La moltitudine, invece, meno portata a simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più profonda e si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il patriziato potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era tra l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico. Alla fin fine ebbe la meglio il secondo, tanto insolente e arrogante era diventato lo scherno dei nemici. Si accalcano davanti al pretorio, reclamano la battaglia, chiedono che si dia il segnale. I consoli confabulano, come se fossero in piena riunione di consiglio. La discussione dura a lungo. Il loro desiderio era combattere; nel contempo, però, frenavano e dissimulavano il desiderio stesso in odo tale che crescesse l'impeto dei soldati ostacolati e trattenuti. Gli uomini si sentirono rispondere che attaccare sarebbe stato prematuro perché gli sviluppi della situazione non erano ancora arrivati al punto giusto. Quindi che rimanessero nell'accampamento. Seguì l'ordine di astenersi dal combattere: se qualcuno, violando la consegna, avesse combattuto sarebbe stato trattato come un nemico. Con queste parole li congedarono: ma il loro apparente rifiuto fece crescere negli uomini l'impazienza di buttarsi all'assalto. Quando i nemici vennero a sapere che il console aveva interdetto ai suoi di scendere in campo, si accanirono ulteriormente nella provocazione, infiammando cos? ancora di pi? i soldati romani. Era evidente che li potevano schernire senza correre rischi: godevano di cos? poca fiducia che venivano negate loro persino le armi. La conclusione sarebbe stato un ammutinamento generale con il conseguente crollo della potenza romana. Forti di queste convinzioni, vanno a lanciare grida di scherno davanti alle porte dell'accampamento e si trattengono a stento dall'assalirlo. A quel punto i Romani non poterono sopportare oltre gli insulti e da tutti i punti del campo si riversarono di corsa davanti ai consoli: le loro non erano più come prima richieste disciplinate e presentate per bocca dei primi centurioni, ma un coro di voci scomposte. La cosa era matura: tuttavia i consoli tergiversavano. Alla fine, Fabio, vedendo che il collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere per paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il silenzio e poi disse: “Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere, te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro. Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se prima non giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno scontro, han tradito una volta il console romano: gli dèi non li tradiranno mai”. A quel punto, un centurione di nome Marco Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse: “Tornerò vincitore, o Marco Fabio!” Augurò che l'ira del padre Giove, di Marte Gradivo e degli altri dèi potesse abbattersi su di lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini, ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. Ora sfidano gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza differenze, brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso nel corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 45.) 

«L'esercito viene schierato e né i Veienti né le legioni etrusche si tirano indietro. La loro certezza quasi assoluta era questa: i Romani non li avrebbero affrontati con maggiore determinazione di quanta ne avevano dimostrata con gli Equi; oltretutto, vista l'esasperazione degli animi e la totale incertezza dello scontro, non era escluso che commettessero qualche nuovo e imprevedibile errore. Ma le cose andarono in tutt'altra maniera: in nessuna delle guerre del passato i Romani si erano prodotti in un attacco così violento, tanto li avevano esasperati sia gli insulti del nemico sia gli indugi dei consoli. Gli Etruschi avevano appena avuto il tempo di spiegare il proprio schieramento che i Romani, nel pieno della concitazione iniziale, prima avevano lanciato a caso le aste più che prendendo la mira, e poi erano arrivati al corpo a corpo con la spada, cioè proprio il tipo più pericoloso di duello. Nelle prime file le prodezze straordinarie dei Fabi erano un esempio per i concittadini. Uno di essi, quel Quinto Fabio che era stato console due anni prima, stava guidando l'attacco contro un gruppo compatto di Veienti, quando un etrusco fortissimo e particolarmente esperto nel maneggiare le armi lo sorprese mentre incautamente si spingeva tra un nugolo di nemici e lo passò da parte a parte in pieno petto. E una volta estratta la spada, Fabio crollò a terra riverso sulla ferita. Anche se si trattava di un uomo solo, la notizia della sua morte fece scalpore in entrambi gli schieramenti e i Romani stavano già per cedere, quando il console Marco Fabio, scavalcandone il cadavere e proteggendosi con lo scudo, gridò: “È questo che avete giurato, soldati? Fuggire e ritornare al campo? Allora vuol dire che temete quei gran codardi dei nemici più di Giove o Marte, in nome dei quali avete giurato? Benissimo: io non ho giurato, eppure o tornerò indietro vincitore o cadrò battendomi qui accanto a te, Quinto Fabio!” Alle parole del console replicò allora Cesone Fabio, console l'anno precedente: “Credi, fratello, che diano retta alle tue parole e tornino a combattere? Daranno retta agli dèi, è su di loro che han giurato. Quanto a noi, per il rango sociale che occupiamo e per il nome che portiamo (siamo o non siamo dei Fabi?), è nostro dovere infiammare l'animo dei soldati più con l'esempio concreto che con tanti discorsi”. Detto questo, i due Fabi volarono in prima linea con le lance in resta e si trascinarono dietro tutto l'esercito.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 46.)

«Così furono risollevate le sorti della battaglia da quella parte. Dall'altra ala dello schieramento il console Gneo Manlio stava impegnandosi con non meno ardore a sostenere il combattimento, quando accadde un episodio quasi del tutto analogo. Infatti, come prima Quinto Fabio all'ala opposta, così adesso da questa parte Manlio, mentre stava guidando l'attacco impetuoso dei suoi soldati contro il nemico già quasi allo sbaraglio, fu ferito gravemente e dovette abbandonare la battaglia. La truppa, credendolo morto, cominciò a vacillare e avrebbe ceduto la posizione se l'altro console, arrivato al galoppo da quella parte con alcuni squadroni di cavalieri, gridando che il suo collega era vivo e che egli stesso aveva piegato e messo in fuga i nemici dall'altro versante dello schieramento, non avesse raddrizzato la situazione. Anche Manlio, facendosi vedere in mezzo a loro, contribuisce a rimettere in sesto la linea di battaglia. E il morale degli uomini riprende subito quota appena riconoscono i lineamenti dei due consoli. Nello stesso istante si riduce anche la pressione del nemico perché essi, contando sulla superiorità numerica, avevano ritirato le riserve e le avevano mandate ad attaccare l'accampamento romano. Lì la resistenza è di breve durata, nonostante la violenza relativamente modesta dell'urto. Mentre però i nemici si davano da fare col bottino più che preoccuparsi degli sviluppi della battaglia, i triarii romani, che non erano stati capaci di sostenere l'impeto iniziale, mandarono dei messaggeri per riferire ai consoli come andavano le cose; quindi, riunitisi di nuovo nei pressi del pretorio, lanciarono un contrattacco senza aspettare i rinforzi e di loro spontanea volontà. Nel frattempo il console Manlio era rientrato nell'accampamento e, piazzando degli uomini in corrispondenza di tutte le porte, aveva tagliato al nemico ogni via d'uscita. Gli Etruschi allora, in quella situazione disperata, invece di dare una dimostrazione di coraggio, persero la testa. Infatti, dopo aver più volte tentato invano di sfondare dove speravano che fosse possibile una sortita, un gruppo compatto di giovani si lanciò dritto sul console, dopo averlo individuato per il tipo di armamento che aveva addosso. I primi colpi furono parati dai soldati del suo seguito, ma l'urto era troppo violento per poterlo reggere più a lungo e il console cadde, ferito a morte, mentre gli uomini del suo presidio personale fuggirono. Gli Etruschi ripresero allora coraggio e il panico si impadronì dei Romani che correvano all'impazzata per l'accampamento: la situazione sarebbe veramente precipitata, se alcuni ufficiali superiori, dopo essersi impadroniti del corpo del console, non avessero dato via libera ai nemici da una delle porte. Fu di là che si lanciarono fuori, andando però a cozzare senza più nessun ordine nel console vincitore che li massacrò di nuovo e quindi li disperse. Fu una grande vittoria, anche se funestata dalla morte di due uomini di quella statura. Così il console, quando il senato autorizzò il trionfo, disse in risposta che se le truppe lo potevano celebrare senza il loro generale, egli avrebbe dato volentieri il proprio consenso per l'eccellente prestazione da esse offerta in quella guerra. Quanto a se stesso, con la famiglia in pieno lutto per la morte del fratello Quinto Fabio e lo Stato mutilato in una delle sue parti per la perdita dell'altro console, non avrebbe potuto accettare la corona d'alloro in quel momento di grande cordoglio pubblico e privato. Il rifiuto del trionfo fu un titolo di merito superiore a qualsiasi altro trionfo mai celebrato, com'è vero che rifiutare la gloria al momento giusto significa raddoppiarla col tempo. Poi celebrò uno dopo l'altro i funerali del collega e del fratello, e in entrambi i casi pronunciò l'orazione funebre: pur non togliendo ai due uomini alcun merito, riuscì a concentrare su se stesso buona parte delle lodi. E senza perdere di vista quella politica di riconciliazione con la plebe che era stata uno dei suoi obiettivi principali all'inizio del consolato, affidò ai patrizi il compito di curare i soldati feriti. La maggior parte toccò ai Fabi e le attenzioni che essi ricevettero in questa casa non ebbero uguali nel resto della città. Da quel momento i Fabi cominciarono a essere popolari presso la plebe e fu soltanto servendo lo Stato che essi raggiunsero un simile obiettivo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 47.)


In quel periodo i Fabi rivestivano una grande importanza a Roma: la famiglia dava ogni anno un console alla città. L'anno successivo, infatti, Cesone Fabio Vibulano salvò Roma da un attacco dei Veienti che il collega del console, Tito Verginio Tricosto Rutilo, aveva sottovalutato. Da quel momento con i Veienti si instaurò una situazione di "non-pace e non-guerra" con azioni di puro brigantaggio nei territori avversari. Gli etruschi non affrontavano le legioni romane, ritirandosi dentro le mura e quando i Romani si allontanavano uscivano per compiere razzie.

Nel 477 a.C. i veienti razziarono i terreni della gens Fabia sulla sponda destra del Tevere. Siccome la civitas se ne disinteressava, i Fabi si organizzarono. Visto che gli eserciti di Roma erano spesso impegnati in vari altri fronti, i Fabii giunsero a chiedere una sorta di appalto della guerra contro Veio. La città poteva portare i suoi eserciti contro Equi e Volsci; la gens Fabia avrebbe preso su di sé l'intero peso della guerra con Veio, impegnandosi a «salvaguardare l'autorità di Roma nel settore e condurre la guerra come un affare di famiglia finanziandola privatamente senza che la città dovesse impegnare né denaro né uomini.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48, op. cit.)

La guerra con Veio diventò endemica generando un famoso episodio della storia di Roma. I Fabii condussero la guerra, una sorta di bracconaggio invero, provocando i Veienti, rubando le loro messi e le loro mandrie, resistendo agli attacchi dei nemici, fino a quando questi, stanchi dello stillicidio di azioni ostili, non si organizzarono, attirando in una trappola e trucidando tutti i componenti della gens Fabia nella Battaglia del Cremera. Era il 13 luglio del 477 a.C.; dei Fabii sopravvisse un solo componente, il futuro console Quinto Fabio Vibulano. Come conseguenza i Veienti ripresero coraggio e arrivarono fino al Gianicolo, senza saper approfittare dell'occasione. Si fecero sconfiggere nuovamente con un trucco simile a quello utilizzato contro i Fabii e vennero sterminati.

Ogni volta che una popolazione si metteva in pesante contrasto con Roma, Veio approfittava della difficoltà. Nel 475 a.C. si arrivò all'alleanza con i Sabini. Publio Valerio Publicola, il console, si fece aiutare dai socii Latini ed Ernici ed entrò in contatto con Veienti e Sabini. Per prima cosa si scagliò contro i Sabini, ne espugnò l'accampamento mettendo in crisi anche la fiducia dei Veienti che stentarono ad organizzare una difesa comune. La cavalleria di Valerio riuscì a scompaginare i difensori e a sbaragliare gli etruschi Veienti, appena in tempo per fermare un attacco dei Volsci che a loro volta approfittavano delle difficoltà romane per compiere razzie e devastazioni.

I consoli dell'anno successivo (474 a.C.) furono Lucio Furio Medullino e Aulo Manlio Vulsone. A quest'ultimo fu affidata l'ennesima guerra con Veio. I risultati furono notevoli; i Veienti, senza combattere, chiesero e ottennero una tregua di quarant'anni.

Nel 445 a.C. i Veienti si rifecero vivi; i consoli erano Marco Genucio Augurino e Gaio Curzio Filone ma Livio non approfondisce limitandosi a parlare di "scorrerie ai confini del territorio romano". I nemici più pericolosi rimasero i Volsci e gli Equi e all'interno delle mura la divisione fra patrizi e plebei scatenava movimenti inusitati, e si vide persino un tentativo di Spurio Melio di farsi proclamare re (almeno questa fu l'accusa) approfittando della fama raggiunta regalando cibo al popolo durante una carestia.

Nel 438 a.C. la colonia romana di Fidene, da anni stabilita nella città etrusca, «passò al re di Veio, Larte Tolumnio. Alla defezione si aggiunse un delitto ancora maggiore: i Veienti uccisero, per ordine di Tolumnio [...] ambasciatori che erano venuti per chiedere le motivazioni di quel mutato atteggiamento.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)

Livio prospetta la possibilità che il delitto, commesso contro ogni diritto delle genti, fosse stato commissionato dal lars di Veio per legare maggiormente a sé i nuovi alleati. Un risultato, certo, lo raggiunse: i Romani divennero ancora più adirati verso gli Etruschi. Furono eletti consoli (carica che era spesso contestata in quel periodo) Marco Geganio Macerino e Lucio Sergio Fidenate. Quest'ultimo condusse la guerra contro Veio e per primo combatté «al di qua dell'Aniene contro il re dei Veienti in una battaglia coronata da successo anche se pagò quella vittoria a carissimo prezzo tanto che a Roma maggiore fu il dolore per i cittadini perduti che la gioia per la dispersione dei nemici.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)

La situazione, pur se vittoriosa, non doveva essere tanto felice se fu nominato (come accadeva solo nei momenti più gravi) un dittatore nella persona di Mamerco Emilio Mamercino che scelse come magister equitum Lucio Quinzio Cincinnato, degno figlio di un padre così illustre. Il dittatore raccolse, quali legati, i più celebrati nomi di Roma. La scelta convinse gli etruschi e i loro alleati a ritirarsi e attestarsi sotto le mura di Fidene dove furono raggiunti anche dai Falisci. La battaglia, nella descrizione di Livio, fu accesa in poco tempo perché il re dei Veienti temeva la defezione dei Falisci, che intendevano ritornare in fretta a Falerii, a casa loro. E Larte Tolumnio combatté anche in modo acceso correndo in ogni punto del fronte per rincuorare i suoi fino a quando il tribuno militare Aulo Cornelio Cosso non lo attaccò direttamente, uccidendolo e ne spogliò il cadavere portando a Roma le spoglie opime.

I Veienti ci riprovarono due anni dopo, nel 435 a.C., durante una pestilenza e senza l'aiuto dei Falisci. Veienti e Fidenati arrivarono quasi fino a Porta Collina per poi essere respinti dalle legioni guidate dal dittatore Quinto Servilio Strutto. Questa volta gli etruschi si barricarono a Fidene, ma la città fu conquistata con una guerra di mina. Con falsi attacchi da quattro diverse direzioni in quattro

La caduta di Fidene mise in grande allarme gli Etruschi e vennero inviati messaggeri alle dodici città per indire un convegno al tempio di Voltumna. Anche i Romani prepararono la guerra eleggendo un dittatore, Mamerco Emilio. La guerra non ci fu. Alcuni mercanti portarono la notizia che i Veienti non avevano ricevuto la solidarietà degli altri etruschi, in quanto avevano iniziato le ostilità di propria iniziativa. Mamerco Emilio approfittò per diminuire la durata della carica dei censori, si dimise da dittatore e fu quindi accusato di aver limitato la magistratura altrui. Condannato, fu espulso dalla tribù, iscritto fra gli erarii si vide aumentate le tasse di otto volte. Continuarono gli scontri con Volsci ed Equi che permisero ai Veienti di recuperare le forze e ancora prima di veder scadere i tempi della tregua concessa dopo la presa di Fidene, Veio aveva ricominciato con le scorrerie.

Dopo aver inutilmente inviato i feziali Roma decise di mandare l'esercito contro Veio. Questa volta i Veienti ebbero la meglio su un esercito comandato non dai consoli, ma da tre tribuni militari i quali, in disaccordo fra di loro, adottarono tre strategie diverse e favorirono l'attacco etrusco e la disfatta dei Romani. La rotta favorì il ritorno di Mamerco Emilio alla dittatura, i Veienti raccolsero molti volontari etruschi sotto le loro insegne e il popolo di Fidene, che fece strage dei coloni romani inviati dopo la caduta della città. Fu deciso che era preferibile combattere da Fidene e l'esercito veiente vi fu trasferito. L'esercito romano sconfitto fu richiamato da Veio e schierato fuori Porta Collina. La battaglia infuriò sotto le mura e i Romani stavano avendo il sopravvento quando da Fidene «uscì un esercito del tutto nuovo quale mai si era visto o sentito raccontare: era una gran folla armata di fuochi e tutta fiammeggiante di torce accese che eccitata e quasi invasata, si lanciò contro il nemico.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)

L'esercito romano, guidato da Mamerco Emilio con l'aiuto della cavalleria di Aulo Cornelio Cosso, riuscì a resistere e gli attaccanti furono circondati e massacrati. Molti Veienti finirono per annegare nel Tevere, i Fidenati tentarono di resistere nella loro città che però fu nuovamente espugnata e questa volta, distrutta; la popolazione fu venduta schiava. Il pendolo delle guerre tornò dalla parte dei Volsci e degli Equi. Si aggiunsero anche i Labicani (presto sconfitti) e tutto il Lazio da Roma ad Anzio e fino al Monte Algido, roccaforte degli Equi era costantemente percorso da eserciti impegnati in battaglie dagli esisti altalenanti.

Quest'anno segnò una svolta importante nella gestione delle guerre romane. Nel 408 a.C. scadeva la tregua con Veio e vennero inviati ambasciatori per riscuotere i danni di guerra. Una delegazione di Veienti chiese di poter conferire con il Senato di Roma, e in senato ottenne di differire il pagamento dei debiti in quanto presi da grosse difficoltà: anche a Veio si avevano lotte intestine.

Tito Livio (IV,58) esalta la magnanimità dei Romani, ma c'è anche da ricordare come una guerra con Veio, per quanto dai risultati quasi scontati, avrebbe distolto molte forze dal fronte sud-orientale. Tanta magnanimità non fu poi ricompensata. O più probabilmente la debolezza fu riconosciuta come tale. L'anno successivo, infatti, ambasciatori romani furono mandati a Veio per riscuotere, i Veienti li minacciarono di riservare loro lo stesso trattamento usato da Lars Tolumnio. Si cercò di dichiarare guerra, ma le proteste della plebe ricordarono che non si era ancora conclusa quella con i Volsci, che due guarnigioni erano state sterminate, che altri luoghi erano in pericolo e che Veio poteva coinvolgere l'intera Etruria nel conflitto.

Venne quindi deciso di concentrare le azioni sui Volsci, l'esercito romano fu diviso in tre parti e mandato a saccheggiare il territorio dei nemici sotto il comando di tre dei quattro tribuni militari. Lucio Valerio Potito si diresse su Anzio, Gneo Cornelio Cosso si diresse su Ecetra e Numerio Fabio Ambusto attaccò e conquistò Anxur (Terracina) lasciando la preda ai soldati di tutti e tre gli eserciti.

«I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima plebe e tribuni vi avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.)

Ovvie le conseguenze: ringraziamenti dei plebei, polemiche dei Tribuni che vedevano spuntate alcune delle loro armi, proteste di chi doveva pagare. Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari. Era il 407 a.C. Sei erano i tribuni che condussero l'esercito e misero Veio sotto assedio. Gli Etruschi convocati al tempio della dea (o dio) Voltumna non si accordarono per portare aiuto alla città consorella. L'anno successivo (406 a.C.) l'assedio si prolungò senza grandi avvenimenti, anche perché continuava la guerra contro i Volsci. Conquistata la volsca Artena però, l'esercito romano si ripresentò sotto le mura di Veio.

Veio era, come Roma, percorsa da discordie interne che però non cessavano con l'insorgere del pericolo comune. Con Roma in armi alla loro porta e che aveva portato a otto i tribuni militari, i Veienti non trovarono di meglio, per sopire le discordie interne, che eleggere un re inviso alle altre città etrusche per il suo carattere prepotente e superbo. Inoltre aveva compiuto diversi sgarbi, interrompendo giochi e spettacoli, che per gli Etruschi avevano carattere religioso.

Sempre divisi, gli Etruschi furono concordi nel negare gli aiuti a Veio finché quel re fosse stato al potere. Questo non tranquillizzò i Romani che nel 403 a.C. iniziarono a fortificarsi in entrambe le direzioni; verso Veio per proteggersi dagli abitanti e verso l'esterno per prevenire interventi esterni.

La novità importante fu che anziché cessare l'assedio nei tempi soliti per permettere agli agricoltori di lavorare le loro terre, un esercito stipendiato poté essere tenuto indefinitamente sotto le mura della città etrusca. I comandanti romani fecero costruire anche i quartieri invernali. E fu la prima volta. Quando a Roma si seppe della novità, i tribuni della plebe insorsero dicendo che «quello era il motivo per cui era stato assegnato lo stipendio ai soldati, e non si erano sbagliati nell'asserire che quel dono era intinto nel veleno. La libertà della plebe era diventata merce da vendere e la gioventù veniva tenuta lontana e segregata dalla città e dalla repubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 2, op. cit.)

La battaglia politica si scatenò fra i tribuni della plebe e Appio Claudio, lasciato a Roma proprio per contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il patrizio; con un contrattacco notturno distrussero le macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per l'ennesima volta la città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al che molti plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler combattere volontariamente. Iniziò una corsa al volontariato, come spesso si vide a Roma. Il senato ringraziò e trovò nelle pieghe del bilancio di che pagare i fanti volontari e concesse perfino un aiuto economico ai cavalieri. Il nuovo esercito, arrivato a Veio ricostruì le linee e fabbricò altre e diverse macchine. Da parte della città inoltre, fu maggiormente curato il vettovagliamento.

Questa fu l'altra novità di quell'anno: fu la prima volta che i cavalieri prestarono servizio utilizzando cavalli di loro proprietà. Prima il cavallo, in guerra, era fornito dallo Stato.

L'anno successivo Roma, che contestualmente stava assediando Anzio, vide trucidato il presidio di Anxur. Ma anche a Veio, somma preoccupazione della repubblica, le cose non miglioravano; i tribuni militari romani non andavano d'accordo e a Veio nel 402 a.C. arrivarono rinforzi dai Falisci e dai Capenati che avevano finalmente compreso come, una volta espugnata Veio, i Romani avrebbero avuto via libera per altre conquiste. 

L'accampamento di Manio Sergio fu attaccato e Lucio Verginio si rifiutò di aiutarlo asserendo che se il collega aveva bisogno di rinforzi li avrebbe chiesti. L'ovvio risultato fu che i soldati di Manlio dovettero cedere e abbandonare le postazioni. La commissione di inchiesta in senato si divise e le polemiche fra senato e tribuni della plebe infuriarono. Solo la minaccia della nomina di un dittatore che avrebbe messo tutti a tacere fece calmare gli animi. L'anno successivo (401 a.C.) Roma ebbe gravi difficoltà a reperire forze per affrontare Veio con i suoi nuovi alleati da una parte e i Volsci dall'altra. Perfino i più giovani e i più anziani furono chiamati alla leva quantomeno come ausiliari a presidio della città.

Un altro problema venne dal soldo per l'esercito. Più soldati servivano maggiori erano le uscite per il soldo; ma più soldati erano in guerra meno contribuenti potevano essere tassati per finanziare la guerra. Chi restava in città doveva servire lo Stato come presidio e anche pagare la tassa. Le polemiche, naturalmente erano continue e ruggenti. 

La maggiore fu portata avanti da Gneo Trebonio, tribuno delle plebe che vedeva vanificare la Lex Trebonia, che rendeva obbligatoria l'elezione anche di plebei come tribuni militari. Trebonio imbastì un ragionamento dietrologico sul protrarsi della guerra, accusando persino i patrizi di connivenza col nemico. Manlio e Verginio, i due comandanti sconfitti, furono condannati a una multa di diecimila assi pesanti, il tributo per l'esercito non fu versato e venne presentata una legge agraria.

Gli eserciti che assediavano Veio e Anxur cominciarono a protestare per una paga che non arrivava, le razzie nei territori dei Falisci, dei Capenati e dei Volsci non bastavano a fermare il dissenso e il malumore. Infine con l'elezione anche di un plebeo (ma era un diritto acquisito) come Tribuno Militare la plebe si calmò, la paghe arrivarono agli eserciti, Anxur fu riconquistata. L'anno seguente la pace sociale sembrava acquisita, al tribunato militare fu eletto un solo patrizio e cinque plebei. La punizione di Manlio e Virginio si rivelò utile quando sotto Veio arrivarono due eserciti, uno da Falerii e uno da Capena. La resistenza fu comune e tutto l'esercito romano si impegnò riuscendo a respingere gli attaccanti e perfino a massacrare molti Veienti che, usciti dalla città e messi in fuga, erano rimasti chiusi fuori dalle mura.

La guerra con Veio si trascinò stancamente per anni tanto che perfino da Tarquinia vennero mandate delle coorti armate alla leggera per saccheggiare l'agro romano. Tentativo mandato in fumo dalla reazione romana che inviò dei volontari i quali sorpresero i Tarquiniesi di ritorno verso casa oberati di bottino. Li uccisero, li spogliarono del carico e riportarono a Roma sia quanto avevano razziato sia i beni stessi degli etruschi. Se le discordie interne di Roma non cessavano, anche le città etrusche non erano in accordo.

Nel solito consesso al tempio di Volumna, Veio, Falerii e Capena chiesero aiuto alle altre città etrusche che lo rifiutarono perché Veio aveva iniziato la lotta (anni prima) senza chiedere il loro parere, ma soprattutto perché un nuovo nemico si stava affacciando sull'Etruria: i Galli Senoni guidati da Brenno. L'unica concessione era la non-interferenza dei governanti se i giovani volevano recarsi a Veio come volontari. Andarono in molti. La notizia delle dimensioni dell'esercito veiente fece tacere le polemiche interne di Roma.

Due tribuni militari, inviati contro Falerii e Capena subirono una sconfitta, la notizia giunse ingigantita sia all'esercito che assediava Veio sia a Roma. Il popolo si gettò a pregare nei templi, le matrone ne spazzavano i pavimenti con i capelli. Sembrava che, anziché chiusi fra le loro mura, i Veienti fossero alle porte. Fu deciso di nominare un dittatore, Marco Furio Camillo.

La caduta di Veio (396 a.C.) sarà cantata da Tito Livio col seguente incipit: «Già i Giochi e le Ferie Latine erano stati rinnovati, già l'acqua del lago Albano era stata dispersa per i campi, già il destino incombeva su Veio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 19., op. cit.)

Furio Camillo scelse come magister equitum Publio Cornelio Scipione (antenato dell'Africano). Il nuovo comandante cambiò l'andamento della guerra. Distribuì punizioni per chi era fuggito, indisse una nuova leva, si recò personalmente a Veio per controllare la situazione sul campo e incoraggiare i soldati. Accettò persino l'aiuto di "giovani stranieri" (Latini ed Ernici). Camillo fece grandi voti di organizzare sacri giochi alla fine della guerra e di restaurare e riconsacrare un tempio alla Madre Matuta che si trovava nel Foro Boario.

Partito con le nuove truppe, Camillo si scontrò con Falisci e Capenati nei pressi di Nepi, li sbaragliò e si mise a restaurare e potenziare le fortificazioni romane sotto Veio. Vietò i duelli e le scaramucce con i Veienti e concentrò l'esercito sullo scavo di una galleria che portasse dentro Veio passando sotto le mura. I soldati lavorarono in turni di sei ore senza mai fermare lo scavo. Quando Camillo capì che si era vicini all'epilogo di quella guerra, pose al Senato la domanda di cosa fare dell'immenso bottino che la ricchissima città avrebbe certamente fornito.

Una distribuzione troppo avara avrebbe creato malumore nella plebe, una troppo ricca avrebbe creato risentimento fra i patrizi. Lo Stato non poteva incamerare tutto, anche perché la plebe riteneva – non del tutto a torto – che Stato fosse mancipio dell'aristocrazia. In senato si formarono due partiti: uno, guidato da Appio Claudio, riteneva giusto incamerare il bottino nell'erario (i soldati erano stati pagati con il soldo) e rendere meno gravoso il tributo che la plebe doveva pagare, con vantaggio di tutti. L'altro partito, guidato da Publio Licinio, chiedeva che con pubblico editto si annunciasse al popolo che chi voleva del bottino se lo doveva andare a prendere a Veio. Vinse questa interpretazione e turbe di Romani si avviarono verso nord, verso la città condannata.

Il dittatore ordinò ai soldati di prendere le armi, pregò Apollo Pitico, che aveva "aiutato" i Romani con un favorevole responso dell'oracolo di Delfi, offrendogli la decima parte del bottino e pregò Giunone Regina di seguirlo da Veio a Roma dove avrebbe costruito un tempio degno della sua grandezza. Poi scatenò l'esercito sulle mura per nascondere i rumori degli ultimi scavi della galleria. I Veienti, non più abituati agli assalti in massa, accorsero sulle mura. 

Si era circa nel 396 a.C., Veio cadde definitivamente per opera delle truppe entrate dal cunicolo che aprirono ai Romani le porte della città etrusca.



Cartina della Roma Repubblicana.


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lunedì 31 luglio 2023

Il ruolo dei 7 re nella Roma arcaica

Lupa con Romolo e Remo in
una moneta del II sec. a.C., di
Curtis - scanned from photo I
took, CC BY-SA 3.0, https://
commons.wikimedia.org/w/
index.php?curid=1126366
Il rex, nella Roma arcaica, era il supremo magistrato, eletto - ad esclusione di Romolo, che è stato re in quanto fondatore della città - dal  popolo con ratifica da parte del senato, l'assemblea dei patres, i capifamiglia delle gentes originarie. Il penultimo re, Servio Tullio ottenne il trono con un inganno e con la sola autorizzazione del senato, ma in seguito ottenne unanimità di consensi, mentre invece l'ultimo re, Lucio Tarquinio detto il Superbo, ottenne e mantenne il potere solo con la forza e con atteggiamenti criminali, finché non fu cacciato.

Il sovrano deteneva il potere esecutivo, era comandante in capo dell'esercito, capo dello Stato, pontefice massimo, legislatore e giudice supremo. L'elezione dei re erano intervallate da periodi di interregno (interrex) in cui il potere era gestito dal Senato (luogo dei senili), l'assemblea aristocratica dei padri (da cui patria e patrizi).

Il re aveva inoltre funzioni sacrali, rappresentando Roma e il suo popolo di fronte agli dèi, a cui era collegato come fosse un ponte (era infatti il pontefice massimo) e come tale gestiva il rapporto pubblico col tempo, con un calendario che prevedesse le giuste ritualità nei rapporti fra umani e dèi. Le funzioni di rapporti col sacro tipiche del re, rimasero anche dopo la fine della monarchia nella figura del Rex Sacrorum. Altri sacerdoti erano gli àuguri, che interpretavano la volontà degli dèi tramite l'osservazione degli auspìci. 

I primi quattro re della tradizione romana (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio e Anco Marzio), di origine latina e sabina, coprono un periodo di 137 anni nel corso dei quali viene posta la nascita della città e di molte delle sue usanze e istituzioni. Gli stessi re sembrano ricalcare, nella loro descrizione e negli atti loro attribuiti, un preciso ruolo secondo questo schema: vi è il fondatore, istitutore della regalità e dello Stato, il sacerdote, istitutore della religione romana, il guerriero, artefice dell'espansione militare e il mercante, l'artefice della prosperità e della "guerra giusta".

Romolo e Remo da https://it.wi
kipedia.org/wiki/Romolo#/me
dia/File:Brogi,_Carlo_(1850-19
25)_-_n._8226_-_Certosa_di_Pa
via_-_Medaglione_sullo_zoccol
o_della_facciata.jpg
.

Romolo (Alba Longa, 24 marzo 771 a.C. - Roma, 5/7 luglio 716 a.C.) è stato il mitico primo re di Roma, in quanto fondatore della città, in carica dal 753 a.C. al 717 a.C.. Per un anno ha regnato insieme a Tito Tazio, re dei Sabini del colle Quirinale, nell'unione tra i due popoli seguita al ratto delle Sabine. 

Mappa del luogo in cui fu edificata
Roma. Sono indicati il Tevere, i
colli, il Foro centrale comune,
dedicato alla vita sociale e, fuori
dall'area urbana, il campo Marzio,
"di Marte", dove si poteva circolare
con le armi, contrariamente
che all'interno dell'urbe.

Secondo la tradizione, Romolo era di origini latine, figlio del dio Marte e di Rea Silvia, figlia di Numitore, re di Alba Longa e fondò Roma, tracciandone il confine sacro, il pomerio, il 21 aprile 753 a.C. In tale occasione uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine. Una volta costruita la città sul colle Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò Roma, rapendo le donne ai vicini Sabini della città di Cures, così da dare mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra tra questi due popoli, che si concluse con una alleanza, tanto che i Sabini si insediarono sul colle Quirinale con il loro re, Tito Tazio, il quale condivise con Romolo il potere. La tradizione attribuisce a Tito Tazio alcuni atti normativi (come la lex regia), ma sempre riconducibili anche a Romolo. Era imparentato con Tito Tazio il secondo re, Numa Pompilio, che ne aveva sposato la figlia.

Romolo divise il popolo tra coloro che potevano combattere, gli aristocratici, e coloro che non avrebbero potuto farlo. Nella gerarchia militare contava la nobiltà di nascita. 

Senatore Romano
con laticlavio. 
Immagine di 
Dennishidalgo - 
Opera propria CC
Y-SA 3.0, https://
commons.wikimedia.
org/w/index.php?
curid=30112996
La leggenda racconta che fu Romolo ad istituire il Senato romano (in latino Senatus), la più autorevole assemblea istituzionale dell'antica Roma, organo rimasto invariato nel corso delle trasformazioni politiche della storia dell'Urbe, il cui significato era assemblea degli anziani (dal latino senex, anziani) i cui membri erano chiamati patres (padri) e i loro discendenti patrizi.Romolo decise che il senato fosse composto da 100 patres scelti fra gli aristocratici capifamiglia delle cento gentes originarie ricordate da Tito Livio. Il numero dei patres andò col tempo aumentando, grazie all'aggiunta di nuovi gruppi. Vennero, infatti, ricevuti all'interno della comunità romana i principes  Albanorum o il pater gentis della gens Claudia. I membri del senato risultarono, di conseguenza, costituiti solo dai cosiddetti patricii, ovvero i membri dei gruppi primitivi e di quelli entrati a far parte della comunità romana successivamente per cooptatio (ammissione o adozione all'interno di una comunità). L'assemblea istituita dal mitico Romolo sopravvisse anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, fino al VII secolo d.C.

Re Romolo istituì anche i Comizi curiati, espressi dalle curie, le assemblee degli uomini (cou-virie) che formavano le tribù ai quali spettava il compito di ratificare, tra le altre cose, le leggi.  

A lui risale la divisione della popolazione patrizia nelle tribù dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres, che erano a loro volta suddivise in dieci curie, le quali dovevano in caso di pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3.000 fanti e 300 cavalieri. Dopo aver regnato 40 anni, Romolo, secondo la leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino venerato sul Quirinale.


Denario con gli dèi Quirino e Ceres. Immagine
di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.
cngcoins.com
, CC BY-SA 3.0, https://commons.
wikimedia.org/w/index.php?curid=4782551
Molte emanazioni degli ordinamenti dell'epoca monarchica sono firmati "Populus Romanus Quirites", intendendo per Populus il potenziale militare (nel latino arcaico il verbo "populare" significava "devastare") che ai quei tempi era stimato in 3.000 fanti e 300 cavalieri, e per Quirites, l'insieme del corpo civico, le individualità componenti la massa dei cittadini Romani, protetti da Quirino, il dio romano delle curie, passato poi alla protezione delle pacifiche attività degli uomini liberi. Quiriti era il termine endoetnonimo che i Romani utilizzavano per designare se stessi, nella loro qualità di cittadini dell'Urbe fondata da Romolodivinizzato alla sua morte nel dio Quirino stesso. Assieme a Marte e a Giove, Quirino, identificato quindi con Romolo, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica" delle divinità maggiori che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Quirino e Giano saranno gli unici dèi romani a non essere assimilati a divinità ellenistiche. La festività tradizionale di Quirino, denominata Quirinalia, cadeva il 17 febbraio ed era celebrata dal sacerdote flamen quirinalis. Il più antico santuario di Quirino era la rupe più alta del colle Quirinale; in seguito gli fu costruito un tempio presso la porta Quirinale e poi un altro, nel 293 a.C., dedicato da Lucio Papirio Cursore, nel quale era conservato il trattato fra Roma e Gabi, scritto su una pelle di bue che copriva uno scudo. Gabi era una città del Latium vetus posta al XII miglio della via Prenestina, che collegava Roma a Præneste, che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della Lega Latina. Oggi è un sito archeologico nella città metropolitana di Roma Capitale. Le sue cave fornivano un'eccellente pietra da costruzione.

Lupa capitolina, di Merulana -
Opera propria, CC BY-SA 4.0,
https://commons.wikimedia.org
/w/index.php?curid=127115610

Secondo la leggenda tramandataci da Tito Livio, dopo che i mitici gemelli Romolo e Remo rinsediarono sul trono di Alba Longa il nonno Numitore, furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Inoltre la popolazione di Albani e Latini era in eccesso. A questo si erano anche aggiunti i pastori. Tutti insieme certamente nutrivano la speranza che Alba Longa e Lavinio sarebbero state piccole nei confronti della città che stava per essere fondata. Su questi progetti si innestò poi un tarlo ereditato dagli avi, cioè la sete di potere, e di lì nacque una contesa fatale dopo un inizio abbastanza tranquillo. Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dèi che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino.

Carta di Roma arcaica con la
cittadella di Romolo sul Palatino.
La cinta muraria esterna sarà
iniziata da Tarquinio Prisco e
ultimata da Servio Tullio.
Da "Ab Urbe Condita Libri" I di Tito Livio: «7 Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: “Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.” In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. In primo luogo fortifica il Palatino, sul quale lui stesso era stato allevato. Offre sacrifici in onore degli altri dèi secondo il rito albano, e secondo quello greco in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da *Evandro
*Evandro è una figura della mitologia romana. Era figlio del dio Mercurio e della ninfa Carmenta. Gli Arcadi, provenienti da Argo e guidati da Evandro, arrivarono sulle coste tirreniche del Lazio e avavano fondato la cittadella di Pallante sul Palatino. (N.d.R.)
Tito Livio poi prosegue: «Stando alla leggenda, proprio in questi luoghi Ercole uccise Gerione e gli portò via gli splendidi buoi” e il pastore Caco tentò di farne sparire una parte nascondendole in una grotta, ma quando giunse il semidio “Caco cercò di impedirgli con la forza l'ingresso nella grotta. Ma mentre tentava invano di far intervenire gli altri pastori, stramazzò al suolo schiantato da un colpo di clava. In quel tempo governava la zona, più per prestigio personale che per un potere conferitogli, Evandro, esule dal Peloponneso, uomo degno di venerazione perché sapeva scrivere, cosa nuova e prodigiosa in mezzo a bifolchi del genere, e ancor più degno di venerazione per la supposta natura divina della madre Carmenta, che prima dell'arrivo in Italia della Sibilla aveva sbalordito quelle genti con le sue doti di profetessa. Evandro dunque, attirato dalla folla di pastori accorsi sbigottiti intorno allo straniero colto in flagrante omicidio, dopo aver ascoltato il racconto del delitto e delle sue cause, osservando attentamente le fattezze e la corporatura dell'individuo, più maestose e imponenti del normale, gli domandò chi fosse. Quando venne a sapere il nome, chi era suo padre e da dove veniva, disse: “Salute a te, Ercole, figlio di Giove. Mia madre, interprete veritiera degli dèi, mi ha vaticinato che tu andrai ad accrescere il numero degli immortali e qui ti verrà dedicato un altare che un giorno il popolo più potente della terra chiamerà Altare Massimo e venererà secondo il tuo rito.” Ercole, dopo aver teso la mano destra, disse che accettava l'augurio e che avrebbe portato a compimento la volontà del destino costruendo e consacrando l'altare. Lì, prendendo dal gregge un capo di straordinaria bellezza, fu per la prima volta compiuto un sacrificio in onore di Ercole.” A occuparsi della cerimonia e del banchetto sacrificale furono chiamati Potizi e Pinari, in quel tempo le famiglie più illustri della zona. Per caso successe che i Potizi giungessero all'ora stabilita e le viscere degli animali vennero poste di fronte a loro, mentre i Pinari, quando ormai le viscere erano stae mangiate, arrivarono a banchetto cominciato. I Potizi, istruiti da Evandro, furono per molte generazioni sacerdoti di questo rito sacro. Questi furono gli unici, fra tutti i riti di importazione, a essere allora accolti da Romolo, già in quel periodo conscio dell'immortalità che avrebbe ottenuto col valore e verso la quale lo conduceva il suo destino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7.)

Littore con fascio
littorio.
«8 Sistemata la sfera del divino in maniera conforme alle usanze religiose e convocata in assemblea la massa, che nulla, salvo il vincolo giuridico, poteva unire nel complesso di un solo popolo, diede loro un sistema di leggi
Pensando che esso sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici solo a patto di rendere se stesso degno di venerazione per i segni distintivi dell'autorità, diventò più maestoso sia nel resto della persona sia soprattutto grazie ai dodici littori di cui si circondò.
Sella curule.
Alcuni ritengono che egli adottò il numero in base a quello degli uccelli che, col loro augurio, gli avevano pronosticato il regno. 
A me non dispiace la tesi di quelli che sostengono importati dalla confinante Etruria (donde furono introdotte la sedia curule e la toga pretesta) tanto questo tipo di subalterni quanto il loro stesso numero. 
Romano con toga
praetexta.
Nel frattempo la città cresceva in fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi spazi: si costruiva più nella speranza di un incremento demografico negli anni a venire che per le proporzioni presenti della popolazione. In seguito, perché l'ampliamento della città non fosse fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno a sè genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di essere autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due boschi. Lì, dalle popolazioni confinanti, andò a riparare una massa eterogenea di individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto di ampliamento. Ormai soddisfatto di tali forze, provvede a dotarli di un'assemblea. 
Elegge cento senatori, sia perché questo numero era sufficiente, sia perché erano soltanto cento quelli che potevano ambire a una carica del genere. In ogni caso, quest'onore gli valse il titolo di padri, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8.)

Patrizio Torlonia di
 profilo, da https://it.wiki
pedia.org/wiki/Patrizio
_Torlonia
.
Patrizio Torlonia, da https
://it.wikipedia.org/wiki/
Patrizio_Torlonia
.
La testa 535 della Collezione Torlonia, detta anche patrizio Torlonia, ritrae un ignoto personaggio virile ed è il capolavoro del cosiddetto ritratto romano repubblicano, cruda  effigie del patriziato romano durante la dittatura di Silla. Si tratta di una copia di epoca tiberiana (I secolo d.C.) di un originale databile al decennio 80-70 a.C. In quest'opera sono ben evidenti tutte quelle caratteristiche che i patrizi dell'epoca volevano mettere in evidenza, in una dura epoca che vedeva finalmente trionfare le loro ambizioni dopo i momenti difficili della lotta ai Gracchi, dell'avanzata della plebe e delle guerre civili. In una resa particolarmente secca e asciutta, il trattamento minuzioso dell'epidermide non risparmia nessuno dei segni della vecchiaia: anzi essi stanno a significare la dura vita contadina e militare del patrizio, la fierezza inflessibile della sua casta e un certo sdegno, eloquentemente rappresentato dal taglio duro della bocca e dall'espressione ferma e sprezzante dello sguardo. Il notevolissimo realismo veicola quindi un preciso messaggio politico e sociale.

«9 Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in seguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi disponibili all'epoca. Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale. Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)

«10 Ormai l'ira delle ragazze rapite si era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini, perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. Quell'affronto riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò questi tre popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così i Ceninensi invadono da soli il territorio romano. Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica, la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si scontra in duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. Dopo aver eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città al primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una barella costruita all'occorrenza, salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del dio: “Io, Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la mia volontà, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie opime che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia.” Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così, da quel giorno in poi, piacque agli dèi che fosse legge la parola del fondatore del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse svilita dal numero elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute. Ciò nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così rara fu la fortuna di quell'onore.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 10.)

«11 Mentre i Romani si stavano occupando di queste cose, gli Antemnati, cogliendo al volo l'occasione offerta dalla loro assenza, compiono un'incursione armata nel nostro territorio. Ma le truppe romane, spinte a marce forzate anche in quella direzione, piombano loro addosso trovandoli sparpagliati nei campi. Fu così che bastò il primo urto accompagnato dall'urlo di guerra per sbaragliarli e conquistarne la città. Mentre Romolo era nel pieno dell'ovazione per il doppio trionfo, la moglie Ersilia, cedendo alle preghiere incessanti delle donne rapite, lo prega di perdonarne i genitori e di ammetterli all'interno della città (la cui potenza sarebbe così aumentata proprio grazie alla concordia interna). Egli acconsente facilmente. Quindi marcia contro i Crustumini che erano in procinto di attaccare. Ma la loro resistenza durò ancora meno di quella degli alleati: di fronte a disfatte del genere, non era rimasto troppo coraggio. In entrambi i paesi sottomessi furono inviati coloni. La maggior parte di essi, però, si iscrissero per Crustumino a causa della fertilità della terra. Dall'altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori e parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L'ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti, non agirono sotto l'impulso del risentimento e dell'ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla guerra. Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene corrotta con dell'oro da Tazio e costretta a fare entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data. La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro braccialetti d'oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al posto dell'oro promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi. Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse tradire, l'uccisero proprio col compenso che aveva richiesto.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11.)

«12 Comunque sia, i Sabini si impossessarono della *cittadella.» 

Roma quadrata, la prima
cittadella, di Cristiano64, https
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w/index.php?curid=8317009
 
*Risulta verosimile che la cittadella romulea fosse sul colle Palatino (Palatium), e con Cermalus e Velia, l'area avesse un perimetro trapezoidale, da cui il nome Roma quadrata. Secondo alcuni storici, la prima civitas quadrata formata sul Palatino fu in seguito allargata al Septimontium e poi alla città delle quattro regioni. (N.d.R.)
Tito Livio prosegue: «Il giorno dopo, quando l'esercito romano aveva gremito, col suo schieramento al completo, lo spazio compreso tra il Palatino e il Campidoglio, i Sabini non calarono subito in pianura ma rimasero ad aspettare che l'indignazione e il desiderio di recuperare la rocca spingessero i Romani a risalire la china e ad affrontarli su in alto. I capi di entrambi gli schieramenti incitavano alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Quest'ultimo, nonostante la posizione svantaggiosa, teneva alto il morale con dimostrazioni di coraggio e di audacia nelle prime file. Ma, caduto lui, subito i Romani registrarono un netto cedimento e andarono a rifugiarsi presso la vecchia porta del Palatino. Romolo stesso, trascinato dalla massa dei soldati in ritirata, sollevando le armi al cielo, gridò: “O Giove, è per obbedire al tuo volere che ho gettato le prime fondamenta di Roma proprio qui sul Palatino. Ormai la cittadella è in mano ai Sabini che l'hanno conquistata nella più turpe delle maniere. Di là, attraverso la vallata, stanno avanzando armati verso di noi. Ma tu, padre degli dèi e degli uomini, tieni lontani almeno da qui i nemici, libera i Romani dal terrore e frena questa loro vergognosa ritirata! Prometto che qui, o Giove Statore, io innalzerò un tempio per ricordare ai posteri che è stato il tuo aiuto inesauribile a salvare la città”. Al termine della preghiera, come se avesse avuto la sensazione di essere stato esaudito, disse: “Qui, o Romani, Giove ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di ricominciare a combattere”. E i Romani si fermarono, proprio come se stessero obbedendo a un ordine piovuto dal cielo. Romolo in persona si lancia nelle prime file. Mezio Curzio, intanto, a capo dei Sabini, aveva guidato la carica dall'alto della cittadella e fatto il vuoto in mezzo alle fila romane, gettando lo scompiglio per tutto lo spazio occupato dal foro. 
Tabularium di Roma: rilievo
originale dell'episodio di Mezio
Curzio al Lacus Curtius.
Immagine di Lalupa - Opera
propria, CC BY-SA 3.0, https://
commons.wikimedia.org/w/
index.php?curid=37054225
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E, ormai non lontano dalla porta del Palatino, gridava: “Li abbiamo battuti, ospiti malvagi e nemici codardi che non sono altro! Ora lo sanno che differenza passa tra rapire delle ragazze inermi e combattere contro degli uomini veri.” Mentre così si gloria, gli si avventa addosso, guidato da Romolo, un gruppo di giovani pronti a tutto. Per caso in quel momento Mezio stava combattendo a cavallo e fu così più facile respingerlo. Dopo averlo messo in fuga, i Romani proseguono sullo slancio e il resto dell'esercito, infiammato dall'audacia del re, riesce a sbaragliare i Sabini. Mezio fu trascinato in una palude dal suo cavallo, divenuto ingovernabile per lo strepito degli inseguitori e la cosa attirò l'attenzione anche dei Sabini che temevano di perdere una figura così carismatica: urlando e facendogli ampi gesti, gli dimostrarono il loro attaccamento ed egli riuscì a tirarsi fuori dalla melma. Romani e Sabini riprendono così a combattere nella valle che si estende tra le due colline. Ma i Romani continuavano ad avere la meglio.» (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 12.)

«13 Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. 

Jacques-Louis David - "Le Sabine"
(1794) al Louvre. Al centro, tra
Romolo e Tito Tazio, c'è Ersilia.
Da https://it.wikipedia.org/wiki
/Ratto_delle_Sabine#/media/
File:The_Intervention_of_the
_Sabine_Women.jpg
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Da una parte supplicavano i mariti e dall'altra i padri. Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri. “Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od orfane.” L'episodio non tocca soltanto la massa dei soldati ma anche i comandanti, e su tutti cala improvvisa una quiete silenziosa. Poi vengono avanti i generali per stipulare un trattato e non si accordano esclusivamente sulla pace, ma varano anche l'unione dei due popoli. Associano i due regni, trasferendo però l'intero potere decisionale a Roma che vede così raddoppiata la sua popolazione. Tuttavia, per venire in qualche modo incontro ai Sabini, i cittadini romani presero il nome di Quiriti dalla città di Cures. E in memoria di quella battaglia chiamarono lago Curzio lo specchio d'acqua dove il cavallo di Curzio emerse dal profondo della melma e portò in salvo il suo cavaliere. A una guerra così catastrofica seguì improvvisamente un felice periodo di pace che rese le donne sabine più gradite ai loro mariti e ai loro genitori, ma, sopra tutti, a Romolo stesso. Così, quando questi divise la popolazione in trenta curie, diede a esse il nome delle donne. Senza dubbio il loro numero era in qualche modo superiore: la tradizione non ci informa se fu l'età, la loro classe sociale o quella dei mariti, oppure un'estrazione a sorte il criterio utilizzato per stabilire quali dovessero dare il nome alle curie. Nello stesso periodo vennero formate tre centurie di cavalieri. Ramnensi e Tiziensi devono i loro nomi a Romolo e a Tito Tazio. Quanto invece ai Luceri, nome e origine sono poco chiari. Di lì in poi, i due sovrani regnarono non solo in comune, ma anche in perfetto accordo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.)

«14 Alcuni anni dopo, certi parenti di Tito Tazio maltrattano gli ambasciatori dei Laurenti e, nonostante il loro appellarsi al diritto delle genti, Tito mostra di avere orecchie soltanto per le preghiere dei suoi. Così facendo, assume su di sé la responsabilità della loro mancanza. E infatti, un giorno che era andato a Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza. Si narra che la cosa addolorò Romolo meno del dovuto, sia per la dubbia affidabilità di una simile divisione del potere, sia perché credeva che quella morte non fosse del tutto immeritata. Per questo evitò di far ricorso alla guerra. Tuttavia, per garantire l'espiazione della morte del re e dell'offesa ai danni degli ambasciatori, fece rinnovare il trattato tra Roma e Lavinio. Questa pace, a dir la verità, fu un evento al di sopra di ogni aspettativa. Invece scoppiò un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi alle porte di Roma. Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse forte come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a devastare le campagne tra Roma e Fidene. Di là piegano verso sinistra (a destra niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono atti di vandalismo terrorizzando i contadini. L'improvviso trambusto creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente alla testa dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene. Dopo avervi lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle truppe. Una parte di queste ordinò che si piazzasse, pronta a lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno riparata da fitti cespugli. Poi, con il blocco più consistente dell'esercito e con tutta la cavalleria, si mise in marcia e, proprio come si era prefissato, riuscì ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di tattica spericolata e minacciosa, con i cavalieri che scorrazzavano fin quasi sotto le porte. D'altra parte, per la fuga che doveva esser simulata, questo assalto a cavallo forniva un pretesto più verisimile. E quando non solo la cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire, ma anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si spalancarono le porte e le linee romane furono travolte dallo straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento, furono trascinati nel punto dell'imboscata. Là i Romani saltano fuori a sorpresa e attaccano sul fianco la schiera dei nemici. Allo stupore si aggiunge la paura: dall'accampamento si vedono avanzare gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione. Così i Fidenati, in preda al panico più totale, fanno dietro-front quasi prima ancora che Romolo e i suoi uomini riuscissero a girare i loro cavalli. E visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnavano la città in maniera di gran lunga più disordinata di quelli che, poco prima, essi avevano inseguito ingannati dalla loro simulazione di fuga. Però non riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li incalzavano da dietro e, prima che le porte della città venissero chiuse, irruppero all'interno, quando ormai i due eserciti sembravano uno solo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 14.)

Fin dalla sua mitica fondazione, le guerre di Roma contro la città etrusca di Veio sono state una costante, per motivazioni di tipo economico. Veio era ricca, posta a 20 km a nord di Roma su un altopiano facilmente difendibile, dominava il territorio sulla riva destra del Tevere, il confine naturale fra il territorio etrusco e quello delle popolazioni latine e la principale via di traffico dalle saline, sulla stessa sponda destra del fiume, dal mare verso l'interno; il miglior collegamento fra il sud dell'area etrusca tradizionale e Capua, il primo avamposto etrusco nel meridione italiano, incuneato fra i Latini e l'incombente marea colonizzatrice dei coloni Greci.

Roma arcaica, Veio, le saline alla foce del Tevere
e i 7 pagi di Veio, da http://odysseus-viaggionella
storia.blogspot.com/2006/04/roma-si-
rafforza-le-guerre-sannitiche.html
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Per i Veienti, Roma era una pericolosa potenziale concorrente, posta in posizione dominante sul lato sinistro del Tevere, a controllo della navigazione e dei commerci che avvenivano su di esso, per cui lo scontro fra le due città era inevitabile, poiché la potenza e la ricchezza di una avrebbe significato la decadenza e la povertà dell'altra.

Fondamentale era quindi il controllo dei septem pagi, i sette villaggi che sorgevano di fronte a Roma ma dall'altra parte del Tevere, sulla via del commercio del sale che, dalle saline poste alla foce del fiume, portava verso l'interno e che i romani chiameranno infatti via Salaria. Roma quindi poteva ostacolare i traffici fra Veio e il mare e d'altra parte, per Roma, la città etrusca era il primo grosso ostacolo per la propria espansione commerciale e militare verso l'Etruria, ed era inoltre strettamente alleata alle città di Capena (fondata, secondo la tradizione, da Veienti guidati dal leggendario re Properzio), Falerii e Fidene.


In verde, Veio e città etrusche, in giallo città latine,
da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/com
mons/3/30/Carte_GuerresRomanoVeies.
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A quanto raccontano Tito Livio e Plutarco, fu Veio a iniziare le ostilità, reclamando Fidene, poiché riteneva che le appartenesse. Secondo Plutarco: «Era una pretesa non solo ingiusta ma anche ridicola, perché quando i Fidenati stavano combattendo ed erano in grave pericolo, a quel tempo non solo non li avevano aiutati, ma avevano permesso che molti uomini morissero, ed ora pretendevano di avere diritti su città e territorio, quando essi già appartenevano ai Romani.». (Plutarco, Vita di Romolo, 25, 2.). Livio scrisse come Romolo, nei confronti di Veio, volesse una dimicatio ultima, una battaglia risolutiva: «La guerra fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità per la comune appartenenza al popolo estrusco [...] Persero parte del territorio, ma ottennero una tregua di ben cento anni.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)

Plutarco racconta che i Veienti divisero il loro esercito in due schiere e con l'una assalirono l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e con l'altra si scontrarono con Romolo. A Fidene ottennero una vittoria parziale in cui riuscirono ad uccidere 2.000 Romani, ma nel secondo scontro persero la vita ben 8.000 Veienti e Romolo ebbe la meglio. Il successivo e decisivo scontro vide i due eserciti combattere sempre nel territorio di Fidene, dove Romolo dimostrò il maggior merito della vittoria per la sua grande abilità tattica e per il coraggio. Al termine della terza ed ultima battaglia, c'erano sul campo di battaglia ben 14.000 caduti. E Romolo, dopo aver sbaragliato l'esercito nemico, inseguì i Veienti fin sotto le mura della loro città, e poté sottrarre a Veio i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e quelli delle Saline, alla foce del Tevere, in cambio di una tregua della durata di cento anni, tregua contrassegnata da continue frizioni fra le due città, tali da sfociare, con una certa continuità, in combattimenti serrati e saccheggi nei rispettivi territori.

Il distanziamento temporale fra gli scontri, poteva essere dovuto all'osservanza di tregue (come quella della durata di cento anni) o all'impegno sostenuto nel combattere altri nemici. Roma era sempre impegnata con i vari vicini Sabini, Latini, Ernici, Rutuli, Volsci ecc. e anche Veio aveva dei vicini turbolenti, ed essendo ripetutamente sconfitta dai Romani, certamente doveva pagare anche le relative riparazioni economiche, in genere con perdite di territorio e di conseguenza andava via via impoverendosi.


I plebei (singolare "plebeo") nell'antica Roma erano i cittadini romani appartenenti alla classe della plebe (in latino: plebs, plebis), i popolani, distinti dai patrizi, gli aristocratici. Secondo Dionigi di Alicarnasso, Romolo, dopo aver creato le Tribù e le curia, suddivise il popolo romano in Patrizi e Plebei, contando tra i primi quelli notabili per nascita, virtù e danaro e tra i secondi gli altri. Lo storico Tito Livio afferma che Romolo nominò cento senatori, detti "patres" (e patrizi i loro discendenti), sulla base della loro posizione gerarchica all'interno delle famiglie che componevano le gentes delle tribù.
Gustave Boulanger (1824-1888)
- "Il concerto di flauto", dove un
 patronus romano riceve
dei clientes,
Romolo assegnò inizialmente ai patrizi tutte le magistrature romane, mentre destinò i plebei al lavoro dei campi, all'allevamento e al commercio. Romolo avrebbe quindi anche creato il rapporto di patronato tra il Cliens e il Patrono, ponendo i plebei in posizione giuridicamente dipendente dai patrizi.
Ecco quindi che, con l'andare del tempo, i plebei saranno coinvolti nella leva militare a discapito della sussistenza delle loro famiglie, mentre i patrizi, con le guerre di conquista, si arricchivano. Tutto ciò porterà, dall'istituzione della Res Publica romana (509 a.C.) al lungo "conflitto degli ordini" fra plebei e patrizi, prodromo delle guerre civili fra "populares" e "optimati" aristocratici, che porteranno al principato di Augusto e al dominato da Settimio Severo in poi.  

Tito Livio poi prosegue: «15 La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura. Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sè, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)

Secondo la tradizione quindi, Romolo creò il primo esercito della città di Roma, costituito da un'unica legione (dal latino legio, derivato del verbo legere, "raccogliere o legare insieme"), cosicché esercito e legione erano concetti sinonimi. La legione unica era composta da 3.000 fanti (pedites) schierati in battaglia sull'esempio della falange greca e da 300 cavalieri (equites), tutti arruolati di leva fra i cittadini delle tre tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma, i Tities, i Ramnes e i Luceres. 

Nella disposizione tattica della legione, la fanteria si disponeva su tre file, nella tipica formazione a  falange, con la cavalleria ai lati, le alae, i cui squadroni erano alle dipendenze di un tribunus celerum, sotto il diretto comando dello stesso Rex, il comandante supremo, a cui spettava anche il compito di sciogliere  l'esercito al termine della campagna militare dell'anno, per permettere ai cittadini l'accudimento ai propri mestieri. A lui erano subordinati anche tre tribuni militum (i generali) della fanteria, ciascuno dei quali era a capo dei 1.000 fanti di ognuna delle tre tribù. 

Cavaliere ausiliario con
lancia, particolare da
una pietra tombale
romana di Colonia, I
secolo. Di Mediatus
 - Opera propria, CC
BY-SA 3.0, https://
commons.wikimedia.
org/w/index.php?
curid=6555742
.
La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva quindi compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, azioni di disturbo o di  inseguimento al termine della battaglia o veniva infine utilizzata per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti e non era quindi ipotizzabile a quei tempi una cavalleria "d'urto". A Roma, in epoca monarchica e repubblicana, la sella (ephippia) dei rari cavalieri romani e dei più numerosi cavalieri alleati Italici, era probabilmente costituita da una semplice coperta o gualdrappa (tapetum) o da una protezione in cuoio (ephippium) di derivazione greca. Pare comunque che, secondo la considerazione comune, la gualdrappa, più o meno imbottita, fosse  inappropriata per un uomo armato.

Tutti i militari appartenenti all'esercito dovevano sostenere le spese per i loro armamenti, visto che  combattevano sia per tutelare gli interessi comuni che quelli personali. Nella ripartizione degli incarichi e delle gerarchie della fanteria si privilegiava la nobiltà di nascita mentre la cavalleria era sostanzialmente appannaggio della sola aristocrazia.

Romolo costituì inoltre una guardia privata del re costituita da ulteriori  trecento cavalieri chiamati  Celeres (eliminata poi da Numa Pompilio ma reintrodotta e raddoppiata da Tarquinio Prisco),  similmente a quanto fece oltre settecento anni più tardi Augusto, con la creazione della guardia  pretoriana, designata alla tutela del Princeps.

I cosiddetti Celeres (cioè i veloci) le guardie preposte alla tutela del re, furono in seguito impiegate per mantenere l'ordine pubblico urbano, ottenendo così che il loro cavallo, chiamato equus publicus, (cavallo pubblico), fosse acquistato e mantenuto dallo Stato ed i Celeres stessi venivano indicati come gli Equites Romani Equo Publico.

Fra i cavalieri c'erano quindi gli "Equites Romani Equo Publico" e i semplici "Equites". Solo un numero ristretto di cavalieri, un quarto circa del totale, riusciva ad entrare nell'arruolamento di ordine pubblico, col privilegio del cavallo fornito e mantenuto dallo Stato, mentre i semplici Equites dovevano comprarlo e mantenerlo a proprie spese; ma soprattutto gli "Equites Romani Equo Publico" avevano il vantaggio di poter ottenere delle cariche pubbliche, sia giuridiche che senatoriali, che agli equites  ordinari erano precluse.

Fin dai tempi degli Equites Romani Equo Publico quindi, con l'espressione "cavaliere" ci si poteva riferire sia ad una qualifica militare che ad una appartenenza politico-sociale


Per rendere pubblico il casato di appartenenza degli Equites Romani Equo Publico (e in seguito, di  tutti gli altri cittadini), venne istituito il nomen della gens di appartenenza da far seguire al prenomen, il nome proprio
Il nomen era il nome gentilizio e indicava i componenti di una gens, cioè i discendenti dagli stessi antenati. Era espresso con un aggettivo terminante in -ius, che indicava l’appartenenza a una stirpe, per cui Marcus Iulius significava “Marco degli Iulii” (discendenti da Iulo, leggendario figlio di Enea). Il nomen individuava quindi la stirpe di appartenenza ed era portato anche dalle famiglie plebee. 
Il cognomen invece era aggiunto al nomen gentilizio; inizialmente era individuale e poteva essere un nomignolo popolare come Lentulus (da lenticchia), Cicerone (da cece), Lepidus (da scherzoso) ma in seguito divenne ereditario per distinguere la familia di appartenenza nel contesto della stessa gens, come ad esempio i Cornelii Cathegi distinti dai Cornelii Scipiones, distinti dai Cornelii Balbi, distinti dai Cornelii Lentuli. 
Infine c’erano i cognomina trionfali, conferiti ai vincitori, per cui Scipione divenne "Africanus" dopo la vittoria su Cartagine, così come Nerone Claudio Druso (conosciuto come Druso maggiore) e i suoi discendenti portavano come cognome "Germanicus" per le vittorie di questi sui Germani. Gli schiavi avevano soltanto il nomen ma se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il cognomen e spesso anche il praenomen del loro ex padrone.

Tratto da https://www.romanoimpero.com/2010/04/gli-equites-romani.html. In generale, i cavalieri Romani Equo Publico ostentavano, come abbigliamento distintivo del loro incarico:
- l’anello d’oro, 
- le borchie d’argento del cavallo, 
- la trabea o mantello da cavaliere col bordo rosso, 
- la scarpa rossa detta calceus patricius 
- e il bordo rosso (clavus) alla toga e alla tunica: tutti distintivi che adotteranno poi i patrizi romani. 
La la più antica nobiltà di Roma derivava infatti i propri costumi dalla cavalleria d'età regia, per cui si desume che a Roma la cavalleria fosse appannaggio della sola aristocrazia, così come nell'antica Grecia. 

Prosegue Tito Livio: «16 Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra. I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: “Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo,” egli concluse, “è scomparso in cielo.” È incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo, l'assicurazione della sua immortalità.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.)

La reale esistenza di Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsen sarebbe comprovata dalla presenza tra le gentes originarie di Roma (di cui parla Tito Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di Festo (la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remoria nei pressi della Roma quadrata (sull'Aventino).

Secondo il linguista Carlo De Simone, i nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero da un termine ricostruito in ruma, al quale la tradizione romana assegnava il significato di "mammella". Il termine sarebbe di origine etrusca, perché non ne è stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua non-indoeuropea della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na, divenuto in latino Romilius. Il Villar, invece, sostiene che il nome Roma fosse, molto probabilmente, il nome preindoeuropeo del Tevere trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva frequentemente a quel tempo.
Secondo altre ipotesi (sempre più smentite dalle campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma sarebbero figure principalmente simboliche (in particolare sembrano complementari i primi due, Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero introdotto le massime istituzioni politico-militari e religiose dello stato).

La reale esistenza della figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini (vedi su You Tube un suo video sulla fondazione di Roma: https://www.youtube.com/watch?v=mfxvEHr842Q&t=3019s&ab_channel=Fabius2721), sulla base di moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza al secolo VIII a.C., circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione.

Inoltre, sulla base di una fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger nel 1899 fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato.

Il Lapis niger ("pietra nera" in latino) è un'area lastrica con antiche pietre nere sul luogo dei comizi, sotto la quale si trovano i resti di un'antica area sacra, nel Foro Romano. Il nome deriva dal fatto che il luogo era segnalato da lastre di marmo circondate da una specie di cornice di marmi bianchi il che lo distingueva nettamente dal resto del comizio, che presentava invece una pavimentazione in travertino. L'area venne sepolta e recintata nella tarda età repubblicana, coperta da un pavimento di marmo nero (da cui il nome Lapis niger) e considerata un luogo inviolabile.
All'epoca di Varrone esistevano ancora due leoni accovacciati, figure tipiche, in Italia come in Grecia, di guardiani dei sepolcri. Il Lapis niger fu riscoperto il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni: il ritrovamento venne presto associato ad una serie di passi di antichi scrittori, tra i quali Sesto Pompeo Festo e Verrio Flacco, che raccontavano della presenza di un sepolcro nel Foro Romano. Non c'era però concordia sul personaggio che vi fosse stato sepolto; alternativamente si pensava a Romolo, Faustolo o Tullo Ostilio.

Durante gli scavi legati alla sua scoperta l'area fu scavata e, a circa 1,5 metri sotto il piano del Lapis niger, fu ritrovato un altare con un cippo che presentava un'iscrizione con una delle più antiche testimonianze scritte della lingua latina, databile intorno al 575-550 a.C. L'altare ha una tipologia canonica, con la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto (della quale si conserva però solo lo scalino inferiore). Il tutto era situato all'aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti. L'attribuzione esatta dell'altare e dei basamenti adiacenti è discussa, e oscilla tra la fine dell'età regia e l'inizio di quella repubblicana (VI secolo a.C.). Dionigi d'Alicarnasso, in visita alla città all'epoca di Augusto, ricordò la presenza di una statua di Romolo nel Volcanale accanto ad un'iscrizione in caratteri "greci": in effetti l'iscrizione è in caratteri simili a quelli greci, ma non in greco: la vicinanza di questo luogo al sito del Lapis niger ha fatto pensare a una ricostruzione più tarda dell'iscrizione e della statua. Santuari dedicati ai fondatori delle città esistevano anche in altre zone: a Lavinio esisteva un sacello dedicato a Enea divinizzato, ed anche le città greche avevano spesso un heroon nell'agorà, dedicato ai fondatori veri o presunti.


Cippo da Lapis
Niger: Giovanni
Dore, CC BY 3.0
https://commo
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.org/w/index.
php?curid=
58926647
Il cippo aveva forse in passato una grossolana forma piramidale, e doveva essere posto in prossimità dell'ingresso dell'area. Esso reca un'iscrizione in alfabeto latino arcaico, con caratteri di derivazione greco-etrusca e andamento bustrofedico (alternativamente, da sinistra a destra e da destra a sinistra, come si muovono i buoi quando arano il campo), di cui una delle possibili trascrizioni è:
«QUOI HON [...] / [...] SAKROS ES / ED SORD [...]
[...] OKA FHAS / RECEI IO [...] / [...] EVAM / QUOS RE[...]
[...]KALATO / REM HAB[...] / [...]TOD IOUXMEN / TA KAPIAD OTAV[...]
[...]M ITER PE[...] / [...]M QUOI HA / VELOD NEQV[...] /[...]IOD IOUESTOD
LOVQVIOD QO[...]» 
Si tratta di una prescrizione di carattere religioso, forse un divieto di passaggio sul luogo, pena altrimenti la consacrazione agli dèi inferi (SAKROS ESED, vi si legge, ovvero SACER SIT in latino classico); probabilmente esisteva nel sito un antico sepolcro incluso ormai nell'abitato, che non doveva essere profanato per nessun motivo.
Fino alla dimostrazione dell'autenticità della Fibula prenestina, questa è sembrata essere la più antica iscrizione latina mai rinvenuta, risultando di ardua comprensione. È utile riportare la sua versione in latino classico, da cui risaltano le notevoli differenze in particolare per la morfologia e la fonetica:
«QUI HUNC […] SACER SIT […] REGI CALATOREM […] IUMENTA CAPIAT […] IUSTO»
che si ritiene possa essere (parzialmente) completata nel seguente modo: «QUI HUNC [LOCUM VIOLAVERIT] SACER SIT […] REGI CALATOREM […] IUMENTA CAPIAT […] IUSTO [?]»
Che tradotto potrebbe significare: «Chi violerà questo luogo sia maledetto […] al re l'araldo […] prenda il bestiame […] giusto [?]»

In definitiva l'iscrizione consacrava alle divinità infernali, ovvero malediceva, chi violasse quel luogo. La dedica al re (RECEI, un dativo) sembra riferirsi a un vero e proprio monarca, e non al successivo rex sacrorum che dopo il 509 a.C. ne prese in consegna le funzioni religiose.
L'iscrizione è di fondamentale importanza per lo studio dell'evoluzione della lingua latina: gli studiosi (tra di loro il più importante commentatore del Lapis niger fu Luigi Ceci) catalogano il Lapis Niger come CIL I, 1, dove la sigla è l'abbreviazione di Corpus Inscriptionum Latinarum, la monumentale raccolta di tutte le iscrizioni romane, ordinate cronologicamente per luogo di ritrovamento. Il tutto viene datato al VI secolo a.C.

Sulla destra, l'area del comitium
nel Foro, da https://www.abouta
rtonline.com/una-tomba-o-un-ce
notafio-e-di-romolo-dubbi-tra-
gli-esperti-sullimportante-ritrova
mento-negli-scavi-al-
foro-romano/
Il cippo è stato rinvenuto mutilo, poiché in epoca imprecisata fu reimpiegato come sostegno per le lastre in marmo dell'impiantito. Il manufatto si trova ancora in loco, ma ne sono state realizzate varie copie (Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano. Antiquarium Forense, Museo della civiltà romana).

Interno dell'ipogeo, tomba o
cenotafio. Da https://www.abou
tartonline.com/una-tomba-o-un
-cenotafio-e-di-romolo-dubbi-
tra-gli-esperti-sullimportante-
ritrovamento-negli-scavi-al
-foro-romano/

A possibile conferma di quanto sopra, nel febbraio 2020 nella zona sottostante alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo databile al VI secolo a.c. dedicato al culto di Romolo, contenente un sarcofago della lunghezza di circa 1,50 metri, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere stata la sua tomba, mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti.

Dopo la morte di Romolo, prosegue Tito Livio in "Ab Urbe condita libri", I, 17: «17 Nel frattempo, tra i senatori, era in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione del potere. Non si era però ancora giunti a candidature individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse fazioni all'interno delle classi. I cittadini di origine sabina, dopo la morte di Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re. Così, nel timore di dover rinunciare alla spartizione del potere pur continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che venisse eletto un re della loro etnia. Ma i Romani di vecchia data rifiutavano l'idea di avere un re forestiero. Pur nella pluralità di vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità di un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere della libertà. Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi seriamente, pensando che la città priva di un governo e l'esercito privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco da fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini particolarmente maldisposti nei loro confronti. Erano quindi tutti d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in animo di rinunciare a favore dell'altro. Così i cento senatori decidono di governare collegialmente: creano dieci decurie e da ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a gestire l'amministrazione dello stato. Governavano, quindi, in dieci, anche se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori. Il potere di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a tutti gli altri. Si trattò di un intervallo di un anno. Siccome intercorse tra due regni, fu chiamato interregno, termine ancor oggi in uso. Ma allora la plebe cominciò a lamentare l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano cento. Era chiaro che avrebbero al massimo sopportato un re e questo eletto secondo le loro preferenze. Quando i senatori si resero conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso. E così si guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo, senza però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sè. Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica. Ancor oggi, quando si votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato questo diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i senatori hanno la loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e quando non si conosce ancora l'esito del voto. In quell'occasione, il sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: “La fortuna, la prosperità e la felicità possano assisterci! Quiriti, sceglietevi un re, questo è il volere dei senatori. E se chi eleggerete sarà degno di esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano confermare la vostra scelta.” La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 17.)

«18 In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano. C'è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo. La tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine. E da quei lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? Per tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro dell'antichità. Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli dèi. Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L'augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e divise la volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. Poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: “O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.” Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 18.)

Denario del 48 a.C. con testa
barbuta di Numa Pompilio e
diadema con iscrizione NVMA,
by Classical Numismatic Group,
Inc. http://www.cngcoins.com,
CC BY-SA 2.5, https://comm
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Numa Pompilio (Cures Sabini, 754 a.C. - 673 a.C.) è stato il secondo re di Roma, e il suo regno, dal 715 a.C. al 673 a.C., è durato 42 anni. Di origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci da Tito Livio e da Plutarco, era noto per la sua pietà religiosa. Pare che abbia regnato dal 715 a.C. fino alla sua morte nel 673 a.C., avvenuta da ottantenne, dopo quarantatré anni di regno. Numa era un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno  una guerra. L'incoronazione di Numa non avvenne subito dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo i Senatori governarono  la città a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo  di sostituire la monarchia con una oligarchia
Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno i Senatori furono costretti ad eleggere un  nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori Romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori Sabini che proponevano il senatore Velesio.

Per trovare un accordo si decise di procedere in questo modo: i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abitava nella città sabina di Cures ed era sposato con Tazia, l'unica figlia di Tito Tazio, anche lui di quella cittadina. Sembra che Numa fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma (21 aprile) ed era noto a Roma come uomo di provata rettitudine, oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di Pius. I senatori Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome.

Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio (i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini) per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, Numa vi acconsentì solo dopo aver preso gli auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli; Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo.


Da Tito Livio, "Ab Urbe condita libri", I, 19: «19 Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva). Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all'uso delle armi. Per questo motivo fece costruire ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni. Dal regno di Numa in poi fu chiuso soltanto due volte: la prima al termine della prima guerra punica, durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli dèi hanno concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo la battaglia di Azio, quando cioè l'imperatore Cesare Augusto ristabilì la pace per mare e per terra. Numa lo chiuse dopo essersi assicurato con trattati di alleanza la buona disposizione di tutte le popolazioni limitrofe ed eliminando le preoccupazioni di pericoli provenienti dall'esterno. Così facendo, però, si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. Per evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli dèi, espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la dea Egeria e riferì che quest'ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli dèi, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici. Prima di tutto, basandosi sul corso della luna, divide l'anno in dodici mesi. Ma dato che i singoli mesi lunari non si compongono di trenta giorni e che ce ne sono “undici” di differenza rispetto a un intero anno calcolato in base alla rivoluzione del sole, egli aggiunse dei mesi intercalari in maniera tale che il ventesimo anno si trovassero rispetto al sole nella stessa posizione dalla quale erano partiti e che così la durata di tutti gli anni tornasse perfettamente. Stabilì anche i giorni fasti e quelli nefasti, poiché sarebbe stato utile, di quando in quando, sospendere ogni attività Pubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 19.)

«20 Quindi rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore. Per permettere loro di dedicarsi esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno stipendio dallo stato e, a causa della verginità e di altre cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche dodici Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca di bronzo sul petto. Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti dal cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città cantando inni accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi. Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese. Subordinò all'autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o all'adozione di culti di importazione. Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell'interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei numi, innalzò sull'Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece consultare il dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi si dovesse tener conto.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 20.)

«21 L'attenzione per questi fenomeni celesti e la loro continua ricerca avevano distolto il popolo intero dalla violenza delle armi, fornendogli sempre qualcosa con cui tenere occupata la mente: il pensiero incessante della presenza divina e l'impressione che le potenze ultraterrene partecipassero dei casi umani avevano permeato di pietà religiosa gli animi così profondamente che la città era governata più dal rispetto per la solennità della fede che dalla paura suscitata dalle leggi e dalle pene. E come in città i sudditi uniformavano il proprio comportamento a quello del re, in qualità di unico esempio a loro disposizione, allo stesso modo anche i popoli vicini, che in passato avevano sempre visto Roma non come una città ma come un accampamento situato in mezzo a loro e destinato a destabilizzare la pace di tutti, cominciarono a nutrire per Roma una venerazione tale da considerare una violazione sacrilega attaccare un centro urbano così integralmente votato al culto degli dèi. C'era un bosco con al centro una grotta buia dalla quale sprigionava una fonte di acqua perenne. Poichè Numa vi si recava spessissimo senza testimoni e diceva di avere lì i suoi appuntamenti con la dea, consacrò il bosco alle Camene sostenendo che queste ultime si vedevano in quella radura con la sua consorte Egeria. Istituì anche un culto solenne in onore della Fides e prescrisse che i Flamini si recassero a questo santuario con un carro coperto trainato da due cavalli e che celebrassero la cerimonia con le mani coperte fino alle dita, per indicare che la Fides non deve essere violata e che ha il suo santuario anche nella mano destra. Stabilì inoltre molti altri culti sacrificali e i luoghi a essi demandati, luoghi cui i pontefici diedero il nome di Argei. Tuttavia, tra tutti i servizi resi allo Stato, il più significativo fu questo: per l'intera durata del suo regno, consacrò ogni attenzione non meno a mantenere la pace che a tutelare il paese. Così, due re di seguito, anche se ciascuno per strade diverse, l'uno infatti con la pace, l'altro con la guerra, contribuirono alla grandezza di Roma. Romolo regnò trentasette anni, Numa quarantatré. E Roma, tanto in caso di guerra quanto nella normalità della pace, non aveva più problemi di organizzazione interna e di esperienza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 21.)

La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da Numa fu a lui dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A Numa viene attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni della nuova città, prime tra tutte quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii Numae o libri Numae, che andarono perduti nel sacco gallico di Roma (387 a. C. circa).

Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici.

Numa stabilì di unificare ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani e dei Sabini residenti a Roma per eliminare le divisioni e le tensioni fra questi due popoli, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove associazioni basate sui mestieri.

Appena divenuto re nominò, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, che rappresentava prima il corpo civico romano, poi Romolo deificato. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni.

Proibì ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini e, durante il suo regno non furono costruite statue raffiguranti gli dèi. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestali, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro.

Istituì poi il collegio delle vergini Vestali, assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia (erano dunque quattro, Anco Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei).

Istituì anche il collegio dei Feziali (i guardiani della pace) che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i conflitti con i popoli vicini e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici.

Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei Salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra (per gli antichi romani il periodo per le guerre andava da marzo ad ottobre). Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti dell'antica Roma, perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives (cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive) a milites (militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari) e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Migliorò anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia, assieme ai loro padroni.

La tradizione romana rimanda a Numa Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia.

Nel Foro, fece costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno).

Secondo l'enciclopedista Marco Verrio Flacco (secc. I a.C. - I d.C.), riportato dal lessicografo Sesto Pompeo Festo, il re, ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto egli era un convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Già nel 280 a.C.,  Aristarco di Samo (310 - 230 a.C. circa) aveva elaborato l'ipotesi di un sistema solare eliocentrico. Si suppone che la teoria di Aristarco fosse stata accettata nei primi secoli successivi alla sua esistenza, dato che Plinio il Vecchio e Seneca si riferiscono al moto retrogrado dei pianeti come a un fenomeno ottico e non reale, concezione più in linea con l'eliocentrismo che con il geocentrismo.

Secondo Dionigi di Alicarnasso, Numa poi incluse nella città il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura.


A lui viene ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi per un totale di di 355 giorni (secondo Livio invece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo; da notare la persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno che usiamo ancora oggi, con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre).
Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re seguì i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni.

«Anzitutto divise l'anno in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli fissò pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni politiche davanti al popolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 19.)

L'anno così suddiviso da Numa, non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche.

Come sopra scritto, Floro racconta che Numa insegnò i sacrifici, le cerimonie ed il culto degli Dèi immortali, ai Romani. Creò anche i pontefici, gli auguri ed i Salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la Festa di Quirino e la Festa di Marte. La prima festa si celebrava a febbraio, mentre la festa dedicata a Marte si celebrava a marzo, e veniva officiata dai Salii. Numa partecipava di persona a tutte le feste religiose, durante le quali era proibito lavorare.

Secondo la tradizione, durante il suo regno cadde dal cielo lo scudo di Marte con sopra scritto il destino di Roma. Numa ordinò che ne fossero fatte 11 copie, che divennero oggetti sacri e di venerazione per i Romani. 
A queste riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permise a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il suo regno le porte del tempio di Giano non furono mai aperte.

Morì ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto dagli anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, aveva solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo.

Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, Numa Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città.

Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, nel 181 a.C., due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti in greco di filosofia. Per decreto del senato i primi furono conservati con cura, mentre i secondi furono pubblicamente bruciati.

Alla morte di Numa, il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candidò alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e questi si lasciò morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio era nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di Numa Pompilio con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci.

Per la critica storico-archeologica, la reale esistenza di Numa Pompilio, così come quella di Romolo, è  molto discussa. Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni Numa viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura.

Tullo Ostilio, da Guillaume
Rouille (1518?-1589) https
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Tullo Ostilio (in carica dal 673 a.C. al 641 a.C.) è stato il terzo Re di Roma, appartenente alla Gens Hostilia, che dovrebbe essere ricompresa tra le cento gentes originarie ricordate da Tito Livio. Fu il successore di Numa Pompilio con un regno di 32 anni. Tullo Ostilio, che abitava una domus sulla sommità della Velia, fu scelto dai senatori perché era un romano e perché suo nonno Osto Ostilio aveva combattuto con Romolo contro i Sabini. Dopo la morte di Numa Pompilio lo spirito di pace sembrò indebolirsi.

I suoi primi provvedimenti, cioè suddividere le terre appartenute a Romolo tra i romani nullatenenti e permettere, a chi fra questi non avesse neppure una casa, di costruirne una sul Celio, gli valsero l'appoggio del popolo.

Le sue guerre vittoriose con Alba Longa (distante 12 miglia da Roma), Fidene (18 miglia) e Veio (6 miglia) inaugureranno le conquiste del territorio latino e il primo allargamento del dominio di Roma oltre le sue mura. Si racconta che morì colpito da un fulmine come punizione per il suo orgoglio.

Floro disse di lui che istituì tutto quanto riguardava la disciplina militare e l'arte della guerra, tanto che, dopo aver formato i giovani romani, osò provocare gli Albani, i cittadini di Alba Longa, popolo vicino e potente; e l'evento distintivo del suo regno fu proprio la distruzione di Alba Longa, evento confermato dagli storici.


Jacques-Louis David - "Il
giuramento degli Orazi" (1784).
Da https://it.wikipedia.org/wik
i/Il_giuramento_degli_Orazi#/
media/File:Jacques-Louis_D
avid,_Le_Serment_des_
Horaces.jpg
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Secondo la tradizione, i rapporti amichevoli fra i Romani e la popolazione di Alba Longa, situata sui colli vicino a Roma, si erano guastati ed erano sorte continue controversie. La risposta del re romano alle lamentele degli Albani fu che l'inizio della lite era stato opera loro. E poiché entrambi i popoli avevano eguale forza, e continuavano ad indebolirsi con frequenti combattimenti, per abbreviare la guerra si decise di risolvere la disputa con una sfida fra tre fratelli gemelli che rappresentassero da una parte i Romani (gli Orazi) e dall'altra gli Albani (i Curiazi).

«Incerto e glorioso fu lo scontro e mirabile il suo esito finale. Poiché da una parte tre erano stati feriti [Curiazi], dall'altra due uccisi [Orazi], l'Orazio che era rimasto vivo aggiunse al valore l'inganno e per separare i nemici finse la fuga e li vinse, battendoli separatamente, nell'ordine in cui lo raggiungevano. Così si ebbe una vittoria per mano di uno solo, cosa assai rara, il quale però si macchiò di un assassinio contro il proprio sangue: aveva visto la sorella piangere sulle spoglie del fidanzato nemico [Curiazio]; vendicò questo amore di una vergine con la spada. Le leggi romane lo accusarono per il delitto, ma il valore [della sua vittoria] lo sottrassero alla pena e il delitto fu inferiore alla gloria.» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 3.4-6.)

Alba Longa fu sconfitta e assoggettata allo stato romano. Quando però si rifiutò di aiutare Roma in un successivo conflitto contro la città di Fidenae, addirittura schierandosi contro, Ostilio fece dilaniare il dittatore degli Albani, Mezio Fufezio: «[...] vinto il nemico [di Fidene], Mezio Fufezio, che aveva rotto il patto [con i Romani], legato tra due carri, fu squartato da veloci cavalli, e la stessa Alba Longa, sebbene fosse "madre" di Roma, fu distrutta come una [comune] rivale.». (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 3.8.). Ma prima di distruggere la città, mai più ricostruita, ne trasferì tutte le ricchezze e ne deportò tutti gli abitanti sul Celio, ampliando così Roma.

Narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita Libri" I: «22 Alla morte di Numa si tornò a un interregno. Poi il popolo elesse re - e il senato ratificò l'elezione - Tullo Ostilio, nipote di quell'Ostilio (cap. 12, N.d.R.) che si era distinto nella battaglia contro i Sabini ai piedi della cittadella. Il nuovo re non solo fu diversissimo rispetto al suo predecessore, ma fu anche più bellicoso di Romolo. La giovane età e la forza, unite all'aspirazione alla gloria ereditata dal nonno, erano un incentivo al suo ardore. Così, pensando che l'inattività prolungata avrebbe irreparabilmente sfiancato Roma, cercava dovunque pretesti per scatenare la guerra. Per puro caso successe che dei contadini romani andarono a fare razzia di bestiame in territorio albano e quelli della campagna di Alba gli restituirono subito il favore compiendo la stessa prodezza. In quell'epoca Alba era governata da Gaio Cluilio. Entrambe le parti in causa mandarono contemporaneamente degli inviati per riavere il maltolto. Tullo aveva ordinato ai suoi di compiere prima di tutto la loro missione. Era convinto che avrebbe ottenuto un rifiuto. In tal caso sarebbe stato suo diritto dichiarare guerra. I rappresentanti di Alba agirono invece con maggiore flemma. Ricevuti con amabile cortesia da Tullo, onorano con simpatia il banchetto offerto dal re. Nel frattempo quelli di parte romana li avevano presi sul tempo: la richiesta di risarcimento era già stata presentata. Di fronte a un secco rifiuto da parte albana avevano quindi avanzato una dichiarazione di guerra con decorrenza di lì a trenta giorni. Di ritorno a Roma ne riferiscono a Tullo. Questi allora invita i delegati albani a chiarire il motivo della loro missione. Ed essi, non essendo al corrente di nulla, cominciano perdendo tempo in formalità. Si scusarono di dover pronunciare parole probabilmente spiacevoli alle orecchie di Tullo, ma dissero che gli ordini erano ordini. Sostennero di esser venuti a rivendicare il maltolto e che gli era stato ingiunto di dichiarare guerra in caso di rifiuto. A queste parole Tullo replicò: “Andate dal vostro re e ditegli che il re di Roma chiama in causa gli dèi a testimoniare quale dei due popoli abbia per primo sdegnosamente congedato gli ambasciatori inviati a rivendicare quanto razziato, in modo tale che facciano ricadere su di lui tutti i disastri di questa guerra.”» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 22.)

«23 I rappresentanti di Alba se ne tornano indietro a riferire questa risposta. Entrambi i popoli si preparano con grandissimo ardore alla guerra, che si presentava come una vera e propria guerra civile, addirittura quasi uno scontro tra padri e figli: gli uni e gli altri erano di origine troiana in quanto Lavinio era stata fondata da Troia, Alba da Lavinio e i Romani discendevano dai re albani. Tuttavia l'esito della guerra rese lo scontro meno deplorevole: infatti non si combatterono battaglie e, quando le abitazioni di una sola delle due città furono distrutte, i due popoli si fusero in uno. Gli Albani scesero in campo per primi e invasero il territorio romano con un massiccio schieramento di forze. Pongono l'accampamento a non più di cinque miglia da Roma e lo circondano con un fossato (cui, per alcuni secoli, rimase il nome di fossa di Cluilio da quello del comandante, finché, col passare del tempo, scomparvero fossato e nome). In questo accampamento muore il re albano Cluilio e i suoi soldati eleggono dittatore Mezio Fufezio. Nel frattempo, il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla morte del re, sostenendo che l'onnipotenza divina si sarebbe vendicata del nome albano (e il re stesso era solo l'inizio) per la guerra criminale da lui scatenata, evitato nottetempo l'accampamento nemico, andò a riversarsi in territorio albano. Questa manovra costrinse Mezio a uscire dalle sue posizioni. Guidando l'esercito il più velocemente possibile in direzione del nemico, manda avanti un inviato a dire a Tullo che prima dello scontro egli ritiene necessario un colloquio tra i due comandanti in capo. Nel caso l'altro avesse accettato, era sicuro di poter avanzare delle proposte non meno interessanti per i Romani che per gli Albani. Tullo non rifiutò, anche se fece schierare le sue truppe in ordine di battaglia nel caso in cui le proposte si fossero dimostrate prive di interesse. Gli Albani vanno a disporsi dall'altra parte. Finite le manovre di schieramento dei due eserciti, i rispetivi comandanti, scortati da pochi maggiorenti, avanzano verso il centro del campo di battaglia. Il primo a parlare è l'albano: “Le razzie e il bottino non restituito nonostante le esplicite richieste in base al trattato mi sembra siano i pretesti che il nostro re Cluilio indicava come cause di questa guerra, né dubito Tullo che i tuoi siano tanto diversi. Ma se vogliamo dire la verità e non fare tanti giri di parole, è la sete di potere che spinge alle armi due popoli vicini e provenienti dalla stessa stirpe. Non sto a sbilanciarmi se con ragione o torto: la questione riguarda chi ha suscitato la guerra. Io sono soltanto un generale scelto dagli Albani per portare avanti le operazioni. Ma ecco, o Tullo, quello su cui vorrei attirare la tua attenzione: le proporzioni della potenza etrusca, che circonda noi ma soprattutto voi, le conosci meglio tu perché vivi più vicino a loro. Per terra dominano, ma per mare non hanno avversari. Quindi, nel momento in cui darai il segnale di battaglia, ricordati che gli Etruschi staranno a guardare i nostri due eserciti e, non appena saremo allo stremo delle forze, ne approfitteranno per assalire vincitori e vinti. Per questo, agli dèi piacendo, visto che non ci basta la sicurezza della libertà ma preferiamo abbandonarci all'incertezza tra il potere e la schiavitù, vediamo di stabilire quale dei due popoli governerà sull'altro senza grandi disastri e inutili spargimenti di sangue.” La proposta non dispiacque a Tullo, nonostante fosse più incline allo scontro sia per motivi di carattere che per la speranza di vittoria. Mentre entrambe le parti stavano cercando di risolvere la questione, la sorte stessa fornì loro una soluzione.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 23.)

«24 Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi. Pur essendo però un fatto così celebre, permangono ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di Orazi e Curiazi. Gli storici sono divisi, anche se vedo che la maggior parte di essi chiama romani gli Orazi e anch'io propendo per questa tesi. I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Nessuna obiezione. Si stabiliscono tempo e luogo. Prima però di dare il via allo scontro, Albani e Romani stipulano un trattato secondo il quale il popolo i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato un potere incondizionato sull'altro. Ogni trattato ha le sue clausole particolari, ma le procedure sono sempre le stesse. Nella circostanza presente sappiamo che fu strutturato in questi termini (ed è il più antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale rivolse a Tullo questa domanda: “Mi ordini, o re, di stipulare un trattato col pater patratus del popolo albano?” Poiché il re rispose affermativamente, egli proseguì: “Io ti chiedo l'erba sacra.” Il re rispose: “Prendi dell'erba pura.” Allora il feziale andò a raccogliere l'erba pura sulla cittadella. Quindi rivolse al re questa domanda: “Re, mi nomini tu plenipotenziario reale del popolo romano dei Quiriti ed estendi questo carattere sacrale ai miei paramenti e ai miei assistenti?” Il re risponde: “Te lo concedo, purché non debba danneggiare né me né il popolo romano dei Quiriti.” Il feziale, Marco Valerio, nominò pater patratus Spurio Fusio toccandogli la testa e i capelli con un ramoscello sacro. Il compito del pater patratus è quello di pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il trattato. A questo fine egli pronuncia una specie di ampollosa formula liturgica che non vale la pena riportare. Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: “Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpsci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.” Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 24.)

«25 Concluso il trattato, i gemelli, come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni. Gli ricordavano che gli dèi nazionali, la patria e i genitori, nonché tutti i concittadini rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i fratelli, pronti allo scontro non già solo per il tipo di carattere che avevano ma esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzano nello spazio in mezzo alle due schiere. Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non tanto per qualche pericolo imminente, quanto perché era in ballo la supremazia legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro. Così, sul chi vive e col fiato sospeso, si concentrano sullo spettacolo non certo rilassante. Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future della patria che loro soli possono condizionare. Al primo contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. Ma quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria ma cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare battaglia contro uno per volta. Quindi, per separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento. Il Romano gridò esultando: “Ho già offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su Alba.” L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 25.)

«26 Prima di allontanarsi, Mezio, in base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e Tullo gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi. 

Jean-François Lagrenée - "Orazio
mentre uccide sua sorella Camilla"
(1750/1754). Di Philippe Alès,
Opera propria, CC BY-SA 3.0,
https://commons.wikimedia.org/
w/index.php?curid=18775784
.
Appena riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del fidanzato che lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli e in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto. Il suo pianto, proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria, irrita l'animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafigge la ragazza rivolgendole nel contempo queste parole di biasimo: “Vattene con la tua bambinesca infatuazione, vattene dal tuo fidanzato, tu che riesci a dimenticare i tuoi fratelli morti e quello vivo e addirittura la patria. Possa così morire ogni romana che piangerà il nemico.” L'atroce delitto sembrò orribile ai senatori e alla plebe, ma a ciò si contrapponeva la prodezza di poche ore prima. Fu comunque preso e portato di fronte al re per essere processato. Questi, non volendosi assumere l'intera responsabilità di una sentenza così penosa e impopolare nonché della condanna a morte che ne sarebbe seguita, convocò l'assemblea del popolo e disse: “Secondo quanto è prescritto dalla legge, nomino una commissione di duumviri e gli affido il compito di processare Orazio per lesa maestà.” Il testo della legge era spaventoso: “I delitti di lesa maestà siano giudicati dai duumviri. Se l'imputato ricorre in appello che l'appello dia luogo a una discussione. Nel caso prevalgano i duumviri, si proceda a coprirne il capo; quindi se ne leghi il corpo a un albero stecchito e lo si fustighi sia dentro sia fuori il pomerio.” In virtù di questa disposizione, vengono nominati i duumviri. Con una legge del genere sembrava loro impossibile assolvere anche un innocente. Così, dopo averlo giudicato colpevole, uno di essi disse: “Publio Orazio,ti condanno per lesa maestà. Vai littore, legagli le mani.” Il littore gli si era avvicinato e stava per mettergli il laccio, quando Orazio, su consiglio di Tullo, più clemente nell'interpretare la legge, disse: “Ricorro in appello.” Il dibattito si tenne così di fronte al popolo e la gente fu particolarmente influenzata dalla testimonianza del padre di Orazio il quale sostenne che la morte della figlia era stata giusta e aggiunse che in caso contrario egli avrebbe fatto ricorso alla sua autorità di padre e punito il figlio Orazio con le sue stesse mani. Poi implorò il popolo di non orbare anche dell'ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima la gente aveva visto circondato da una notevole prole. Dicendo questo, il vecchio andò ad abbracciare il giovane e, indicando le spoglie dei Curiazi appese nel punto che ancor oggi si chiama Trofeo di Orazio, esclamò: “Quest'uomo che poco fa avete ammirato incedere nell'ovazione trionfale della vittoria, o Quiriti, ce la farete a vederlo legato e fustigato sotto una forca? Uno spettacolo così ingrato che a malapena gli Albani riuscirebbero a tollerarne la vista. Vai littore, incatena queste mani che poco fa hanno dato al popolo romano la supremazia. Vai, incappuccia la testa al liberatore di questa città e legalo a un albero stecchito. Fustigalo sia dentro il pomerio - e quindi tra i trofei e le spoglie nemiche -, sia fuori di esso - e quindi tra le tombe dei Curiazi. Dove potreste portarlo questo giovane senza che la sua gloria gridi vendetta per l'onta di un simile verdetto?” Il popolo, incapace di resistere alle lacrime del padre e alla fermezza incrollabile del figlio di fronte a ogni pericolo, assolse Orazio più per l'ammirazione suscitata dalla sua prodezza che per la bontà della sua causa. E così, per purificare malgrado tutto il delitto flagrante con una qualche espiazione, al padre venne ordinato di compiere l'espiazione per il figlio a pubbliche spese. Per questo motivo egli offrì dei sacrifici espiatori che da quel momento divennero una tradizione peculiare della famiglia Orazia. Quindi eresse nella pubblica via una struttura di travi e, come se si fosse trattato di un giogo vero e proprio, vi fece passare sotto il figlio a capo coperto. La cosa esiste ncora e di tanto in tanto viene rimessa in sesto a spese dello stato: si chiama trave sororia. Quanto all'Orazia, le fu innalzato un sepolcro di pietre squadrate nel punto in cui era caduta sotto i colpi del fratello.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 26.)

«27 Ma la pace con Alba non durò a lungo. La gente era scontenta perch le sorti del paese erano state affidate a tre soli soldati. Questo influenzò l'indole volubile del dittatore. Così, visto che la saggezza non aveva avuto troppo successo, per riconquistare la popolarità perduta, egli adottò il metodo della malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva cercato la pace, così adesso in tempo di pace si mise a cercare la guerra. Rendendosi però conto che la sua gente aveva sì coraggio ma ben poca forza, spinse altri popoli a dichiarare guerra apertamente e con tutti i crismi, e riservò ai suoi uomini la possibilità di tradire i Romani mostrando invece di voler essere al loro fianco. Gli abitanti di Fidene, colonia romana, e quelli di Veio (che erano stati messi a parte dei loro piani) vengono spinti a dare il via alle ostilità con la promessa di poter contare sull'appoggio di Alba durante il conflitto. Quando Fidene si ribellò senza mezzi termini, Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e mosse contro il nemico. Attraversato l'Aniene, si accampa alla confluenza dei due fiumi. Invece l'esercito dei Veienti aveva guadato il Tevere in un punto tra quella zona e Fidene. Lo schieramento per la battaglia era questo: all'ala destra, lungo il fiume, i Veienti, mentre alla sinistra, verso le montagne, i Fidenati. Tullo dirige i suoi contro quelli di Veio e piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il coraggio e la lealtà non erano il punto forte del generale albano. Non osando quindi né tenere la posizione né disertare apertamente, prese ad avvicinarsi a poco a poco alla montagna. Quando ritenne di esservisi avvicinato a sufficienza, ancora incerto sul da farsi, fece spiegare le sue forze per guadagnare un po' di tempo. Il suo piano era questo: scendere in campo dalla parte di chi stava avendo la meglio. I Romani che si trovavano più vicini, quando si resero conto di avere i fianchi scoperti per la ritirata degli alleati, rimasero annichiliti. Allora un cavaliere partì al galoppo e andò a riferire al re dell ritirata albana in corso. Tullo, nel pieno della crisi, fa voto di creare dodici Salii e di innalzare dei santuari al Pallore e al Panico. Interpellando il cavaliere ad alta voce, in maniera da poter essere sentito dal nemico, gli ingiunge di tornare in prima linea. Non c'era motivo di panico. Lui stesso aveva ordinato alle truppe di Alba quella manovra di accerchiamento per prendere da dietro i fianchi scoperti dei Fidenati. Fa inoltre ordinare alla cavalleria di alzare le lance. Con questa mossa riuscì a nascondere a parte della fanteria romana la manovra di ripiegamento delle truppe albane. Chi se n'era reso conto si fidò di quel che aveva sentito dal re e si buttò con più foga nella mischia. Il terrore passò così dalla parte dei nemici, sia perché avevano sentito la frase pronunciata ad alta voce dal re, sia perchè gran parte dei Fidenati, avendo avuto tra di loro dei Romani come coloni, sapevano il latino. Quindi, per evitare che un'improvvisa calata degli Albani dal fianco del monte chiudesse loro la strada in direzione della città, tornarono indietro. Tullo li insegue e, sbaragliata l'ala dei Fidenati, rinviene con più impeto su quella dei Veienti, demoralizzati dal panico degli alleati. Anch'essi evitarono lo scontro ma non riuscirono a fuggire alla spicciolata perché si trovarono l'ostacolo del fiume alle spalle. Quando arrivarono lì, alcuni, gettando ignominiosamente le armi, si buttavano in acqua alla cieca, altri, attardatisi sulla riva, nell'indecisione tra il fuggire e il combattere, si facevano uccidere. In nessuna battaglia precedente i Romani versarono così tanto sangue.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 27.)

«28 Fu allora che l'esercito albano, spettatore dello scontro, riguadagnò la piana. Mezio si congratula con Tullo della vittoria sui nemici e Tullo gli risponde cortesemente. Quindi ordina agli Albani (e possa la cosa avere buon fine!) di unire il loro accampamento a quello dei Romani e poi prepara un sacrificio di purificazione per il giorno successivo. Quando all'alba tutto era pronto, convoca in assemblea i due eserciti. Gli araldi, avendo iniziato dal fondo del campo, chiamarono per primi gli Albani che, colpiti dall'assoluta novità della cosa, si andarono a piazzare vicino al re per non perderne il discorso. La legione romana, armata secondo quanto convenuto, li circonda. I centurioni avevano l'ordine tassativo di portare a termine senza indugi quello che gli era stato comandato. Allora Tullo prese la parola e disse: “O Romani, se mai prima di questa volta, in tutte le guerre da voi combattute, avete avuto ragione di rendere grazie prima agli dèi immortali e poi al vostro stesso valore, questo è successo nella battaglia di ieri. Infatti non avete combattuto solo col nemico, ma - e in questo sta la maggiore pericolosità della cosa - avete anche dovuto affrontare il subdolo tradimento degli alleati. Sia dunque chiaro: non è su mio ordine che gli Albani si sono spostati verso la montagna. Quello che avete sentito da me non è stato un mio comando ma una calcolata simulazione: volevo evitare che, rendendovi conto di essere stati abbandonati, vi distraeste dalla battaglia e nel contempo volevo scatenare panico e fuga tra i nemici facendo credere loro di essere stati aggirati. E non tutti gli Albani sono responsabili del crimine in questione: hanno seguito il loro comandante, come avreste fatto anche voi se vi avessi ordinato una qualche manovra sul campo. È Mezio che ha guidato quella diversione. Lo stesso Mezio che ha architettato questa guerra, lo stesso Mezio che ha infranto il trattato tra Romani e Albani. Che qualcun altro possa di qui in poi ripetere una simile prodezza, se io di costui non farò un clamoroso esempio per l'intero genere umano.” Quindi i centurioni, armi alla mano, circondano Mezio, mentre il re, con lo stesso tono con cui aveva iniziato, riprese: “Che la prosperità e la buona sorte siano col popolo romano, con me e anche con voi, o Albani. È mia intenzione trasferire tutta la gente di Alba a Roma, concedere la cittadinanza alle classi subalterne, eleggere senatori i nobili e avere una sola città e un solo stato. Come un tempo la civiltà albana fu divisa in due popoli, possa oggi riacquistare la sua unità.” A queste parole, i giovani albani, disarmati e circondati da armati, benché divisi nelle reazioni individuali al discorso, erano tuttavia uniti nel silenzio dovuto alla paura unanime. Allora Tullo disse: “Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispeto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.” Quindi chiede due quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel mezzo. Poi incita i cavalli in direzioni diverse: ciascun carro si trascinò via pezzi del corpo maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo vincolavano da ambo le parti. Tutti distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quella fu la prima e ultima volta che i Romani ricorsero a un tipo di pena contraria a ogni umana legge. Per il resto possiamo infatti vantarci di non essere secondi a nessun popolo nella clemenza delle pene inflitte.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 28.)

«29 Frattanto, vennero mandati ad Alba dei cavalieri per trasferire a Roma la popolazione. A essi seguirono poi le legioni per distruggere la città. Quando ne superarono le porte, non ci fu, a dire il vero, quel fuggi fuggi terrorizzato che è classico delle città conquistate, quando il nemico fa breccia negli ingressi, abbatte le mura a colpi d'ariete, assalta la cittadella e poi dilaga per le strade mettendo ogni cosa a ferro e fuoco in un boato di urla e di armi. Niente di tutto questo: solo un lugubre silenzio e un dolore senza voce. Tutti erano così depressi che, in balia della paura, non avevano più la lucidità di decidere cosa abbandonare lì e cosa portarsi dietro e si interpellavano a vicenda ora immobili di fronte alle porte, ora in un abulico vagare dentro le case che avrebbero visto per l'ultima volta. Poi, quando ormai i cavalieri gli urlavano di sbrigarsi a uscire, quando già si iniziava a sentire il fragore delle prime case demolite nei sobborghi e il polverone dei crolli nei quartieri lontani aveva coperto ogni cosa come una nuvola bassa e diffusa, allora ciascuno cercava di afferrare ciò che poteva uscendo dalla casa in cui era nato e cresciuto e in cui doveva lasciare lari e penati. Subito le strade si riempirono di una fila interminabile di sfollati i quali, specchiandosi nello stato miserando dei propri consanguinei, ricominciarono a piangere e urla strazianti di dolore (erano soprattutto donne) si levarono quando passarono davanti ai templi piantonati dai soldati armati in quanto sembrò loro di lasciare le divinità in mano al nemico. I Romani fanno uscire gli Albani dalla città e poi radono al suolo tutti gli edifici, pubblici e privati, e in un'ora soltanto azzerano i quattrocento anni di storia che Alba aveva alle spalle. L'unica cosa risparmiata, secondo le disposizioni del re, furono i templi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 29.)

«30 Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate. Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono anch'essi a cercare aiuti dall'estero. Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall'opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo. Mentre l'una e l'altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d'urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30.)

«31 Dopo la disfatta inflitta ai Sabini, e quando ormai il regno di Tullo e la potenza romana avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, ecco che venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre. Siccome la cosa non era molto verisimile, furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Essi riferirono di aver visto coi loro occhi una spessa pioggia di pietre che cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra. Nel bosco che c'è in cima alla vetta era sembrato loro anche di sentire una voce possente la quale ordinava agli Albani di celebrare, secondo il rito tradizionale, i sacrifici che essi avevano lasciato cadere nell'oblio quando, con la città, avevano abbandonato anche i loro dèi e adottato culti romani o, come spesso succede, rinnegato i propri per un risentimento nei confronti del destino. Anche i Romani, a seguito di questo prodigio, proclamarono una novena ufficiale, sia per la voce celeste emessa dal monte Albano (così vuole la tradizione), sia su consiglio degli aruspici. In ogni modo, rimase un'usanza abituale: ogni qual volta si fosse ripetuto un fenomeno analogo, sarebbero seguiti nove giorni di festa. Non molto tempo dopo Roma fu colpita da un'epidemia cui fece seguito una riluttanza alle prestazioni militari. Ciò nonostante, il bellicoso re Tullo non dava tregua ai suoi sudditi, persuaso com'era che le esercitazioni militari fossero più salutari ai fisici dei giovani che l'aria di casa. Finché lui stesso non fu colpito da una malattia dal lungo decorso. E allora l'infermità ne minò simultaneamente il corpo e l'indole bellicosa a tal punto che uno come lui, in passato convintissimo che nulla fosse più indegno per un re che occuparsi della sfera religiosa, improvvisamente divenne vittima di ogni forma di piccola e grande superstizione e prese a imbottire la sua gente di scrupoli religiosi. Tutti ormai reclamavano un ritorno allo stato delle cose ai tempi di Numa, pensando che l'unico rimedio alla deperibilità dei loro corpi consistesse nella benevolenza e nel perdono degli dèi. Il re stesso, così vuole la tradizione, poiché consultando le memorie di Numa aveva trovato menzione di certi sacrifici occulti praticati in onore di Giove Elicio, vi si dedicò in segreto. Il fatto è che commise qualche errore nel preparare o nel celebrare il rito e quindi, non solo non ebbe alcuna visione divina, ma suscitò anche l'ira di Giove il quale, irritato dalla profanazione del culto, incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo. Comunque, il glorioso regno di questo re guerriero durò trentadue anni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 31.)

Anche l'anno successivo a quello della distruzione di Alba, i Fidenati scesero in battaglia contro Roma, ma vennero ancora una volta sconfitti e i loro capi uccisi. Tullo Ostilio si impegnò anche in una guerra contro i Sabini. Fu durante il suo regno che, nell'area del Foro che in seguito sarebbe stata utilizzata per i Comizi, fu costruita la Curia Hostilia, che divenne il luogo deputato alle riunioni dei senatori, che prima di allora si riunivano all'aperto.

In seguito i romani furono impegnati in 5 anni di combattimenti contro le città Latine, che si opponevano alla pretesa di Roma di governare sopra di esse per aver sconfitto Alba. In effetti non si trattò che di schermaglie, e l'unico fatto davvero cruento fu la presa di Medullia, già colonia romana, ribellatasi alla madrepatria.

Dopo gli anni di Romolo ed il pacifico regno di Numa Pompilio, che aveva iniziato a dare forma alla parte spirituale della città, con Tullo Ostilio la tregua con Veio, pur se a fatica, resse anche se, approfittando dei postumi della conquista e distruzione di Albalonga, la pressione dei Sabini su Roma favorì il radunarsi di una certa quantità di volontari etruschi a Veio, per poter approfittare della situazione, anche se «Ufficialmente non fu dato alcun aiuto perché era ancora valido presso i Veienti il patto di tregua stipulato con Romolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30, op. cit.)

La leggenda dice che Tullo era così occupato in una guerra dopo un'altra che aveva trascurato ogni servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté sui Romani. Anche Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per avere il suo favore ed il suo aiuto e la risposta del dio fu un fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re e ridusse la sua domus in cenere, dopo trentadue anni di regno.

Ciò fu visto dai Romani come un'indicazione di scegliere meglio il nuovo re, un re che seguisse l'esempio pacifico di Numa Pompilio e scelsero Anco Marzio, il nipote di Numa Pompilio.

Tullo Ostilio va considerato semplicemente come il duplicato di Romolo. Entrambi sono eletti fra i pastori, continuano la guerra contro Fidene e Veio, aumentano il numero dei cittadini, organizzano l'esercito e spariscono dalla terra durante una tempesta.

Dionigi d'Alicarnasso in Antichità romane invece ci racconta un'altra possibile morte di Tullo Ostilio; infatti ci dice che Anco Marzio, prima al servizio di Tullo Ostilio, anelasse diventare rex e con alcuni sicari fosse andato nella casa di Tullo Ostilio e l'avesse ucciso e poi avesse raccontato alla gente la storia del fulmine caduto nella Domus Hostilia, e in un primo tempo il popolo non gli credette. Ma sottolinea anche il fatto che la storiografia elogia Anco Marzio come buono e pacifico rex (in contrasto con la tradizione che lo vorrebbe assassino e assetato di potere per ottenere la posizione di rex), perciò ritiene possibile anche la caduta accidentale di un fulmine in casa di Tullo Ostilio.

Poiché Romolo e Numa Pompilio rappresentano le tribù dei Ramnes e dei Tities, così per completare la lista dei quattro elementi tradizionali della nazione, Tullo è il rappresentante della tribù dei Luceres e Anco Marzio è il fondatore della Plebe.


Anco Marzio, di Guillome
Rouille (1518?-1589) https:/
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Nel 641 a.C. Anco Marzio, che ha regnato dal 641 al 616 a.C., succede al bellicoso Tullo Ostilio, diventando il nuovo re di Roma, favorito all'ascesa al trono dal legame di parentela con Numa Pompilio, di cui era nipote per parte di madre, figlia di Numa. Pur essendo nipote di Numa Pompilio, di indole pacifica e spirituale, per estendere i territori e il prestigio di Roma, non disdegnò di battersi in numerose battaglie, e d'altra parte, dopo il regno di Tullo Ostilio, che aveva cancellato ogni relazione tra il potere monarchico-militare, quello politico-religioso e il senso del sacro romano, il nuovo re collegò quei rapporti.

Con il regno di Anco Marzio, i cent'anni di tregua fra Roma e Veio erano di certo scaduti. Infatti si legge in Livio che uno dei metodi del re romano per ingrandire lo Stato, oltre alla deportazione a Roma delle genti latine sconfitte, fu l'acquisizione territoriale: «la Selva Mesia, strappata ai Veienti, fece arrivare il dominio romano fino al mare. Alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia e tutt'intorno vennero create delle saline.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33, op. cit.). Si assistette così alla graduale spoliazione del territorio veiente e ad un sovrapporsi di Roma nella produzione e nel commercio del sale. La creazione di Ostia alla foce del fiume mostrò come il controllo del Tevere fosse determinante per la ricchezza delle città etrusche dell'interno.


Anco Marzio riprende l'espansione verso sud, a danno dei Latini, invasione già avviata dal suo predecessore e conquista Politorium (nei pressi di Acqua acetosa, XXIV Municipio Fonte Ostiense), i cui cittadini sono deportati a Roma, così come lo erano stati quelli di Alba Longa. Quindi, dopo quattro anni di combattimenti, conquista nuovamente la colonia romana di Medullia, sulla riva destra dell'Aniene (forse nei pressi del Comune di Sant'Angelo Romano), dopo che questa era nuovamente passata ai Latini. La stessa sorte toccò agli abitati di Tellenae (forse nei pressi di Medullia) e Ficana (nei pressi di Acilia), garantendo così a Roma il controllo dei territori che si estendevano dalla costa all'Urbe.

Quindi, dopo altri due anni di guerre infruttuose con i Latini, i Romani conquistarono e saccheggiarono Fidenae (attuale Fidene, III Municipio) e respinsero anche razziatori Sabini, che avevano compiuto scorrerie nei possedimenti romani lasciati sguarniti. Poi, qualche anno dopo, i Romani combatterono e vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus salinarum) contro la città di Veio, che pretendeva di riottenere i possedimenti persi all'epoca di Romolo, e l'anno seguente ebbero la meglio anche sui Volsci che, dopo aver razziato le campagne romane, si erano ritirati dentro le mura di Velitrae all'apparire dell'esercito romano.

Anco Marzio aggiunse così alla città di Roma, oltre all'Aventino, che cinse all'interno delle mura cittadine e popolò con le popolazioni latine deportate a Roma (tra le quali quelle di Tellenae e Politorium), anche il Gianicolo, e probabilmente anche il Celio.

Durante il suo regno sono realizzate numerose opere architettoniche tra cui la fortificazione del Gianicolo, la fondazione della prima colonia romana ad Ostia alla foce del Tevere (a 16 miglia da Roma), «evidentemente perché già allora aveva il presentimento che le ricchezze ed i viveri di tutto il mondo sarebbero stati, un giorno, ricevuti lì, come se fosse lo scalo marittimo di Roma»; la costruzione della via Ostiense, dove per primo organizzò le saline e costruì una prigione, la costruzione dello scalo portuale sul Tevere chiamato Porto Tiberino e la costruzione del primo ponte di legno sul Tevere, il Pons Sublicius

Il Velabro, dove si insediò il
porto Tiberino, da https://it.wiki
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Il Porto tiberino (portus Tiberinus) fu il primo porto commerciale di Roma antica, collocato sul tratto urbano del Tevere. Più precisamente fu costruito tra le pendici del Palatino e quelle del Campidoglio, cioè nell'area tra il Foro Boario e il Foro Olitorio, dove l'ansa del Tevere creava una propaggine acquitrinosa nota come palude del Velabro. Giungevano al porto: da monte, i prodotti dell'Italia centrale, dell'Umbria e dell'Etruria; da valle, quelli transmarini che dal porto di Ostia venivano trasbordati dalle grandi navi da carico ai battelli fluviali. In quest'ultimo caso i battelli che risalivano il Tevere dovevano essere trainati da animali.

Ristabilì le cerimonie religiose istituite da Numa. A lui si fa discendere la definizione dei riti che dovevano essere seguiti dai Feziali, affinché la guerra dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere quindi una "guerra giusta".


Racconta Tito Livio: «32 Alla morte di Tullo, il potere, in conformità alla regola stabilita sin dall'inizio, era tornato ai senatori i quali nominarono un interré. Questi convocò l'assemblea e il popolo elesse re Anco Marzio, con la ratifica del senato. Anco Marzio era nipote per parte di madre del re Numa Pompilio. Quando salì al trono, ricordandosi della gloria dell'avo, aveva la ferma convinzione che il regno precedente, tra le tante cose positive, avesse mostrato un'unica debolezza: i riti religiosi erano stati trascurati o praticati male. Perciò ritenne che la prima cosa da farsi fosse ristabilire le pubbliche cerimonie secondo il rituale fissato da Numa e a questo proposito ordinò al pontefice massimo di copiare tutte le prescrizioni cultuali dai taccuini del re su una tavoletta bianca da esporre poi in pubblico. Questo primo passo fece sperare ai Romani avidi di pace e ai popoli confinanti che il re avrebbe seguito le orme dell'avo tanto nel carattere quanto nel tipo di politica. Così i Latini, coi quali era stato firmato un trattato durante il regno di Tullo, ripresero coraggio e fecero un'incursione nel territorio romano. Quando i Romani gliene chiesero riparazione, essi risposero in maniera sprezzante, convinti che un re del genere avrebbe trascorso l'intera durata del suo regno dietro altari e santuari. Ma il carattere di Anco era perfettamente equilibrato, una via di mezzo tra Numa e Romolo. Inoltre pensava che durante il regno dell'avo ci fosse maggiore bisogno di pace perché il popolo era nuovo e indisciplinato, ma anche che gli sarebbe stato difficile ottenere quella tranquillità che l'avo era riuscito a ottenere senza eccessivi travagli. Adesso che mettevano alla prova la sua pazienza e poi la disprezzavano, per i tempi in corso, sul trono era meglio un Tullo che un Numa. Ma come Numa in tempo di pace aveva fornito un regolamento per le pratiche religiose, allo stesso modo egli adesso voleva istituire un cerimoniale di guerra, così che non ci si limitasse soltanto a fare le guerre ma le si dichiarasse anche secondo un qualche formulario fisso. E per approntarlo ricorse a una regola dell'antica tribù degli Equicoli, cui ancor oggi i feziali si attengono per presentare un reclamo. Quando l'inviato arriva alle frontiere del paese cui viene rivolto il reclamo, con il capo coperto da un berretto (dotato di un velo di lana), dice: “Ascolta, Giove; ascoltate, o frontiere,” e qui specifica del tale e del talaltro paese, “e mi ascolti anche il sacro diritto. Io sono il rappresentante ufficiale del popolo romano. Vengo per una missione giusta e santa: abbiate per questo fiducia nelle mie parole.” Quindi elenca i reclami e chiama a testimone Giove: “Se io non mi attengo a ciò che è santo e giusto nel reclamare che mi vengano consegnati questi uomini e queste cose, possa non ritrovare più la mia terra.” Ripete questa formula quando attraversa il confine; la ripete al primo uomo che incontra, la ripete quando entra in città, la ripete facendo ingresso nel foro, con solo qualche piccola modifica nella forma e nell'invocazione del giuramento. Se l'oggetto del suo reclamo non viene restituito entro il trentatreesimo giorno (si tratta del termine convenzionale), dichiara guerra con questa formula: “Ascolta, Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino, e voi tutte divinità del cielo, della terra e degli inferi, ascoltatemi. Io vi chiamo a testimoni che questo popolo,” e ne fa il nome, “è ingiusto e non ripara quanto deve. A questo proposito, chiederemo consiglio in patria, ai più anziani tra i nostri concittadini, su come ottenere quanto ci spetta di diritto.” Poi il messaggero torna a Roma per la decisione definitiva. E subito il re si consulta coi senatori grosso modo in questi termini: “A proposito degli oggetti, delle controversie e delle cause di cui il pater patratus del popolo romano ha discusso con il pater patratus dei Latini Prischi e con alcuni dei Latini Prischi, a proposito di ciò che non è stato consegnato, restituito e fatto di quello che doveva essere consegnato, restituito e fatto, dimmi,” rivolgendosi al primo che lo aveva consultato, “che cosa ne pensi?” E l'altro replica: “Penso sia giusto e sacrosanto riottenere il dovuto con la guerra: questi sono il mio pensiero e il mio voto.” Poi a turno vengono consultati gli altri. E una volta ottenuto il consenso della maggioranza, tutti si trovano d'accordo sulla guerra. Di solito il feziale porta ai confini con l'altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco e, di fronte ad almeno tre adulti, dice: “Poiché i popoli dei Latini Prischi e alcuni dei Latini Prischi si sono resi responsabili di atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prischi e il senato del popolo romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il suo consenso a questa guerra coi Latini Prischi, per i suddetti motivi, io - e quindi il popolo romano dei Quiriti - dichiaro guerra ai popoli dei Latini Prischi e ai cittadini dei Latini Prschi e la metto in pratica.” Detto ciò, scaglia la lancia nel loro territorio. Ecco dunque in che termini fu esposto il reclamo ai Latini e come fu loro dichiarata guerra: l'usanza è passata ai posteri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 32.)

I 7 colli di Roma, da ht
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«33 Anco, dopo aver lasciato ai Flamini e ad altri sacerdoti l'incarico di provvedere ai sacrifici, si mise in marcia con un esercito di recente formazione e conquistò di forza Politorio, città dei Latini. Quindi, seguendo l'usanza dei suoi predecessori sul trono, i quali avevano ingrandito Roma integrandovi i nemici fatti prigionieri, vi trasferì l'intera popolazione. E visto che i primi Romani avevano occupato il Palatino, i Sabini il Campidoglio e la cittadella, e gli Albani il monte Celio, al nuovo nucleo di stranieri fu assegnato l'Aventino, sul quale, non molto tempo dopo, vennero trasferiti gli abitanti anche di altre due città conquistate, Tellene e Ficana. In seguito Politorio fu attaccata una seconda volta perché i Latini Prischi l'avevano rioccupata dopo l'evacuazione. Ciò fornì ai Romani il pretesto per raderla al suolo: non avrebbe così più offerto rifugio ai nemici. Alla fine la guerra coi Latini si concentrò integralmente su Medullia, dove, per un po' di tempo, si combatté con un certo equilibrio e non era facile prevedere chi avrebbe avuto la meglio. Infatti la città era dotata di solide fortificazioni e difesa da una guarnigione piuttosto tenace. Inoltre, l'armata latina, accampata in aperta pianura, non perdeva occasione di venirsi a scontrare coi Romani. Alla fine, impegnando tutti gli uomini a disposizione, Anco ottenne la sua prima vittoria in battaglia e rientrò a Roma con un immenso bottino. Migliaia di Latini li integrò in città e, per unire Aventino e Palatino, diede loro come sede la zona intorno al tempio di Murcia. Integrò nella cerchia urbana anche il Gianicolo, non tanto per bisogno di spazio, quanto piuttosto per evitare che quella roccaforte potesse un giorno cadere in mano al nemico. Si decise non solo di munirlo di fortificazioni, ma anche di metterlo in comunicazione con il resto della città mediante un ponte di legno che ne avrebbe facilitato l'accesso e che fu il primo costruito sul Tevere. Anche la fossa dei Quiriti, difesa non trascurabile sul versante più esposto a incursioni dalle pianure, è opera di Anco. Con questi possenti incrementi umani, all'interno di una popolazione così numerosa era divenuto difficile distinguere il bene dal male e di conseguenza il crimine proliferava nell'ombra. Quindi, per scoraggiare la crescente illegalità, venne costruito un carcere in pieno centro, a due passi dal foro. Il regno di Anco non significò espansione soltanto per la città, ma anche per la campagna e i dintorni. Il bosco di Mesia, tolto ai Veienti, estese il dominio di Roma fino al mare, e alle foci del Tevere venne fondata Ostia, intorno alla quale furono create delle saline. Per celebrare invece i successi militari fece ingrandire il tempio di Giove Feretrio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33.)

Anco Marzio sarebbe stato quindi, per alcuni, soltanto un duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non essendo niente altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote. 

Ricostruzione del ponte Sublicius. Licenza:
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L'identificazione con Anco è indicata dalla leggenda che indica quest'ultimo come costruttore di un ponte (pontifex = pontefice), il costruttore del primo ponte di legno sopra il Tevere. È nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali che la somiglianza è mostrata più chiaramente. 

È sintomatico il fatto che proprio durante il regno di Anco Marzio sia giunto a Roma il futuro re Tarquinio Prisco, la personificazione dell'imminente influenza etrusca su Roma. L'etrusco Lucumone, di padre greco che a Roma si faceva chiamare Lucio Tarquinio, in seguito distinto con Prisco per distinguerlo da suo figlio Lucio Tarquinio detto il Superbo, proveniva dall'etrusca Tarquinia, e divenne re proprio quando l'etrusca Veio subiva una pesante crisi economica. Tanaquil (o Tanaquilla, o Gaia Caecilia o Gaia Cyrilla), etrusca di nobile discendenza, una delle donne più influenti nella storia politica romana, era la moglie di Lucumone Lucio Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, che governò tra 616 a.C. e il 579 a.C. Tanaquil incoraggiò il marito Lucumone a lasciare la loro città, Tarquinia, per emigrare a Roma, vista l'ostilità di cui era fatto oggetto Lucumone in patria. Fu sempre Tanaquil, profonda conoscitrice delle cose religiose, ad interpretare l'evento di cui fu protagonista Lucio Tarquinio al loro arrivo a Roma (un'aquila prima rubò il berretto al marito poi tornò indietro e lo lasciò cadere sulla sua testa) come segno del favore degli dèi verso il marito.

Racconta Tito Livio: «34 Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall'ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a seguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio (= partorito, gettato fuori N.d.R.) in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest'onta, mise da parte l'attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un'aquila planò su di loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi sparì nell'alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell'uccello, della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un dio. Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. E il re non lo apprezzò per quel che era finché la generosità e l'efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 34.)

«35 Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile. I suoi figli erano ormai quasi degli uomini fatti e per questo Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo dell'assemblea popolare per l'elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli mandò i ragazzi a una battuta di caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a impegnarsi in una campagna per il trono e che pronunciò un discorso  puntato a conquistare il favore popolare. Disse che il suo caso non era privo di precedenti e, per evitare che qualcuno potesse stupirsi e indignarsi, che lui non sarebbe stato il primo bensì il terzo straniero a puntare al trono di Roma. Tazio, addirittura, non solo era un re forestiero, ma proveniva da un paese nemico e Numa, pur non conoscendo affatto Roma e non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. Quanto a se stesso, dal giorno in cui era diventato padrone della propria persona, era venuto a stabilirsi a Roma con la moglie e tutto quello che possedeva. E la parte di vita che di solito si dedica all'adempimento dei propri doveri di cittadini, lui l'aveva trascorsa a Roma e non nella sua città natale; quanto alla sfera civile e a quella militare, aveva appreso il diritto e i culti religiosi romani da un maestro assolutamente fuori del comune, cioè il re Anco in persona. Il suo ossequio e il suo rispetto per la persona del re non erano inferiori a quelli di nessuno; quanto poi a generosità verso il prossimo, solo il re stesso lo era stato più di lui. Il popolo romano, sentendo che non mentiva elencando questi aspetti, lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono, non tradì tutti i sani principi morali che aveva pubblicizzato quando si era autocandidato. Impegnandosi non meno a rinforzare il proprio regno che a consolidare la potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori, noti di lì in poi come di secondo ordine, i quali divennero incrollabili sostenitori del re al cui favore dovevano la loro nomina in senato. La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d'assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Divise tra senatori e  cavalieri dei lotti di terra perché si costruissero dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli. Detti palchi ebbero il nome di fori e poggiavano su sostegni sollevati di dodici piedi dal livello del terreno. La manifestazione ruotò intorno a gare di equitazione e a incontri di pugilato con atleti per la maggior parte etruschi. Da quell'occasione i giochi rimasero uno spettacolo regolarmente allestito ogni anno e a seconda dei casi vennero chiamati Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre Tarquinio a dividere tra i privati cittadini appezzamenti di terreno edificabile intorno al foro, i quali vennero utilizzati per la costruzione di portici e negozi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 35.)

Come Numa Pompilio, Anco Marzio morì di morte naturale dopo ventiquattro anni di regno (nel 616 a.C.), di malattia secondo altri, lasciando due figli, uno dei quali ancora fanciullo, che non poterono succedere al padre come re, per come Tarquinio aveva orchestrato la propria candidatura al trono, e succedette infatti ad Anco.

Lucio Tarquinio Prisco, di
Guillaume Rouille (1518?-
1589), https://commons.wi
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Lucio Tarquinio detto Prisco ha regnato dal 616 al 579 a.C. L'aggettivo prisco, secondo il vocabolario Treccani (prisco agg. [dal lat. priscus, affine a prior e primus] (pl. m. -chi), poet. - Che appartiene a età antichissima, che risale a tempi remoti) ha il significato di "primo" ed è stato attribuito a re Lucio Tarquinio per distinguerlo dall'omonimo figlio, a cui invece è stato aggiunto l'aggettivo di "superbo". Secondo la tradizione Lucio Tarquinio Prisco era nato a Tarquinia da madre etrusca e da padre greco di nome Demarato, originario di Corinto. Nonostante Tarquinio, che all'epoca si chiamava Lucumone, fosse ricco e noto nella sua città, veniva osteggiato dai suoi concittadini e non riusciva ad accedere alle cariche pubbliche. Per questi motivi e su consiglio di sua moglie, la nobile  Tanaquil, decise quindi di emigrare da Tarquinia a Roma, dove cambiò nome, dall'etrusco Lucumone al più latino Lucio Tarquinio, detto poi Prisco per distinguerlo da suo figlio, l'ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo. Delle sue qualità Floro dice: «[...] riuniva in sé il genio greco con le qualità italiche.». (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 5.1.)

In città Tarquinio si fece notare per le sue qualità e la sua generosità, tanto che re Anco Marzio volle conoscerlo e, una volta divenuto amico, prima lo fece entrare tra i suoi consiglieri, poi decise di adottarlo, affidandogli il compito di proteggere i suoi figli. Secondo alcuni studiosi come Giuseppe Valditara, ricoprì anche la carica di magister populi. Alla morte del re, Tarquinio riuscì a farsi eleggere re dal popolo romano abusando del prestigio che Anco Marzio gli aveva conferito, nominandolo tutore dei propri figli, che Tarquinio si assicurò di allontanare quando promosse la propria candidatura al trono.

L'abilità militare di Lucio Tarquinio Prisco fu messa alla prova fin dall'inizio del suo regno da un attacco sferrato dai Sabini; l'attacco fu respinto dopo sanguinosi combattimenti nelle strade della città, portando non pochi territori di queste genti vinte sotto il controllo di Roma. Fu in questa occasione che fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù (Ramnes, Tities e Luceri) doveva fornire all'esercito, portando così il totale dei cavalieri a 600

Tarquinio combatté poi i Latini, distrusse Apiolae e conquistò Crustumerium, Nomentum e Collatia, che diventò una colonia romana governata dal nipote Egerio.

Quindi combatté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle e Vetulonia, corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica, con i Latini che ottennero la pace dietro il pagamento dei danni e la restituzione di quanto depredato.

Gli scontri continuarono anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che occuparono Fidenae con una propria guarnigione per poi continuare gli scontri. Gli scontri tra i Romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni e si risolsero con un grande scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinto dai romani. In seguito a questo scontro gli etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città, Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.

Tarquinio riformò lo stato raddoppiando il numero di senatori, dai 100 membri romulei a 200, e secondo alcuni aumentò il numero dei membri dell'assemblea centuriata 1.800 componenti, anche se per la maggior parte delle fonti storiche, quell'assemblea sarà istituita da Servio Tullio.

Lucio Tarquinio Prisco attuò una riforma che riguardò la classe dei cavalieri, raddoppiandone il numero delle centurie (fino ad allora in numero di tre) a cui diede il nome di posteriores, non potendo dargli il suo nome a causa di Attio Navio, portando così il totale dei cavalieri a 600. Alcuni studiosi pensano che potessero essere le famose sex suffragia, anche se per altre fonti, con sex  suffragia si indicavano le sei centurie di èquites equo publico, che aprivano la votazione nei comìtia centurìata  introdotti con la riforma timocratica operata da Servio Tullio.

Ai danni di Tarquinio Prisco, è rimasta celebre l'interferenza di un certo Attio Navio ad aumentare, attribuendogli il suo nome, i contingenti di cavalleria nell'esercito. 

Narra Tito Livio: «36 Stava anche preparandosi a dotare Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra coi Sabini si sovrappose ai suoi progetti. La cosa fu così improvvisa che i nemici attraversarono l'Aniene prima che l'esercito romano potesse mettersi in marcia e andargli a chiudere il passaggio. A Roma fu subito il panico. Sulle prime l'esito dello scontro fu incerto ed entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico rientrò nell'accampamento, dando così ai Romani la possibilità di riorganizzarsi da capo per la guerra. Tarquinio pensava che le sue truppe avessero particolari carenze nei reparti di cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il suo nome. Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna consultazione augurale e Atto Navio, famoso augure di quegli anni, disse che non si potevano apportare modifiche o introdurre innovazioni nella struttura dell'esercito senza l'approvazione degli uccelli. Il re reagì stizzito e, per ridicolizzarne la presunta scienza, disse: “Avanti, visto che sei un veggente, chiedi un po' ai tuoi uccelli se si può mettere in pratica quello a cui sto pensando in questo momento!” E quando Atto, dopo aver consultato il volo degli uccelli, disse che la cosa si sarebbe avverata di sicuro, il re ribatté: “Ben fatto! Il problema è che io stavo pensando che tu riuscissi a tagliare in due una pietra con un rasoio. Prendi i due oggetti e vedi di fare quello che secondo i tuoi uccelli è possibile.” Pare che a quel punto l'augure, senza un attimo di esitazione, tagliò in due la pietra. C'era una statua di Atto in piedi a capo velato nel luogo del miracolo, in pieno comizio e proprio sulle scale che portano alla parte sinistra della curia. Dicono che anche la pietra fu collocata nello stesso punto per ricordare il prodigio ai posteri. Sta di fatto che gli auguri e la loro professione acquistarono in seguito un tale prestigio, che tanto in pace quanto in guerra non si prese più nessuna iniziativa senza prima aver tratto gli auspici: assemblee popolari, chiamate alle armi, pratiche di estrema importanza, tutto veniva rimandato se non si aveva l'approvazione degli uccelli. Così nemmeno Tarquinio apportò delle modifiche alla procedura nel caso presente delle centurie di cavalleria: raddoppiò il loro numero di effettivi in maniera tale da avere milleottocento cavalieri distribuiti in tre centurie (??? N.d.R.). Mantennero lo stesso nome delle centurie dove erano stati arruolati, salvo assumere la denominazione di Posteriori. Oggi, visto che ne sono state aggiunte altre tre, si chiamano le sei centurie.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 36.)

«37 Una volta rinforzata questa parte dell'esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini. Ma, oltre che dall'incremento di effettivi, l'esercito romano fu aiutato anche da un astuto espediente: alcuni uomini vennero inviati a raccogliere una gran massa di fascine lungo la riva dell'Aniene e a gettarle nel fiume dopo avervi dato fuoco. La legna incendiata, spinta dal vento a favore, andò a finire per lo più sulle barche e sui supporti in legno del ponte che prese fuoco. Lo stesso espediente seminò il panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la ritirata quando poi cominciò il fuggi fuggi. Molti riuscirono a evitare il nemico ma morirono nel fiume. Parte delle loro armi, galleggiando sull'acqua, furono riconosciute nel Tevere e diedero a Roma la notizia della grande vittoria ancora prima che arrivassero i messaggeri ad annunciarla. I protagonisti assoluti di questa battaglia furono i cavalieri: collocati ai due fianchi dei reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga. I Sabini si sparpagliarono disordinatamente verso le montagne, ma solo pochi di essi le raggiunsero. La maggior parte, come già detto prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri. Tarquinio, pensando fosse opportuno insistere mentre gli avversari erano in preda al panico, inviò a Roma bottino e prigionieri; quindi, per realizzare un voto fatto a Vulcano, diede ordine di accatastare la grande quantità di armi sottratte al nemico e di darvi fuoco. Poi, alla testa dell'esercito, invase il territorio sabino. Nonostante la brutta batosta e le poche speranze di ribaltare le sorti ormai compromesse della battaglia, i Sabini, non avendo tempo a sufficienza per ponderare una decisione, scesero in campo con i resti raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti per una seconda volta e allo stremo delle forze, chiesero la pace.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 37.)

«38 Ai Sabini furono tolti Collazia e il territorio oltre Collazia. A governarla con una guarnigione rimase Egerio, nipote di Tarquinio. A quanto ne so, ecco in che termini e come avvenne la resa dei Collatini. Il re chiese: “Siete voi i legati e i portavoce mandati dai Collatini con l'incarico di consegnare voi stessi e il popolo collatino?” “Sì.” “Il popolo collatino è padrone di se stesso?” “Sì.” “Consegnate dunque voi stessi e il popolo collatino, la città, le campagne, l'acqua, i confini, i templi, la mobilia, e tutti gli oggetti sacri e profani all'autorità mia e del popolo romano?” “Sì.” “E io accetto.” Conclusa così la guerra coi Sabini, Tarquinio rientra a Roma in trionfo. In seguito combatté coi Latini Prischi, da cui poi prese il nome. Ma durante questa guerra non si arrivò mai a uno scontro veramente decisivo: accerchiando, invece, di volta in volta le singole città, sottomise tutti i Latini. Furono conquistate: Cornicolo, Ficulea Vecchia, Cameria, Crustumeria, Ameriola, Medullia, Nomento, tutte città dei Latini Prischi o passate dalla loro parte durante la guerra. Poi fu conclusa la pace. In seguito il re si dedicò a massicce opere di pace con maggiore impegno di quanto ne avesse profuso nell'organizzare le guerre. Lo scopo era quello di evitare che la sua gente fosse meno impegnata adesso che ai tempi delle campagne militari. Così si ricomincia la fortificazione in pietra - abortita sul nascere per lo scoppio della guerra coi Sabini - di quella parte di Roma che ne era ancora priva. Poi, con un sistema di condotti in discesa verso il Tevere, fa bonificare le parti basse della città, le zone intorno al foro e le valli tra i colli, perché non era possibile far defluire le acque per la natura eccessivamente pianeggiante del terreno. Infine, già anticipando l'importanza che un giorno il luogo avrebbe assunto, fa gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta di un tempio che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in onore di Giove.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 38.)

«39 In quel periodo il palazzo reale assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta da fiamme. Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la famiglia reale. Un servitore portò dell'acqua per spegnere le fiamme, ma la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso intimando di non toccare il bambino finché non si fosse svegliato da solo. Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli disse: “Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi. Quindi vediamo di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e per noi stessi.” Da quel momento in poi essi presero a trattarlo come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in genere portano a concepire grandi ideali. La cosa non fu difficile perché la volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero reggere al confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia. Questo grandissimo onore, per qualsivoglia natura conferitogli, impedisce di credere che egli fosse figlio di una schiava e schiavo lui stesso nella prima infanzia. Io sono più dalla parte di chi sostiene questa tesi: caduta Cornicolo, la moglie incinta di Servio Tullio, ucciso durante l'assedio e massima autorità cittadina, finì a Roma con le altre prigioniere. Qui la regina ne riconobbe i segni inconfondibili della nobiltà e non solo impedì che andasse a fare la schiava, ma le permise anche di mettere al mondo il suo bambino nel palazzo di Tarquinio Prisco. In seguito un simile gesto fece germogliare l'amicizia tra le due donne, e il bambino, come se fosse nato e cresciuto nella reggia, fu trattato con stima e affetto. È probabile che la tesi della sua origine servile fu costruita sulla sorte della madre, fatta prigioniera dal nemico dopo la rotta della città d'origine.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 39.)

Fu Tarquinio che per primo celebrò un trionfo su un cocchio dorato a quattro cavalli in Roma, vestito con una toga ricamata d'oro ed una tunica palmata (con disegni di foglie di palma), vale a dire con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l'autorità del comando. E sempre a lui si deve l'introduzione in città di usanze tipicamente etrusche, relative alla sua posizione regale, come i riti sacrificali, la divinazione, la musica per le pubbliche manifestazioni, le trombe (tubae), gli anelli, lo scettro, il paludamentum, la trabea, la sella curule, le falere, la toga pretesta, i fasci littori e le asce. Grazie alle fortunate guerre intraprese contro le vicine popolazioni, riuscì a rimpinguare le casse statali con i ricchi bottini depredati alle città sconfitte. E sembra che decise di dotare la città di Roma di nuove mura.

Si occupò anche dei giochi della città, erigendo il Circo Massimo e destinandolo come sede permanente delle corse dei cavalli, istituendo i ludi Romani; prima di allora gli spettatori assistevano alle gare, che qui si svolgevano, seduti da postazioni di fortuna.

In seguito a forti alluvioni, che interessarono specialmente le zone dove sarebbe sorto il futuro Foro Romano, fece poi iniziare la costruzione della Cloaca Massima. A lui si deve poi l'inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino sul colle del Campidoglio.

A Tarquinio Prisco si deve l'inizio della costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio, si realizza la bonifica delle zone paludose del territorio romano con la costruzione delle cloache, canali per convogliare l'acqua stagnante verso il Tevere e la scelta del Campidoglio come centro religioso - e quindi politico - della città.


Durante il regno di Tarquinio Prisco, i principali centri etruschi  dell'Etruria e della Campania vissero una stagione prospera per gli scambi commerciali con le popolazioni dell'Egeo (dalle coste fino all'entroterra dell'Asia minore) e con i Cartaginesi. L'elemento etrusco, già incorporato nel tessuto sociale di Capua, della quale occupava una zona residenziale detta "vicus Tuscus", impregnò politicamente la storia della stessa Roma con i suoi ultimi tre re. 

Romani, durante la dominazione degli ultimi loro tre re etruschi, dal 616 a.C. al 509 a.C., appresero le modalità e l'arte del combattimento tipiche degli Etruschi. Fu solo dopo la fine della monarchia e la cacciata dei re etruschi, e la successiva conquista dei territori dell'Italia meridionale (a cominciare dal Latium vetus), in seguito ad una serie interminabile di guerre contro Sabini, Volsci, Equi, Ernici, Latini e Sanniti, che la costante evoluzione di tecnica, tattica e strategia attinte da diversi avversari, permise ai Romani di superare i loro antichi maestri etruschi

Lazio arcaico nel 600 a.C., da
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Albe_planlatium.jpg

Il risultato finale fu la sottomissione degli antichi territori dell'Etruria. «[...] dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa [...]» (Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, VI, 106.). 

Considerata la loro organizzazione federale di città-stato, in caso di guerra gli eserciti etruschi erano reclutati richiamando alle armi i cittadini secondo la loro ricchezza e posizione sociale: di conseguenza composizione, equipaggiamento e aspetto degli eserciti doveva variare molto. Le formazioni armate comprendevano corpi di opliti, soldati in servizio permanente sottoposti a costante addestramento, che sostenevano il maggior peso del combattimento. Combattevano compatti ed erano armati di lancia, spada, difesi da scudo, elmo e corazza o un piccolo pettorale al centro del petto. Al loro fianco si trovavano reparti di truppe leggere, che comprendevano fanti armati alla leggera e tiratori scelti (arcieri o frombolieri), con il compito di provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. La cavalleria, sia quella etrusca che quella romana, si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia. I cavalieri romani furono comunque protagonisti assoluti nella battaglia contro i Sabini sul Tevere: collocati ai due fianchi dei reparti nemici, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga.

I monumenti mostrano che anche i cavalieri romani seguivano la generale tendenza delle cavallerie di tutti i popoli d'Italia ad adottare l'armamento greco: conservarono però l'ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo (parma). È attestato anche per Roma l'uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l'altro per lo scudiero; e forse dagli scudieri degli equites si era a un certo momento sviluppata quella cavalleria leggera dei ferentarii, armati di iacula, una piccola lancia, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall'esercito romano almeno prima dell'età di Polibio, forse già nel secolo III. L'opinione del Helbig, che gli antichissimi equites non fossero che una fanteria pesante montata, che si giovava dei cavalli per spostarsi più rapidamente e più agevolmente, è, se formulata troppo rigidamente, eccessiva.

Lucio Tarquinio infine, fu assassinato da sicari assoldati dai figli di Anco Marzio, che probabilmente, oltre che punirlo per come si era comportato con loro, ambivano a sedersi sul trono che era stato di loro padre. La moglie Tanaquil fece in modo che fosse designato come successore il loro genero Servio, visto che il figlio Lucio Tarquinio (il Superbo) era minorenne. Servio Tullio le promise che avrebbe lasciato il trono a loro figlio quando questi avesse raggiunto la maggiore età, cosa che non fece e che gli costò poi la vita, visto che Lucio Tarquinio il Superbo e sua moglie Tullia, figlia di Servio, ne provocarono la morte.

Dopo l'ascesa al trono di Servio Tullio del 578 a.C., i due figli di Anco Marzio, che avevano assoldato i sicari di Tarquinio Prisco, si ritirarono in esilio a *Suessa Pometia.


*Suessa Pometia o Pometia è citata da numerosi autori antichi, ma rimane priva di precisa localizzazione: probabile tra le moderne Aprilia e città di Pomezia, fondate entrambi negli anni trenta del XX secolo, quest'ultima ne riprende infatti solo il nome. Virgilio la cita tra le colonie di Alba Longa, nel qual caso la si dovrebbe annoverare tra le città latine, come anche per Diodoro. Tito Livio e Strabone invece attestano che era volsca. Suessa fu poi conquistata da parte del re di Roma Tarquinio il Superbo, e questo episodio segnò l'inizio di oltre due secoli di scontri. Suessa Pometia doveva essere una città ricca, se Tarquinio poté iniziare i lavori di costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimo al Campidoglio, grazie al bottino raccolto dai Romani a seguito della sua conquista.
In seguito la città si consegnò agli Aurunci e quindi nel 502 a.C. fu nuovamente presa dai Romani guidati dal console Spurio Cassio Vecellino, il promulgatore della riforma agraria per eccellenza, che la distrussero e ridussero gli abitanti in schiavitù. Nonostante questa sconfitta, la città riappare nel 495 a.C. in mano dei Volsci che, temendo la reazione di Roma, lasciò a questa 300 figli di nobili come ostaggi a garanzia della nuova tregua. I Romani però, non fidandosi più dei Volsci, guidati da Publio Servilio Prisco Strutto ebbero la meglio, distruggendo ancora Suessa, di cui non si ha più notizia nelle cronache successive. La città scomparve senza lasciare traccia. Riguardo a Suessa, Plinio il Vecchio racconta che in essa i romani vi deportarono una neonata di nome Valeria, perché nata con i denti, fatto questo considerato di malaugurio per la città di nascita della bambina.

Servio Tullio, di Guillaume
Rouille (1518?-1589) https:
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Nel 578 a.C. Servio Tullio diventa il sesto re di Roma e, secondo la tradizione, ha regnato dal 578 a.C. al 535 a.C., per 43 anni. 

Secondo alcune fonti, Servio Tullio, come attesterebbe anche dal nome, era di umili origini; nacque infatti da una prigioniera di guerra (che si racconta fosse stata nobile nella sua città) ridotta a servire il focolare domestico del re Tarquinio Prisco. Si narra anche potesse essere il figlio della schiava Ocresia (che era moglie di Tullio, priceps latino di Corniculum, l'attuale Montecelio), fatta prigioniera. Si racconta poi che, quando da bambino Servio stava ancora nella culla, gli brillò una fiamma sulla testa (o un fallo brillò nel focolare), evento che Tanaquil, la colta e lungimirante moglie di Tarquinio Prisco, interpretò come destino di grandezza. Servio dovette quindi la sua fortuna a Tanaquil, che indovinandone la futura grandezza gli diede in sposa la figlia, e alla morte del marito fece in modo che Servio gli succedesse come re di Roma al posto del fanciullo Lucio Tarquinio (detto poi il superbo), il figlio primogenito del loro matrimonio a cui Servio aveva giurato di lasciare il trono una volta raggiunta l'età adulta. Infatti, quando Tarquinio Prisco fu ucciso dalla congiura messa in atto dai figli di Anco Marzio ai quali aveva sottratto il trono, Tanaquil nascose la morte del re, asserendo invece che era rimasto solo ferito e che nel frattempo Servio Tullio sarebbe stato il reggente. Diede quindi modo a quest'ultimo di presentarsi come il successore designato di Tarquinio, quando tre giorni dopo, e solo in seguito al ristabilimento della calma dopo l'attentato al re, venne comunicata la morte del sovrano. Il sesto re di Roma saliva così al trono senza alcuna espressione di consenso da parte del popolo e grazie al patto stretto con Tanaquil, di cedere la carica al primogenito orfano di Tarquinio non appena questi avesse raggiunto la maggiore età.

«[...] alla morte di Tarquinio Prisco, grazie agli sforzi della regina [Tanaquil], Servio fu posto sul trono al posto del re, come se fosse una misura non definitiva, ma conservò il regno conquistato con l'inganno con tanta abilità, che sembrava lo avesse ottenuto in modo legittimo.» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 6.2.)

Racconta Tito Livio: «40 Dopo quasi trentotto anni dall'inizio del regno di Tarquinio, Servio Tullio aveva conquistato la stima totale non solo del re ma anche dei senatori e del popolo. I due figli di  Anco avevano sempre considerato il colmo dell'infamia il tiro mancino con cui il loro tutore li aveva privati del regno paterno e il fatto che a Roma regnasse uno straniero le cui origini non erano nemmeno italiche. In quel tempo erano più indignati ancora dalla prospettiva che nemmeno dopo Tarquinio il regno sarebbe toccato a loro, ma, subendo un ulteriore degrado, sarebbe finito in mano a un ex-servo. E in quella stessa Roma, dove quasi cent'anni prima Romolo, figlio di un dio e dio lui stesso, aveva regnato durante la sua permanenza in terra, ora sarebbe salito al trono un servo figlio di una serva. Sarebbe stata un'onta tremenda per tutti i Romani in generale e per il loro casato in particolare se, nonostante l'esistenza di discendenti maschi del re Anco, non solo degli stranieri, ma addirittura degli schiavi potessero arrivare a regnare su Roma. Decidono pertanto di evitare con le armi un simile affronto. Il risentimento per i torti subiti li spingeva più contro Tarquinio che contro Servio: in primo luogo perché se avessero risparmiato il re la sua vendetta sarebbe stata più implacabile di quella di un suo subalterno, e in secondo luogo, uccidendo Servio, Tarquinio era probabile lo avrebbe rimpiazzato con un genero qualunque destinato a ereditare il trono al suo posto. Per tutti questi motivi il complotto viene ordito ai danni del re. Come esecutori diretti vennero scelti due pastori senza scrupoli che, armati degli attrezzi di lavoro di tutti i giorni, organizzarono una finta rissa nel vestibolo della reggia e, facendo il maggior rumore possibile, cercarono di attirare i domestici del re. Poi, dato che entrambi volevano appellarsi al sovrano e il frastuono del loro litigio era arrivato fin dentro la reggia, Tarquinio li fece convocare. Sulle prime si misero a urlare cercando di prevaricare l'uno la voce dell'altro e la smetterono soltanto dopo l'intervento di un littore che ordinò loro di esporre a turno le rispettive ragioni. Allora uno di essi comincia a mettere insieme quanto precedentemente convenuto. Mentre il re lo stava ascoltando con grande attenzione, l'altro solleva la scure e lo colpisce alla testa. Quindi, lasciata l'arma nella ferita, i due si precipitano di corsa fuori dalle porte.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 40.)

«41 Mentre quelli del seguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe. Poi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos'era successo. Tanaquil, nel pieno della calca, ordina di chiudere la reggia e fa uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procura il necessario per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente però, nel caso la speranza fosse venuta meno, prende altre precauzioni. Fa subito chiamare Servio, gli mostra il corpo quasi esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implora di non lasciare impunita la morte del suocero né di permettere che la suocera diventi lo zimbello dei nemici. “Se sei un uomo, Servio,” gli dice, “è a te che tocca il regno e non ai mandanti di questo atroce delitto. Animo, quindi, e affidati agli dèi che con quel fuoco intorno alla tua testa hanno già voluto preannunciare la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di trarre forza da quella fiamma! Adesso è ora di svegliarsi sul serio. Eravamo degli stranieri anche noi, eppure siamo arrivati a regnare: pensa a quello che sei, non a dove sei nato. Se per gli avvenimenti improvvisi non sai che decisione prendere, allora dai retta ai miei consigli.” Quando il frastuono e la ressa della gente toccarono il limite estremo della tollerabilità, Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in profondità. Inoltre la ferita era stata esaminata, l'emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto. Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re. Servio avanza con tanto di trabea e di littori, occupa la sedia del re ed emana verdetti a proposito di alcuni casi, fingendo invece di dover consultare il sovrano per altri. In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo già Tarquinio passato a miglior vita, egli ne nascose la morte facendosi passare per un mero sostituto, quando invece stava consolidando il suo potere. Dopo un po' di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu  il primo a regnare  senza il consenso popolare ma solo con l'autorizzazione del senato. I figli di Anco, quando dopo l'arresto dei sicari da loro prezzolati vennero a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto favore, si erano già ritirati in volontario esilio a Suessa  Pomezia.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 41.)

«42 Servio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alla sua abilità nel muoversi all'interno della sfera privata. Così, onde evitare che l'odio nutrito dai figli di Anco nei confronti di Tarquinio divenisse lo stesso sentimento nei suoi rapporti con la prole di Tarquinio stesso, diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte Tarquinio. Ciò nonostante, con la sua dimostrazione di assennatezza, non riuscì a infrangere l'ineluttabilità del destino: l'invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri della casa reale. Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti (la tregua era ormai scaduta) e con altre popolazioni etrusche. In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritorna a Roma, conscio di essere ora in una posizione che non si prestava più a critiche né da parte dei senatori né da parte del popolo. Quindi si occupa di ciò che aveva la precedenza assoluta in campo civile: come Numa aveva codificato i regolamenti in materia di religione, così Servio è passato ai posteri per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. Stabilì, cioè, il censo, cosa utilissima per un regno destinato a enormi ampliamenti, col quale i carichi fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito. Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42.)

L'imperatore Claudio, che aveva avuto come prima moglie un'etrusca, aveva scritto un'opera, andata perduta, sugli Etruschi. Da https://storieromane.altervista.org/biografie/eta-regia-753-509-a-c/servio-tullio/: Grazie ad un celebre discorso tenuto in senato dall’imperatore Claudio riguardo la cittadinanza, sappiamo del nome etrusco di Servio Tullio, Mastarna, che potrebbe derivare dal latino magister più il suffisso -na, che indica un'appartenenza. Servio sarebbe stato il servitore di Celio Vibenna, etrusco che aveva conquistato Roma. Mastarna, in seguito alla morte di Celio (cui sarebbe stato dedicato l’omonimo colle), si sarebbe sbarazzato di Aulio Vibenna, fratello di Celio, restando unico padrone della città.

Carta dell'antica Roma nel
600 a.C., con mura serviane,
da https://www.romanoimp
ero.com/2011/10/mura-
serviane.html
.
Servio Tullio ampliò  il  pomerium ed annesse alla città di Roma i colli Quirinale, Viminale ed Esquilino. Avrebbe  costruito, insieme ai Latini, il tempio di Diana sul colle Aventino. Scavò un ampio fossato intorno alle cosiddette "mura serviane" (che sembra siano state iniziate dal predecessore, Tarquinio Prisco), che cingevano tutti i sette colli

Statuetta romana
di Mater Matuta,
da https://it.wikipe
dia.org/wiki/Mate
r_Matuta#/media/
File:Roman_ter
racotta_mother_
goddess_1.JPG
.
Eresse numerosi templi mirando a rendere Roma il principale centro spirituale della regione. Fece quindi costruire sull'Aventino, insieme agli alleati latini, il tempio di Diana, dea che corrispondeva alla greca Artemide, il cui tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis. Come per i Greci, per i quali il tempio di Artemide rappresentava una federazione di città, con il tempio di Diana, costruito intorno al 540 a.C., i Romani miravano a porsi come centro politico-religioso delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale. A Servio si ascrive anche la decisione di costruire il tempio di Mater Matuta ed il tempio della dea Fortuna, entrambi al Foro Boario. Il primo nome  dell'insediamento urbano di Sanremo è stato "Villa Matuta", probabilmente dal nome della dea. 

Nell'antica Roma, la tradizionale ripartizione dei cittadini in tribù stabilita da Romolo, faceva riferimento all'appartenenza gentilizia e raggruppava quindi nella stessa tribù, le nobili gentes della stessa etnia. La gens (pl. gentes) era un gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune e praticava culti comuni. Secondo la convenzione dei nomi romani, i membri di una gens condividevano lo stesso nomen gentilizio, mentre i suoi differenti "rami", le famiglie (familiae), portavano un  differente  cognomen (o soprannome) per distinguersi. Ad esempio la gens Cornelia comprendeva sia i Cornelii Scipiones che i Cornelii Balbi, i Cornelii Lentuli ecc. ecc. 

Servio Tullio adeguò invece le tribù ai territori in cui erano stanziate, non distinguendole per discendenze gentilizie o etnie. Creò così quattro nuove tribù urbane: Palatina (nel territorio del colle Palatino), Suburana (nel territorio del colle Celio), Esquilina (nel territorio del colle Esquilino) e Collina (nel territorio del colle Quirinale) e diciassette tribù rustiche (extra-urbane), dando così vita ai Comizi tributi (Comitia Populi Tributa), le assemblee comprendenti sia i patrizi che i plebei di ogni tribù, distribuite territorialmente, nelle quali i cittadini romani venivano convocati per scopi elettorali e amministrativi. Come per i comizi centuriati il voto era indiretto, con un voto assegnato ad ogni tribù. I comizi tributi erano organizzati su base territoriale e si riunivano presso la sorgente Comizia, nel Foro Romano, ed eleggevano gli Edili (solo quelli curulis), i Questori e altri magisteri. La composizione di questo comizio andò aumentando nel tempo, con l'accrescersi del numero di tribù, dalle quattro dei primi comitia, alle 35 definitive del 241 a.C.

Considerato il secondo fondatore di Roma, Servio Tullio modificò l'assetto politico-militare di Roma con la riforma timocratica (la timocrazia, dal greco timokratìa  composto da timè = onore e kratìa =  governo, è un tipo di governo in cui diritti e doveri del cittadino sono stabiliti secondo classi censitarie, cioè in base ai redditi e/o capitali posseduti). Il sesto re di Roma introdusse il principio del censo, suddividendo i Romani per patrimonio, dignità, età, mestiere e funzione, così da creare cinque classi  economiche che avevano il dovere di servire militarmente la patria (la terra dei padri) assolvendo le leve militari e il diritto di voto nei comizi Centuriati. In questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutarne il patrimonio e quindi valutare il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato e stabilire inoltre, alla luce del censo posseduto, la classe di appartenenza sia nei comizi centuriati che nell'esercito


La popolazione delle tribù (nella sistemazione definitiva della Repubblica si arriverà a 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche) si ritrovava quindi ad essere suddivisa in centurie, unità originariamente di 100 uomini, appartenenti a  cinque classi, dalla prima dei più ricchi alla quinta dei meno abbienti, a seconda del loro censo.

Il "Census", il censimento della popolazione maschile si teneva ogni 5 anni e ripartiva i cittadini per patrimonio, dignità, età mestieri e funzioni al fine di individuare le relative classi militari di appartenenza, non più in relazione alla nobiltà di nascita ma al patrimonio posseduto, visto che erano  i cittadini a provvedere alle spese per il proprio armamento. Tale occasione si inaugurava con il "Lustrum" che consisteva in una "Lustrazio": tre animali sacri, prima di essere sacrificati, giravano attorno all'esercito in armi schierato nel Campo Marzio, per rendere splendore e sacralità all'evento. Lustro è rimasto nel nostro linguaggio a indicare un periodo di 5 anni

Il nuovo corpo civico era ora composto, oltre che dai comizi curiati, le assemblee dei maschi adulti delle nuove tribù territoriali e i recenti comizi tributi, dai nuovi comizi centuriati, le assemblee delle centurie che costituivano  le cinque classi in cui erano suddivisi i cittadini, in base al loro censo. 

Ai comizi centuriati partecipava l'esercito in armi, (il populus inteso come esercito, dal latino arcaico populare = devastare) e perciò non si potevano svolgere in città, in cui era proibito portare armi, ma nel Campo Marzio, al di là del Tevere; Tito Livio riporta, insieme alla testimonianza di Fabio Pittore, un altro storico romano, che il primo comizio centuriato fu convocato in armi al di fuori del pomerium, il confine sacro della città, nel Campo Marzio, luogo che resterà sede dei comizi centuriati anche per le successive convocazioni. Durante la prima convocazione, secondo Fabio Pittore erano presenti 80.000 uomini in armi, numero che crebbe poi nel tempo rendendo la convocazione sempre più difficoltosa.

Servio Tullio si era reso conto che, per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste, era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva, visto che l'esercito romuleo era costituito solo dalla nobiltà in un'unica legione, di circa 3.000 fanti e 300 cavalieri. 

Con la riforma timocratica era favorito il reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma inizierà a chiamarsi plebe. L'inclusione della plebe nell'esercito portò ovviamente ad un aumento degli effettivi nell'esercito e inevitabilmente ad un primo contrasto con lo strato superiore della società romana, i patrizi, che vedevano minacciata la loro supremazia.

È opinione ormai diffusa che, identificandosi i patrizi con la cavalleria, le classi inferiori  dei pedites  fossero perlopiù composte da plebei. Con la riforma serviana vi fu anche l'importante novità che coloro che si distinguevano in battaglia divenissero centurioni, comandanti di una centuria di legionari. Probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la cavalleria romana era in servizio permanente, nel senso che lo stato corrispondeva a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il loro foraggio (aes hordiarium); si riconoscevano cioè le speciali esigenze di  addestramento e allenamento che il servizio a cavallo richiedeva. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando  non fossero stati sufficienti  gli equites equo publico.

Le centurie ottemperavano a funzioni sia militari che politiche; avevano il dovere di costituire l'esercito con le legioni e il diritto di voto nei comizi centuriati, assemblea a cui, nel periodo della repubblica,  saranno demandati i maggiori compiti di governo riservati al popolo. 

L'affollamento della prima classe sembra dimostrare che vi partecipassero tutti i proprietari unici di intere unità fondiarie, e che alle classi inferiori fossero invece  iscritti quelli che per ragioni ereditarie o di altro ordine, possedessero rispettivamente i tre quarti, la metà, un quarto, o una frazione  minore di altre unità fondiarie.

Non si sa con esattezza quando, ma pare che occorressero 20 iugeri di terreno (lo iugum nell'antica Roma era l'unità di misura di superficie equivalente a 0,252 ha e indicava il terreno arabile in una giornata da una coppia di buoi attaccati allo stesso giogo) per l'appartenenza alla I classe; 15 alla II, 10 alla III, 5 alla IV, 2 alla V. 

Il censo necessario per l'appartenenza a ciascuna classe viene riferito dagli antichi cronisti, in denaro (100.000 assi per la 1ª classe, 75.000 per la 2ª, 50.000 per la 3ª, 25.000 per la 4ª, 12.000 o 11.000 per la 5ª), ma è probabile che questo criterio sia stato introdotto dal console Appio Claudio Cieco (nel 310 a. C.), mentre in precedenza erano censiti nelle cinque classi solamente gli adsidui, coloro che prestavano assiduamente i servizi militari, cioè  i proprietari di  fondi iscritti come tali nelle tribù.

La monetazione a Roma venne introdotta verso la fine del IV secolo a.C., per cui i capitali, al tempo della monarchia e della prima repubblica, erano misurati in "pecunia" (nome della pecora in latino) non numerata e cioè metallo pesato  (come gli assi in bronzo). Nella prima parte della storia di Roma, dalla sua fondazione (21 aprile 753 a.C.) a tutto il periodo monarchico (753-509 a.C.) e parte del periodo repubblicano, fino al III secolo a.C., il commercio non si basava sull'uso della moneta, ma su una forma di baratto che sfruttava come mezzo di scambio scarti di lavorazione di bronzo informi (l' aes rude) di valore intrinseco, ossia la quantità di bronzo. La prima moneta standardizzata da parte dello stato Romano è stata l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C. Nella Roma del I secolo d.C., con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa 2 €.

Il rapporto fra le centurie dell'esercito e quelle dei comizi centuriati rimane piuttosto oscuro. Secondo una dottrina ispirata alle dichiarazioni di Dionisio, sembra che ogni centuria dell'ordinamento serviano (o almeno ogni centuria di iuniores nelle classi dei pedites) dovesse fornire alle leve annuali un contingente di 100 uomini. Ma anche calcolando in 19 le campagne alle quali ogni iunior era tenuto a partecipare entro i 28 anni d'iscrizione, il continuo guerreggiare dei Romani e il calcolo dei morti in battaglia e d'invalidi, presupporrebbe negli iuniores della prima classe, centurie di 300 uomini (e di 100 nei seniores); sicché alla prima classe avrebbero dovuto appartenere 16.000 uomini validi. Quanto alle classi inferiori, anche a voler ammettere che l'addensamento non superasse da classe a classe il 33%, non avrebbero potuto aver meno di 40.000 uomini complessivamente: con la cavalleria e il proletariato, si sarebbero raggiunti 60.000 uomini validi, un numero di cui Roma non poteva disporre al tempo del re Servio e nemmeno per secoli a venire. Si aggiunga che non solo le operazioni del censimento, ma anche quelle della leva annuale si facevano, come concordemente rilevano gli antichi, fra le tribù in cui la popolazione era divisa (nella sistemazione definitiva le tribù erano 35, 4 urbane e 31 rustiche).
Pare quindi che le due iscrizioni di ogni cittadino fossero indipendenti, e si consideri poi che vista la maggioranza dei cavalieri e prima classe nelle votazioni dei comizi centuriati, devono essere state minime le occasioni di voto delle altre classi.

Si deve rilevare quindi che Livio e Dionisio abbiano descritto l'ordinamento centuriato con 193 centurie in una fase nella quale era già venuta meno l'eventuale originaria funzione delle centurie come distretti di leva e che la struttura primordiale fosse molto più semplice. Non è assurdo supporre che la distinzione fra seniores e iuniores non sia originaria (come ha sostenuto Beloch) e inoltre l'uso, corrente anche in età avanzata, di chiamare 'classici' i pedites della prima classe e 'infra classem' i rimanenti, può far pensare che nei primordi vigesse soltanto questa distinzione elementare, sicché 80 sole centurie  (40 di classici e 40 infra classem) fornissero i contingenti alla fanteria. Se poi si pensa che prima della presa di Crustumerium (circa 450 a.C.) le tribù erano venti, la commensurabilità fra tribù e centurie sarebbe stata stabilita almeno per un periodo iniziale.

Ma una siffatta ipotesi urterebbe con il fatto che proprio l'ordinamento descritto dagli antichi è condotto in ogni particolare sulla falsariga di un esercito di due legioni. Le centurie di iuniores delle prime tre classi darebbero 6.000 uomini di armatura pesante (3.000 per legione): le classi quarta e quinta darebbero 2.500 uomini di armatura leggera, con una minima differenza in più rispetto ai 1.200 per legione. Solo i seicento cavalieri delle legioni disporrebbero di un numero triplo di unità comiziali: ma il punto di partenza dei 600 è evidente nella posizione privilegiata dei sex suffragia, i cavalieri di ordine pubblico. In quest'ordine di idee, preferiamo ritenere che l'ordinamento attribuito a Servio  Tullio non abbia mai avuto rapporto con la leva, anzi abbia distribuito i partecipanti al comizio  ad imitazione della distribuzione delle forze nell'esercito


Secondo ogni probabilità, i comizi dell'epoca regia non ebbero mai competenza legislativa né elettorale e durante il passaggio (graduale) dalla monarchia alla repubblica, era mediante acclamazione che l'esercito eleggeva i suoi capi prima di muovere guerra. Era naturale che, trasformandosi l'acclamazione in elezione e trasferendola, dall'esercito in armi alla popolazione maschile atta alle armi, questa si ordinasse sull'esempio di quello.

Quanto alla data approssimativa dell'ordinamento centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella  diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.


Con Servio, Roma continuerà comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia, che non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio Prisco; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord. I Veienti videro Roma tornare a farsi minacciosa. In effetti, anche se gli etruschi che comandavano a Roma provenivano da Tarquinia, per Veio la situazione non era certo migliorata, tutt'altro. Nonostante la comune discendenza, Veio si trovò circondata da concorrenti: l'etrusca Tarquinia a nord, e Roma a sud, guidata da etruschi ma padrona dell'intera area latina. Può essere anche che l'influenza etrusca su Roma cominciasse già a scemare e la figura di Servio Tullio adombrasse i primi rivolgimenti politici (come l'eliminazione dalla successione al trono dei figli di Tarquinio) che riporteranno la città fuori dall'orbita etrusca. E infatti Servio Tullio, per mantenere il potere e volgere verso l'esterno l'attenzione delle forze politiche e militari dell'Urbe, riprese le ostilità con Veio e con gli altri etruschi. «Molto accortamente mantenne tranquille le vicende interne a Roma, affrontando la guerra contro i Veienti (con i quali era già terminata la tregua) e con gli altri etruschi. Tullio in quella guerra brillò per valore e fortuna.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42)

Dopo aver vinto gli etruschi, così come il predecessore Tarquinio Prisco, anche Servio si dedicò ad opere di pace e alla ristrutturazione fisica e organizzativa della città. 

Così narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita libri" I: «46 Servio, col tempo e con l'uso, era ormai incontestabilmente padrone del potere. Ciò nonostante, sentendo che il giovane Tarquinio continuava a mettere in circolazione la voce che il suo regno non aveva avuto il beneplacito del popolo, si conciliò prima il favore della plebe distribuendo a ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei suoi confronti. Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era stato eletto con una simile unanimità di consensi. Nemmeno questo episodio ridusse in Tarquinio la speranza di impadronirsi del regno. Al contrario, essendosi reso conto che la distribuzione di terre alla plebe aveva incontrato l'opposizione dei senatori, capì di avere la possibilità di diffamare Servio presso di loro e di acquistare credito in senato (lui era un giovane impetuoso e di carattere inquieto e per di più, in casa, era incitato dalla moglie Tullia). Così anche il palazzo reale di Roma fu teatro di un tragico fatto di sangue che accelerò, più della noia per la monarchia, l'avvento della libertà e fece sì che l'ultimo regno fosse il prodotto di un delitto. Questo Lucio Tarquinio - è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli storici propende per la prima tesi - aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal carattere piuttosto mite. Essi avevano sposato, come ho già detto, le due Tullie, figlie del re, ugualmente diversissime per temperamento. Caso volle che i due caratteri violenti non fossero finiti insieme (immagino perché la buona stella del popolo romano volle prolungare il regno di Servio e permettere che si consolidassero i fondamenti morali della società). La più arrogante delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non avesse un briciolo di ambizione e intraprendenza. Di qui il suo essere tutta occhi e parole di ammirazione per l'altro Tarquinio, da lei definito un vero uomo e un autentico rampollo di re. Di qui pure il suo disprezzo per la sorella, a sua detta responsabile di appiattire il marito con una totale assenza di iniziativa femminile. Presto, come sempre succede, l'affinità reciproca li avvicinò, dato che il male può solo attirare il male, anche se però fu la donna la responsabile prima di tutto l'intrigo. Quest'ultima cominciò a vedersi in segreto col cognato e, durante questi incontri, non si esimeva dall'insultare il proprio marito (con il fratello di lui) e la propria sorella (con il marito di lei). Il punto su cui batteva di più era questo: per lei sarebbe stato meglio essere senza marito e per il cognato sarebbe stato meglio essere celibe piuttosto che stare con persone di livello inferiore e vedersi costretti a languire per loro ignavia. Se gli dèi le avessero fatto sposare l'uomo che meritava, non ci avrebbe messo molto a vedere nella sua casa il potere reale che ora vedeva in quella del padre. Si affretta così a instillare nel cuore del giovane l'audacia del suo progetto. Grazie a due decessi a catena ebbero via libera in casa per celebrare un nuovo matrimonio. Servio non si oppose alle nozze, ma non diede neppure il suo consenso.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 46.)

«47 Da quel momento in poi la vecchiaia e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in pericolo. Infatti, quella donna, dopo il primo delitto, non vedeva l'ora di commetterne un se.condo e toglieva il fiato al marito giorno e notte perché non voleva che i suoi precedenti crimini rimanessero fini a se stessi. Non le era certo mancato l'uomo di cui si potesse dire che lei era la moglie e la rassegnata compagna di sottomissione. Le era mancato un uomo che si ritenesse degno del trono, che si ricordasse di esser figlio di Tarquinio Prisco e che preferisse avere il potere piuttosto che sperare di averlo. “Se sei tu l'uomo che io credo di aver sposato, allora ti chiamo marito e re. Se non lo sei, allora vuol dire che mi è andata di male in peggio perché in te oltre all'ignavia c'è anche la delinquenza. Perché non ti muovi? Non vieni mica da Tarquinia o da Corinto, come tuo padre, né devi andarti a conquistare un trono in terra straniera. Gli dèi di casa e della patria, il ritratto di tuo padre, il palazzo reale e il trono che vi si trova all'interno, il nome Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti chiama re. E se poi non hai abbastanza fegato, perché mai inganni la gente? Perché lasci che guardino a te come a un erede al trono? Tornatene a Tarquinia o a Corinto, risali i rami del tuo albero genealogico, visto che sei più della pasta di tuo fratello che non di quella di tuo padre.” Questo più o meno il sarcasmo con cui istigava il giovane. Una cosa invece non le dava pace: com'era possibile che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a brigare tanto da far salire al trono, uno dopo l'altro, prima il marito e poi il genero, e invece lei che era figlia di un re contava meno di zero negli stessi giochi di potere? Tarquinio, istigato dai furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di appoggio, specialmente presso i senatori del secondo ordine, ai quali, ricordando il gesto generoso del padre, faceva presente che era venuto il momento di ricambiarlo. Riempiva di regali i giovani. Così, sia grazie alle grandi promesse, sia grazie alla pessima pubblicità che faceva al re, la sua posizione acquistava credibilità a tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di agire, fece irruzione nel foro scortato da un drappello di armati. Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si presentassero in senato al cospetto del re Tarquinio. Essi arrivarono subito: alcuni già preparati alla cosa, altri temendo di incappare in spiacevoli conseguenze mancando all'appuntamento, tutti però sconcertati dalla novità senza precedenti e convinti che Servio fosse finito. Tarquinio allora, andando molto indietro nel tempo, accusò Servio di essere uno schiavo figlio di una schiava il quale, dopo la morte indegna di suo padre, era salito al trono grazie al regalo di una donna e non aveva rispettato la tradizione (e cioè l'interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la ratifica dei senatori). Con un simile albero genealogico e con una simile carriera politica alle spalle, aveva favorito le classi più abiette della società - cioè quelle dalle quali proveniva -, e per l'odio nei confronti di una classe alla quale non apparteneva, aveva tolto le proprietà terriere ai notabili per darle alla plebaglia. Gli oneri fiscali prima equamente distribuiti li aveva addossati nella loro totalità sulle spalle dei più abbienti. Aveva istituito il censo per convogliare l'invidia sulle fortune dei ricchi e per averle a portata di mano quando decideva di fare generose elargizioni ai nullatenenti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 47.)

«48 Servio, svegliato di soprassalto da un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa tirata e, dall'ingresso della curia, gridò fortissimo: “Che razza di storia è questa, Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di convocare i senatori e di sederti sul mio trono?” La risposta di Tarquinio fu estremamente insolente. Disse che stava occupando il trono di suo padre, trono che era di gran lunga preferibile finisse in mano all'erede legittimo (cioè lui in persona) piuttosto che a uno schiavo e che Servio aveva già insultato e preso in giro abbastanza i suoi padroni. Seguirono urla di consenso e di approvazione. Intanto la gente stava affluendo in massa sul posto ed era chiaro che il potere sarebbe andato al vincitore di quel giorno. Allora Tarquinio, costretto dalla situazione a giocarsi il tutto per tutto, favorito dall'età e dalla maggiore vigoria fisica, afferrò Servio all'altezza della vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori, lo scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella curia per evitare che i senatori si sparpagliassero. La scorta e il seguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo seguito abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali lo avevano pedinato. Sembra (e non stride poi troppo coi suoi precedenti delinquenziali) che la cosa porti la firma di Tullia. Su questo, invece, non ci sono dubbi: ella, arrivata in senato col suo cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone, chiamò fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo di re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto pericoloso. Allora Tullia, quando sulla via di casa arrivò in cima alla via Cipria (dove non molto tempo fa c'era il santuario di Diana), ordinò di piegare verso il Clivo Urbio e di portarla all'Esquilino. In quel momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il cadavere di Servio abbandonato per terra. Tradizione vuole che in quel luogo fu consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba memoria nel nome (si chiama infatti via del Crimine): pare che Tullia, invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito, calpestò col cocchio il corpo del padre. Quindi, piena di schizzi lei stessa, ripartì sulla vettura che grondava sangue dopo quell'orrore commesso sul cadavere del padre, e si diresse a casa dove i penati suoi e del marito, adirati per il tragico esordio del regno, fecero sì che esso avesse una conclusione analoga. Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne la rettitudine. E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c'era anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto e legittimo. Inoltre, per quanto moderato e mite il suo regno potesse essere stato, era pur sempre il governo di un singolo. Per questo alcuni autori affermano che egli avrebbe avuto intenzione di rinunciarvi, se la delinquenza di un parente non si fosse sovrapposta al progetto di concedere la libertà al suo popolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48.)

Servio Tullio fu così assassinato in un colpo di stato in cui era coinvolta una sua figlia Tullia e suo marito Lucio Tarquinio, detto poi "il Superbo", figlio di Lucio Tarquinio Prisco, che salì quindi al trono attraverso una sequela di crimini perpetrati con la moglie. 


Lucio Tarquinio il Superbo, di
Guillaume Rouille (1518?-1589)
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Lucio Tarquinio detto il Superbo ha regnato dal 534 fino alla sua cacciata del 509 a.C.). Figlio di Lucio Tarquinio detto Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, sposò prima Tullia Maggiore, la figlia maggiore di Servio Tullio, poi sposò la sorella di questa, Tullia Minore, da cui ebbe i tre figli Tito, Arrunte e Sesto. Con l'aiuto di quest'ultima organizzò la congiura per uccidere il suocero e ascendere sul trono di Roma.

Tito Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero rivendicandolo per sé; Tullio, avvertito del fatto, si precipitò nella Curia. «Servio, chiamato da un messo in gran fretta, sopraggiunto mentre Tarquinio teneva il suo discorso, subito dall'ingresso della curia a gran voce gridò: «Che cosa è questo, o Tarquinio? Con quale audacia, mentre io ancora vivo, hai osato convocare il senato e sedere al mio posto?» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 48.)

Ne nacque un'accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava. Il luogo del misfatto ricevette in seguito l'appropriato nome di Vicus Sceleratus.

A Tarquinio fu attribuito il soprannome di Superbo dopo che negò la sepoltura di Servio Tullio. Tarquinio assunse il comando con la prepotenza e il crimine, senza che la sua elezione fosse approvata dal Popolo e dal Senato romano, e sempre con la forza (si parla anche di una guardia armata personale) mantenne il controllo della città durante il suo regno. In breve tempo annientò la struttura fortemente democratica della società romana realizzata dal suo predecessore e creò un regime autoritario e violento a tal punto da unire per la prima volta, nell'odio verso la sua figura, patrizi e plebei.

Narra Tito Livio: «49 Da allora ebbe inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il genero, non concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non l'aveva avuta, e fece eliminare i senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio. Poi, rendendosi conto che l'indebita ascesa al trono avrebbe potuto diventare un precedente sfruttabile da altri nei suoi stessi confronti, si circondò di guardie del corpo. In effetti, l'unico diritto al trono che aveva era la forza, dato che stava regnando non solo senza il consenso del popolo ma anche senza ratifica del senato. In più si aggiungeva che, non potendo contare in alcun modo sull'aiuto dei cittadini, era costretto a salvaguardare il proprio potere col terrore. E per renderlo un sentimento diffuso, cominciò a istruire da solo, senza l'aiuto di consiglieri legali, le cause per delitti capitali: ne approfittava così per condannare a morte, per mandare in esilio, e per confiscare i beni non solo di chi era sospettato o malvisto, ma anche di chi poteva rappresentare una qualche opportunità di bottino. Soprattutto per questo, dopo aver decimato il numero dei senatori, stabilì che non se ne eleggessero altri, in modo tale da screditare l'ordine per l'inconsistenza degli effettivi e ridurne al massimo le eventuali rimostranze per la totale esclusione dalla gestione del potere. Tutti i suoi predecessori si erano sempre attenuti alla regola tradizionale di consultare il senato in ogni occasione: Tarquinio il Superbo fu il primo a rompere con questa consuetudine e resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il popolo e i senatori. Cercava soprattutto di procurarsi l'amicizia dei Latini, perché l'appoggio straniero gli desse maggiore sicurezza in patria. Con la loro aristocrazia non stabiliva soltanto rapporti di ospitalità, ma organizzava anche matrimoni. Al tuscolano* Ottavio Mamilio - di gran lunga il più rappresentativo tra i Latini e, se si presta fede alla leggenda, discendente di Ulisse e della dea Circe - diede in moglie la figlia e, grazie a questo matrimonio, si legò con molti amici e parenti di lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 49.)

*Il nome della città “Tusculum”, per quanto sembri alludere palesemente agli Etruschi, pare che derivi semplicemente dal suo corso d'acqua, il Tuscus amnis, come proposto di recente e plausibilmente.

«Lui stesso dopo aver infierito contro i senatori con le stragi, contro la plebe con le verghe, contro tutti con la superbia, che per la gente onesta è peggio della crudeltà, e dopo che fu soddisfatto della ferocia esercitata in patria, si rivolse ai nemici [di Roma].» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.4.)

Prosegue Tito Livio: «50 Tarquinio vantava già una posizione di grande influenza presso i nobili latini, quando decise di convocarli un giorno preciso presso il bosco di Ferentina, sostenendo di voler discutere alcuni problemi di comune interesse. Alle prime luci dell'alba i Latini affluiscono in massa. Da parte sua Tarquinio, pur rispettando la data, si presentò solo poco prima del tramonto. Per tutta la durata del giorno, i partecipanti all'assemblea avevano parlato a lungo di vari argomenti. Turno Erdonio di Aricia aveva inveito violentemente contro Tarquinio, dicendo che non era poi tanto strano che a Roma lo avessero soprannominato il Superbo (nome questo ormai sulla bocca di tutti, anche se ancora circoscritto alla sfera clandestina del sussurro). Oppure c'era qualcosa di più superbo che prendere in giro il popolo latino in quella maniera? Farne venire i capi così lontano dai loro paesi e poi disertare la riunione da lui stesso convocata? Era chiaro che voleva mettere alla prova la loro pazienza e poi, una volta constatato che si lasciavano mettere facilmente i piedi in testa, avrebbe abusato della loro sottomissione. A chi poteva infatti sfuggire che il piano di Tarquinio era ridurre i Latini in suo potere? Se i suoi sudditi avevan fatto bene ad affidarglielo, o se gli era stato affidato e non era il prodotto di un orrendo delitto, stessa cosa avrebbero dovuto fare i Latini, e neppure in questo caso si sarebbe trattato di uno straniero. Ma se i Romani non ne potevano più di lui, delle esecuzioni a catena, degli esili, delle confische di beni, i Latini potevano forse sperare in qualcosa di meglio una volta nella stessa situazione? Se volevano dare retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe dovuto tornarsene a casa rispettando la data della riunione con la stessa precisione di chi l'aveva organizzata. Mentre il turbolento e facinoroso Turno, che doveva proprio a tali caratteristiche la posizione di grande rilievo occupata tra le genti latine, dissertava su questi argomenti, ecco che arrivò Tarquinio. Tutti si voltarono a salutarlo. Venne fatto silenzio e il re, invitato dai più vicini a fornire spiegazioni circa il ritardo con cui si era presentato, disse di esser stato scelto come arbitro in una disputa tra padre e figlio e di aver fatto tardi per il desiderio di riconciliare i due litiganti. Quindi, dato che il giorno se ne era andato in quella bega, rimandò la riunione al mattino successivo. Pare che Turno non accettò nemmeno questo senza replicare e sentenziò che non c'era niente di più facile da sistemare che un litigio tra padre e figlio; bastavano infatti due parole: o il figlio obbedisce al padre, o peggio per lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 50.)

«51 Con questo sarcasmo diretto al re di Roma, il cittadino di Aricia abbandona l'assemblea. Tarquinio, incassando l'affronto peggio di quanto desse a vedere, inizia subito a cercare il modo per togliere di mezzo Turno, in maniera tale da ispirare nei Latini lo stesso terrore col quale in patria aveva oppresso gli animi dei suoi sudditi. E poiché non era nella posizione di eliminare il suo uomo di fronte agli occhi di tutti, lo schiacciò escogitando una falsa accusa che in realtà non aveva nulla a che vedere con lui. Grazie ad alcuni rappresentanti del partito all'opposizione di Aricia, riuscì a corrompere uno schiavo di Turno affinché lasciasse introdurre di nascosto una grande quantità di armi nella casa del padrone. Dato che bastò una notte per sistemare la cosa, Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò in sua presenza i capi latini e, fingendo di aver ricevuto qualche notizia allarmante, disse loro che il ritardo del giorno prima era stato provvidenziale e aveva salvato loro e lui stesso. Infatti c'era stata una denuncia: Turno voleva eliminare lui e i capi più in vista del popolo latino per impadronirsi del potere assoluto. L'attentato avrebbe dovuto essere messo in pratica il giorno precedente durante l'assemblea, ma poi era stato rimandato per l'assenza del bersaglio principale, cioè l'ideatore del raduno. Di lì la violenta invettiva di Turno contro l'assente, il cui ritardo ne aveva deluso le speranze. Tarquinio aggiunse di esser sicuro che, se l'informazione ricevuta corrispondeva a verità, Turno, quando alle prime luci dell'alba essi si fossero radunati per l'assemblea, si sarebbe presentato con una banda di cospiratori armati fino ai denti. Gli avevano anche riferito, aggiunse, che a casa di Turno era stata trasportata una grande quantità di spade. E la fondatezza di quell'informazione si poteva verificare subito: bastava andassero con lui a casa di Turno. L'accusa sembrava veramente plausibile: vuoi l'aggressività di Turno nell'invettiva del giorno prima, vuoi il ritardo di Tarquinio che dava veramente l'impressione di aver fatto saltare l'attentato. Sta di fatto che si avviano disposti a credere alla storia, ma nel contempo pronti a considerarla tutta una montatura nel caso non ci fosse stata traccia delle spade. Arrivati a destinazione, svegliano di soprassalto Turno e lo fanno guardare a vista. Quando poi, immobilizzati gli schiavi che si preparavano a fare resistenza per attaccamento al padrone, cominciarono a tirar fuori spade su spade da ogni angolo della casa, non ci fu più nessun dubbio: Turno fu incatenato e nel gran trambusto venne subito convocata un'assemblea di tutti i Latini. Lì le spade piazzate nel bel mezzo suscitarono un tale risentimento che Turno, senza nemmeno poter perorare la propria causa, fu sottoposto a un supplizio senza precedenti: lo fecero annegare immergendolo nella sorgente Ferentina con sopra la testa un graticcio coperto di sassi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 51.)

«52 Tarquinio quindi riconvocò i Latini in assemblea e si complimentò con loro per la fermezza con cui avevano inflitto a Turno, autore di un progettato colpo di stato, la giusta pena per il suo evidente reato. Poi affermò di potersi basare su un diritto molto antico per sostenere che tutti i Latini, essendo originari di Alba, rientravano nelle clausole di quel trattato dei tempi di Tullo col quale l'intera nazione albana e le sue colonie erano state annesse a Roma. Rinnovare quel trattato sarebbe stato un grosso vantaggio: più che altro - questo il suo pensiero - i Latini avrebbero partecipato dei successi del popolo romano, senza dover sempre rischiare o subire distruzioni e devastazioni di campagne com'era successo durante il regno di Anco e durante quello di suo padre Tarquinio Prisco. Non fu difficile persuadere i Latini anche se il trattato favoriva nettamente Roma. Inoltre, non solo i capi latini erano dalla parte del re e ne condividevano i punti di vista, ma proprio poco prima Turno aveva fornito loro una dimostrazione di cosa poteva toccare a chiunque avesse avuto in mente di opporsi. Il trattato venne così rinnovato e una delle clausole prevedeva che i giovani latini si presentassero il tal giorno armati di tutto punto nel bosco di Ferentina. Seguendo le disposizioni del re di Roma, essi si concentrarono dai diversi paesi di provenienza. Tarquinio, allora, per evitare che ogni gruppo avesse un proprio capo, un comando separato e insegne diverse dagli altri, creò manipoli misti di Latini e Romani con questo criterio: ne organizzò uno sommandone due e due dividendone uno. A capo dei manipoli così sdoppiati nominò dei centurioni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 52.)

«53 Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione in tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e tolse loro con la forza Suessa Pomezia. Ne vendette il bottino e coi quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un tempio di Giove le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli dèi e degli uomini, nonché della potenza romana e della sua stessa posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu messo da parte per la costruzione del tempio. In seguito si impegnò in una guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi. Infatti tentò prima una fallimentare soluzione di forza; poi, respinto anche da sotto le mura dopo averne cercato l'assedio, alla fine ricorse a un espediente poco in sintonia con lo spirito romano, cioè l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre dava a vedere di aver perso interesse nella guerra per concentrarsi sulla fondazione del tempio e su altre opere di natura urbanistica, Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò a Gabi lamentandosi del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal padre. Là raccontò che quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva adesso iniziato a tormentare i figli, che a sua detta erano fastidiosamente numerosi, e a cercare di riprodurre in casa il deserto che aveva fatto in senato, in modo tale da non lasciare né discendenti né un qualche erede al trono. Quanto a lui, sfuggito alle spade e ai pugnali del padre, era convinto che in nessun posto sarebbe stato così al sicuro come presso i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la guerra che sembrava esser stata abbandonata, avevano poco da illudersi: era tutta una finta e, da un momento all'altro, lui li avrebbe attaccati quando meno se lo aspettavano. Se poi presso di loro non c'era posto per un supplice, allora avrebbe attraversato tutto il Lazio e quindi si sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e agli Ernici, finché non avesse trovato gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e dalle crudeltà inflittegli dal padre. Può darsi anche che avrebbe trovato gli stimoli per andare a combattere il più tirannico dei re e il più insolente dei popoli. Poiché era chiaro che, se avessero titubato, il giovane, infuriato com'era, se ne sarebbe andato, i Gabini gli diedero il benvenuto. Gli dissero di non meravigliarsi se il padre si era comportato coi figli nello stesso modo che coi sudditi e con gli alleati: avrebbe finito col rivolgere la propria crudeltà contro se stesso, una volta esaurito ogni bersaglio. Da parte loro, erano comunque contenti della sua venuta e confidavano, anche col suo aiuto, di spostare in breve tempo il teatro delle operazioni di guerra dalle porte di Gabi alle mura di Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 53.)

«54 In seguito Sesto fu ammesso alle riunioni di governo, durante le quali, sul resto delle questioni, si professava dello stesso avviso degli anziani di Gabi per la loro maggiore esperienza. Da parte sua, invece, non faceva che parlare di guerra e sosteneva di esserne un grande esperto in quanto conosceva le forze dei due popoli e sapeva che Tarquinio aveva raggiunto un punto tale di arroganza che non solo i cittadini ma i figli stessi non riuscivano più a tollerarlo. Così, con questa tecnica, riuscì piano piano a convincere i capi di Gabi a riaprire le ostilità. Avrebbe guidato lui in persona delle azioni di guerriglia con un gruppo di giovani particolarmente coraggiosi. Calcolando perfettamente ogni cosa che faceva e diceva, riuscì a incrementare a tal punto la malriposta fiducia nella sua persona, che alla fine gli affidarono il comando in capo delle operazioni. Siccome il popolo ignorava quel che stava realmente succedendo e le prime scaramucce tra Romani e Gabini vedevano quasi sempre prevalere questi ultimi, allora tutti, senza distinzioni di classe, cominciarono a credere che Sesto Tarquinio fosse l'uomo mandato dal cielo per guidare le loro truppe. E i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella spartizione del bottino, gli si affezionarono a tal punto che non era meno potente lui a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo fosse a Roma. E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi gli dèi gli avevano concesso di esser padrone incontrastato della situazione politica. Al messaggero - suppongo per la scarsa fiducia che ispirava - non venne affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l'inviato del figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in silenzio, pare che il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di bacchetta. Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere risposte, ritornò a Gabi convinto di non aver compiuto la missione. Lì riferì ciò che aveva detto e ciò che aveva visto: il re, fosse per ira, per insolenza o per naturale disposizione all'arroganza, non aveva aperto bocca. Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della città, accusandone alcuni davanti al popolo, e con altri facendo leva sull'impopolarità che si erano acquistati da soli. Per molti ci fu l'esecuzione sotto gli occhi di tutti. Certi invece, più difficili da mettere sotto accusa, vennero assassinati di nascosto. Altri ebbero il permesso di lasciare il paese o vennero esiliati. Le proprietà di tutti, morti o esiliati, subirono la stessa sorte: vennero confiscate e quindi distribuite in una corsa sfrenata all'accaparramento. Badando quindi solo all'interesse particolare, la gente perse il senso del disastro in cui la città era franata. Finché un bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse, Gabi si consegnò nelle mani del re di Roma senza opporre resistenza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 54.)


Con l'ultimo dei Tarquini, Veio aveva visto ritornare la tranquillità. Tarquinio il Superbo si era dedicato a rafforzare la supremazia di Roma sull'etnia latina, spostando la direttrice degli attacchi romani da nord a est, verso Gabi e poi contro Ardea, capitale dei Rutuli. La sua cacciata non ci permette di appurare quali fossero i suoi intenti politico-militari nei confronti di Veio, però i prodromi erano evidentemente rivolti a imporre la supremazia romana sulle popolazioni non-etrusche in generale e latine in particolare.

Prosegue Tito Livio: «55 Dopo essersi impadronito di Gabi, Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana. Il primo era il tempio di Giove sul monte Tarpeio: sarebbe stato un monumento immortale al suo regno e al suo nome, e avrebbe ricordato che dei due Tarquini - entrambi re -, prima il padre aveva fatto il voto di costruirlo e poi il figlio lo aveva portato a compimento. E perché la zona venisse liberata da ogni precedente traccia di culto e dedicata esclusivamente a Giove e al suo tempio, ordinò di sconsacrare quelle cappelle e quei santuari che erano stati in un primo tempo dedicati agli dèi da Tazio nei momenti decisivi della battaglia contro Romolo e che in seguito erano stati consacrati e inaugurati. Proprio all'inizio dei lavori, tradizione vuole che gli dèi inviassero un segno per indicare la grandezza di quel potente regno. Infatti, mentre gli uccelli diedero il via libera alla sconsacrazione di tutti gli altri santuari, la stessa cosa non successe per quello di Termine. Il presagio augurale fu interpretato in questo modo: visto che il tempio di Termine rimaneva al suo posto ed era l'unica tra tutte le divinità a non essere allontanata dallo spazio a essa consacrato, ciò significava stabilità e solidità per lo Stato. Una volta ricevuto questo presagio di durata, ne seguì un altro che annunciava la grandezza dell'impero. Pare che durante gli scavi delle fondamenta del tempio venisse portata alla luce una testa di uomo con i lineamenti della faccia intatti. Il ritrovamento parlava chiaro: quel punto sarebbe diventato la cittadella dell'impero e la capitale del mondo. Questa fu l'interpretazione degli indovini, sia dei locali, sia di quelli fatti arrivare dall'Etruria per pronunciarsi sulla cosa. 

Nella mente del re c'era ormai spazio solo per le spese pubbliche: così, il ricavato del bottino di Pomezia, destinato a coprire la costruzione dell'intero edificio, bastò appena a pagare le fondamenta. Questo perché la mia fonte è nel caso presente Fabio, che è più antico, e secondo il quale il bottino fu soltanto di quaranta talenti, e non Pisone che invece parla di quarantamila libbre di pesante argento stanziate per l'opera. Una simile somma non è pensabile la si potesse all'epoca ricavare dal bottino di una sola città e non esiste edificio, neppure oggi come oggi, le cui fondamenta arrivino a costare così care.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 55.)

«56 Nel desiderio di portare a termine la costruzione del tempio, Tarquinio, dopo aver fatto venire operai da tutta l'Etruria, attinse non solo ai fondi di Stato stanziati per questo progetto, ma ricorse anche alla mano d'opera della plebe. Non era certo un lavoro da poco e in più c'era il servizio militare. Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli dèi con le proprie mani che essere impiegati, come poi in seguito successe, in lavori meno spettacolari ma molto più sfibranti (come la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni nostri ha ben poco da contrapporre). Dopo aver impegnato la plebe in queste grandi costruzioni, Tarquinio, pensando che una popolazione numerosa se disoccupata sarebbe stata per Roma un peso morto, e volendo nel contempo ampliare i confini del suo regno con la deduzione di colonie, inviò coloni a Signa e Circei per farne un giorno dei bastioni di Roma sulla terra e sul mare. Nel bel mezzo di queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo: da una colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso terrore ma di ansia e preoccupazione. Per i prodigi di carattere pubblico Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi. Ma in questo caso, spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa, stabilì che fosse interrogato l'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo. Non osando però affidarne a nessun altro il responso, mandò due dei suoi figli in Grecia attraverso terre a quel tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti. Tito e Arrunte partirono. 

Lucio Giunio Bruto.
Al loro seguito si imbarcò anche Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia, sorella del re, giovane dal carattere completamente diverso da quello che dava a vedere. Quando era venuto a sapere che i personaggi più in vista della città, e tra questi suo fratello, erano stati eliminati dallo zio, aveva deciso di rinunciare a ogni atteggiamento e a ogni successo economico che avrebbero potuto innervosire il re o suscitarne l'invidia, e si era risolto a cercare la sicurezza nel disprezzo, visto che la giustizia offriva ormai ben poca protezione. Così, facendo apposta l'imbecille e lasciando che il re disponesse liberamente della sua persona e delle sue sostanze, non aveva rifiutato nemmeno il soprannome di Bruto (in latino = sciocco, N.d.R.), per mascherare il grande coraggio che, una volta scoccata l'ora fatale, lo avrebbe spinto a liberare il popolo romano. Era lui che i Tarquini si portavano a Delfi, più come una spassosa macchietta che come un compagno di viaggio: pare che il suo dono ad Apollo consistesse in un bastone d'oro racchiuso in un altro di corno che era stato scavato proprio con quell'intento, a rappresentazione simbolica del suo carattere. Una volta arrivati a Delfi e compiuta la missione per conto del padre, i giovani furono presi dal desiderio insopprimibile di sapere a chi di loro sarebbe toccato il regno di Roma. Pare che dal profondo dell'antro si sentì una voce pronunciare le seguenti parole: “A Roma regnerà, o giovani, il primo di voi che darà un bacio a sua madre.” I Tarquini, per far sì che Sesto, rimasto a Roma, non venisse a sapere del responso e restasse così tagliato fuori dal potere, impongono il segreto più assoluto sull'episodio. Di comune accordo lasciano che la sorte decida chi, una volta a Roma, bacerà per primo la madre. Bruto pensò invece che il responso della Pizia avesse un altro significato: per questo, facendo finta di scivolare, cadde a terra e vi appoggiò le labbra, considerando la terra madre comune di tutti i mortali. Quindi rientrarono a Roma, dove fervevano i preparativi per una guerra contro i Rutuli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 56.)

«57 Ardea apparteneva ai Rutuli, popolo che in quella regione e in quell'epoca spiccava per le sue ricchezze. La vera causa della guerra fu questa: il re di Roma, dopo essersi svenato con la sontuosità dei suoi progetti urbanistici, contava di riassestare il proprio bilancio e, nel contempo, facendo del bottino sperava di placare gli animi della gente, esacerbati non soltanto dalla sua ferocia, ma incapaci di perdonargli di essere stati così a lungo impegnati in lavori faticosi e servili. Si tentò di prendere Ardea al primo assalto. Visto il fallimento del tentativo, i Romani scelsero la via dell'assedio e scavarono una trincea intorno alla città nemica. In questa guerra di posizione, come sempre accade quando si tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano all'ordine del giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la truppa. I figli del re, tanto per fare un esempio, ammazzavano il tempo spassandosela in festini e bevute. Un giorno, mentre stavano gozzovigliando nella tenda di Sesto Tarquinio e c'era anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio (figlio di Tarquinio Arunte, detto Egerio poiché povero, che a sua volta era figlio di Arunte, fratello di Tarquinio Prisco, N.d.R.), il discorso cadde per caso sulle mogli e ciascuno prese a dire mirabilia della propria. La discussione si animò e Collatino affermò che era inutile starne a parlare perché di lì a poche ore si sarebbero resi conto che nessuna poteva tener testa alla sua Lucrezia. “Giovani e forti come siamo, perché non saltiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona la condotta delle nostre spose? La prova più sicura sarà cioè che ciascuno di noi vedrà all'arrivo inaspettato del marito”. Infiammati dal vino, urlarono tutti: “D'accordo, andiamo!” Un colpo di speroni al cavallo e volano a Roma. Arrivarono alle prime luci della sera e di lì proseguirono alla volta di Collazia, dove trovarono Lucrezia in uno stato completamente diverso da quello delle nuore del re (sorprese a ingannare l'attesa nel pieno di un festino e in compagnia di coetanei): nonostante fosse notte fonda, Lucrezia invece era seduta nel centro dell'atrio e stava trafficando intorno alle sue lane insieme alle serve anche loro indaffarate. Si aggiudicò così la gara delle mogli. All'arrivo di Collatino e dei Tarquini, li accoglie con estrema gentilezza e il marito vincitore invita a cena i giovani principi. Fu allora che Sesto Tarquinio, provocato non solo dalla bellezza ma dalla provata castità di Lucrezia, fu preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Poi, dopo una notte passata a godersi le gioie della giovinezza, rientrarono alla base.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 57.)

«58 Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collazia con un solo compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente dei suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare nella camera degli ospiti. Invasato dalla passione, quando capì che c'era via libera e tutti erano nel primo sonno, sguainata la spada andò nella stanza di Lucrezia che stava dormendo: la immobilizzò con la mano puntata sul petto e disse: “Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta!” La povera donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un passo dalla morte. Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di donna. Ma vedendo che Lucrezia era irremovibile e non cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte, allora aggiunse il disonore all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso dell'adulterio. Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio sull'ostinata castità di Lucrezia. Quindi, fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia, affranta dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa spaventosa. Arrivarono così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto (questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia). 

Eduardo Rosales Gallinas - "La morte di Lucrezia"
(1871). Da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Edu
ardo_Rosales_Gallinas_-_La_muerte_de_
Lucrecia.jpg
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La trovano seduta nella sua stanza e immersa in una profonda tristezza. Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: “Tutto bene?” Lei gli risponde: “Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l'adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui.” Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: “Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!” Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 58.)

«59 Bruto, mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse: “Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi, che di qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma.” Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio, tutti sbalorditi dall'incredibile evento e incapaci di stabilire da dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com'era stato loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non esitano a seguirlo come loro capo. Quindi trascinano fuori di casa il cadavere di Lucrezia e lo adagiano in pieno foro dove piano piano si accalca la gente, attratta, come di consueto, dalla stranezza della cosa e in più dalla sua nefandezza. Tutti si scagliano indignati contro la violenza criminale del principe. La loro commozione nasceva dalla tristezza del padre ma anche da Bruto che li invitava a smetterla con tutti quei pianti e li esortava a esser degni del proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi aveva osato trattarli come nemici. I giovani più coraggiosi si armano e si offrono volontari, seguiti subito da tutto il resto della gioventù. Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a guardia di Collazia e piazzate delle sentinelle per evitare che qualcuno andasse a riferire dell'insurrezione alla famiglia reale, il resto delle truppe fa rotta su Roma agli ordini di Bruto. Una volta lì, questa moltitudine armata semina dovunque il panico e lo sconcerto al suo passaggio. Ancora una volta, però, vedendo che alla testa c'erano i personaggi più in vista della città, l'opinione generale fu che, qualunque cosa stessero facendo, non poteva trattarsi di un'iniziativa sconsiderata. L'atroce episodio suscita a Roma non meno commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da ogni parte della città la gente si riversa nel foro. Una volta là, un messo convocò il popolo di fronte al tribuno dei Celeri, magistratura tenuta casualmente in quel periodo proprio da Bruto. Egli allora pronunciò un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere e gli atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere. 

William-Adolphe Bouguereau - 
"Il rimorso di Oreste" (1832), che
raffigura Oreste perseguitato dalle
Erinni, che nella mitologia Greca
personificavano la vendetta mentre
in quella Romana erano le Furie,
soprattutto nei confronti di chi
colpisce i propri parenti o i
 membri del proprio clan.
Parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro infamante subito da Lucrezia, del suo commovente suicidio e del lutto solitario di Tricipitino che era più affranto e indignato per la causa che non per la morte stessa della figlia. Ricordò loro anche l'arroganza tirannica del re e lo stato miserando della plebe, costretta a schiantare di fatica a forza di scavi e di fogne da ripulire. A questo proposito aggiunse che i Romani, capaci di sottomettere ogni altro popolo dei dintorni, erano stati trasformati in manovali e tagliapietre da guerrieri che erano. 
Dopo aver citato l'indegna fine di Servio Tullio e l'episodio orrendo della figlia che ne calpestava il cadavere col cocchio, invocò gli dèi vendicatori dei crimini contro i genitori. Con questi argomenti e, credo, con altri ancora più atroci dettati dall'immediatezza dello sdegno, ma quasi mai facilmente ricostruibili da parte degli storici, infiammò il popolo e lo trascinò ad abbattere l'autorità del re e a esiliare Lucio Tarquinio con tanto di moglie e figli. Poi Bruto in persona arruolò i giovani che si offrivano volontari e, dopo averli dotati di armi, partì alla volta di Ardea per sollevare contro il re l'esercito lì accampato. Lasciò il comando di Roma a Lucrezio, che poco tempo prima era già stato nominato prefetto della città dal re. Nel pieno di questo trambusto, Tullia scappò dal palazzo e, dovunque passava, la gente la subissò di maledizioni e di invocazioni alle furie vendicatrici dei crimini contro i genitori.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 59.)

«60 Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò all'accampamento, il re, allarmato dal pericolo inatteso, partì alla volta di Roma per reprimere l'insurrezione. Bruto, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro fece una manovra di diversione. Anche se per strade diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono quasi nello stesso momento ad Ardea e a Roma. A Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e comunicata la notizia dell'esilio. Il liberatore di Roma fu invece accolto con entusiasmo dagli uomini nell'accampamento, i quali poi ne espulsero i figli del re. Due di essi seguirono il padre nell'esilio a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi, come se fosse stato un suo dominio, ma là fu assassinato da quanti ne vendicarono le stragi e le razzie di un tempo. Lucio Tarquinio Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro anni. In seguito, attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio, i comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 60.)


Il logo della Repubblica di Roma,
Senatus Popolus Quirites
Romani.

Lucio Giunio Bruto, per quanto figlio della sorella di Lucio Tarquinio il Superbo, non ne portava traccia nel nome, mentre Lucio Tarquinio Collatino nel nome e prenome aveva indicata la stirpe di appartenenza, per cui gli fu chiesto di non ricoprire cariche pubbliche: «...i Tarquini erano troppo abituati a essere re. Il primo fu Tarquinio Prisco, poi lo scettro toccò a Servio Tullio e nemmeno questo intervallo fece dimenticare il trono a Tarquinio il Superbo; infatti se lo riprese con la violenza degna di un criminale, considerandolo un'eredità di famiglia e non la prerogativa di un altro. Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, il potere era adesso nelle mani di Collatino. I Tarquini non erano in grado di vivere da privati cittadini. Alla gente non andava a genio il nome: era un pericolo per la libertà. Si cominciò così, mettendo in giro questi argomenti per tastare lo stato d'animo del popolo. Quando poi il sospetto inizia a creare inquietudine in più parti, Bruto convoca un'assemblea generale. Lì, prima di tutto, legge ad alta voce ciò che il popolo aveva giurato, e cioè di impedire che in futuro qualcuno potesse diventare re di Roma o rappresentare una minaccia alla libertà. Era quindi un dovere morale attenersi rigorosamente a quel giuramento e non trascurare nessun dettaglio che lo potesse in qualche modo riguardare. Gli dispiaceva alludere a qualcuno di preciso e avrebbe evitato di parlare se non fosse stato per il suo attaccamento alla patria. Non era convinto che il popolo romano avesse riconquistato in pieno la libertà: la famiglia reale e il suo nome non erano soltanto in città ma addirittura al governo, e ciò rappresentava un ostacolo insormontabile per la libertà. “Sta a te,” disse, “o Lucio Tarquinio, prendere l'iniziativa e dissipare questa paura. Certo, non bisogna dimenticarselo che hai cacciato i re. Vai fino in fondo col tuo nobile gesto e porta via da Roma il loro nome. Sulle tue proprietà non metterà le mani nessuno, ti do la mia parola. Anzi, se non sono adeguate, subiranno dei ritocchi munifici. Vattene da amico. Libera la gente da questa paura, può darsi del tutto infondata, ma nell'animo di tutti vi è questo convincimento: soltanto quando il nome dei Tarquini scomparirà da Roma, la monarchia sarà solo più un ricordo.” Sulle prime il console rimase senza parole di fronte a una cosa così sbalorditiva e imprevedibile. Poi, quando stava per replicare, viene circondato dai personaggi più influenti della città i quali gli rivolgono la stessa richiesta, anche se con scarso successo emotivo. Spurio Lucrezio, invece, univa il prestigio dell'anzianità alla sua posizione di suocero: perciò, quando cominciò, passando dalla supplica alla persuasione, a convincerlo di piegarsi alla volontà unanime del popolo, Collatino, temendo che allo scadere del mandato consolare si sarebbe ritirato a vita privata senza più nulla in mano e con magari l'aggiunta di qualche altra ignominiosa aggravante, rinunciò alla sua carica e abbandonò Roma dopo aver trasferito a Lavinio tutti i suoi beni. Su delibera del senato, Bruto propose al popolo un decreto che sancisse l'esilio per tutti i membri della famiglia dei Tarquini. Con l'approvazione dei comizi centuriati nominò suo collega Publio Valerio, che era stato un valido aiuto nella cacciata dei re.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 2.)

Consoli Romani.
Nel 509 a.C., quando  a Roma viene cacciato l'etrusco Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, viene proclamata la Repubblica che adotta come epigrafe S.P.Q.R. e mentre generalmente si dice che intesse Senatus PopolusQue Romanus, secondo me invece non si intendeva altro che anteporre il  Senatus a "Populus Romanus Quirites", come erano firmate molte delle emanazioni degli ordinamenti nell'epoca monarchica, dove si intendeva per Populus il potenziale militare (nel latino arcaico il verbo "populare" significava "devastare") e per Quirites, l'insieme del corpo civico, le individualità componenti la massa dei cittadini Romani, che esprimevano la loro cittadinanza nelle assemblee (i comizi) a cui partecipavano. 

Tarquinio il Superbo, non dandosi per vinto, tentò con l’aiuto del re o lucumone di Clusium (Chiusi), il lars Porsenna (l'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante), di riprendersi il trono, ma senza successo. Aizzò anche i latini contro i romani, che sconfissero la lega latina nel 496 a.C. presso il lago Regillo e Roma divenne quindi l'indiscussa città dominatrice dei popoli latini; per contro la civitas latina divenne seconda solo a quella romana nei secoli a venire. 

Nel 495 a.C. a Cuma si spense Tarquinio il Superbo, dove si trovava in esilio. La notizia fu accolta con giubilo a Roma: sconfitti i latini, piegati al rango di socii per sempre e morto l’ultimo re, la res publica cominciava a prendere forma. I romani in generale, ma le loro alte sfere in particolare, resteranno sempre terrorizzati dall’idea che qualcun altro si facesse re. Fu proprio questa la causa per cui Bruto e Cassio assassinarono Cesare: oltre ai poteri speciali e la dittatura a vita offertagli dal senato, un mese prima delle idi del 44 a.C., Marco Antonio gli aveva offerto una corona durante la festa dei Lupercali, che Cesare aveva sdegnosamente rifiutando (offrendo la corona a Giove Ottimo Massimo, per lui unico re di Roma), ma che da molti senatori era stato interpretato come un segnale che il dittatore si apprestava, non pago dei suoi poteri, a farsi proclamare rex. Non a caso Ottaviano abolirà la dittatura e prenderà il potere in modo molto più subdolo: facendosi attribuire una serie di poteri che messi insieme gli davano il comando supremo, e usando due termini, imperator e  princeps, che per i romani erano decisamente più tollerabili: già Scipione l’Africano era stato acclamato imperator dai suoi soldati durante la seconda guerra punica.

Al di là della storia, vera o leggendaria, della cacciata di Tarquinio il Superbo, sul finire del V secolo a.C., nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco dall'area dell'antico Latium vetus e un primato romano sui popoli Latini, a Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, gli aristocratici (patrizi) del Senato ottengono il potere di gestire tutte le magistrature: un potere quindi assoluto

Non è da escludere che il Senato avesse complottato per cacciare gli ultimi re etruschi  e prendere  direttamente il potere, come già aveva fatto presagire l'ipotesi che Romolo fosse stato fatto a pezzi dai senatori e l'interregno durato un anno prima dell'elezione di Numa, visto che il popolo pretendeva un re. 

Le conseguenze di questa unilateralità del potere si rivelano immediatamente dalla lettura della narrazione tradizionale sulla Res Publica romana, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, in cui si narra che i patrizi, che nel Senato possedevano il loro organo di governo, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo e abbandonando definitivamente la monarchia nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la classe sociale) il governo della città, nominando ogni anno due consoli che  condividessero il potere esecutivo. La plebe rimaneva quindi "classe inferiore", componente solo della massa cittadina, rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature, l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. I patrizi inoltre, finirono per abusare della loro posizione dominante,  utilizzando ad esempio l'istituto del nexum, per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ceto nelle cause contro i plebei e annullando le decisioni dei comizi centuriati. 


Sentenzia Tito Livio: «21 I tre anni successivi (498, 497 e 496 a.C., N.d.R.) non furono caratterizzati né dalla stabilità della pace né dalla guerra. Prima furono consoli Quinto Clelio e Tito Larcio, poi Aulo Sempronio e Marco Minucio. Durante il consolato di questi ultimi venne consacrato il tempio di Saturno e istituita la festività dei Saturnali. I consoli successivi furono Aulo Postumio e Tito Verginio. Vedo che alcuni autori collocano la battaglia del lago Regillo solo in questa data e sostengono che Aulo Postumio, diffidando apertamente del proprio collega, avrebbe rinunciato alla carica e sarebbe quindi stato eletto dittatore. Visto che ogni storico adotta un criterio arbitrario in materia di cronologie e di liste di magistrati, ne consegue che è quasi impossibile riferire con esattezza la successione dei consoli e le date degli eventi, quando non solo i fatti ma anche gli autori stessi sono avvolti nelle nebbie del passato. I consoli successivi (495 a.C., N.d.R.) furono Appio Claudio e Publio Servilio. Fu un anno memorabile per l'annuncio della morte di Tarquinio. Questi si spense a Cuma, alla corte del tiranno Aristodemo che lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze latine. La notizia entusiasmò tanto il senato quanto la plebe. I senatori, però, esagerarono nelle loro manifestazioni di giubilo e la plebe, fino a quel giorno fatta oggetto di ogni premurosa attenzione, cominciò a subire il potere soffocante del patriziato. Quello stesso anno, la colonia di Signa, voluta da Tarquinio, venne rifondata con l'invio di un nuovo contingente di coloni. A Roma il numero delle tribù fu portato a ventuno e il quindici di maggio fu consacrato il tempio di Mercurio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 21.)

Tutto ciò provocherà scontri e rivendicazioni che sfoceranno nel "conflitto degli Ordini" e mineranno le fondamenta della Repubblica, che cinque secoli più tardi sarà dilaniata nella lotta fra Optimati e Populares: le guerre Civili.

Cartina della Roma Repubblicana.


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