"Seagreen", la rivista
pubblicata da Andromeda.
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“Fuggiamo dai dogmi, dagli atti di fede, dai miti, comunque mascherati, del Paradiso, per rivolgerci altrove.
Vogliamo permetterci di essere irragionevoli.
La provocazione come scelta. Ma ostinata e razionale.
Contro la quiete che produce deserto ritrovare quel rapporto dinamico e continuo tra amore e ragione che offre intensità drammatica all'esistenza.
Interrogare la propria immaginazione sulla comparsa dell'uomo, sulle origini del sentimento religioso, del mito, della famiglia, della giustizia.
Per liberare arte, scienza, politica dalla metafisica.
Una speranza / voglia che ha il colore del mare: seagreen...”
Giorgio Gattei - Massimo Roccati
UN ANNO COMBATTUTO PERICOLOSAMENTE
Riflessioni geopolitiche ed economiche sul 1992
"La Germania, con l'unificazione, sta combattendo la sua terza guerra mondiale.
Se la vince avrà un potenziale economico enorme." (Siro Lombardini)
"[In Jugoslavia ] l'Europa assiste inerte allo svolgersi di una terza guerra mondiale,
mascherata e fomentata dalla Germania". (Dobrica Cosic)
1. La "Terra del cuore" e il suo teorema.
Il termine "Heartland" viene coniato all'inizio del secolo dall'inglese Halford Mackinder a partire dall'analisi geopolitica del nostro pianeta, da cui si evidenzia l'unità della massa terrestre comprendente i continenti europeo, asiatico ed africano. Oltre ad essere la più popolata, e quindi anche la più vasta, tale zona risulta essere separata geofisicamente da tutte le altre terre emerse, e deve essere perciò considerata l'"Isola del mondo". A formarne il "Cuore", o Heartland, sono però soltanto "la parte settentrionale e l'interno dell'Eurasia... dalla costa Artica ai deserti centrali" fino al limite occidentale del "vasto istmo fra il Baltico ed il Mar Nero".
Il mondo ripartito fra Heartland e
Rimlands
secondo Halford Mackinder.
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Nel 1943 Mackinder giunge comunque ad una definizione più specifica della "Terra del cuore", che viene a coincidere sostanzialmente con l'Unione Sovietica, ad esclusione dei territori ad est del fiume Lena (non facilmente percorribili, e vulnerabili essendo aperti all'oceano) e della Cina delle pianure costiere. L'Heartland risulta così fisicamente protetto a nord dal Mare Artico, ad est dalla inospitale "Terra di Lena" e a sud dalle catene montuose dall'Hindu Kush all'Himalaya, mentre l'unica via d'ingresso è costituita dall'Europa, che strategicamente diventa così importantissima. Sinonimo di presenza di vaste popolazioni, di elevate risorse economiche ed industriali e di grandi possibilità di manovra per linee interne, l'Heartland assume perciò, nell'ottica geopolitica, i caratteri di una fortezza naturale inespugnabile, cinta da due aree marginali: il "perimetro marginale interno" ed il "perimetro insulare esterno": al primo appartengono, oltre all'Europa, il Nord Africa, il Vicino Oriente, il subcontinente indiano, la Malaysia, le pianure cinesi ed il Giappone; il secondo comprende l'intero continente americano, l'Africa a sud del Sahara e l'Australia.
L'importanza strategica dell'Heartland viene ribadita da Mackinder sul finire dell'ultima guerra mondiale, con questa sola aggiunta: che, nel momento in cui la terra del cuore arrivasse a raggiungere e controllare anche solo una parte del perimetro marginale interno, essa si troverebbe in condizione di poter dominare il mondo intero, avendo finalmente via libera ai mari caldi e quindi al controllo degli oceani. Così, è la sua conclusione "inevitabile","se l'Unione Sovietica emerge da questa guerra come conquistatrice della Germania, essa dovrà essere considerata la più grande potenza terrestre del globo".
Un'idea del genere la ritroviamo anche in un altro studioso di geopolitica, l'americano Alfred Mahan. il cui paradigma d'analisi non è però più limitato al dominio sulla terra ferma, bensì al potere marittimo. Partendo da questa prospettiva opposta, egli giunge comunque alle stesse sostanziali conclusioni di Mackinder, perché anche per lui - pur utilizzando i concetti di "posizione geografica" (sbocchi marittimi) e "conformazione geofisica del territorio" (dislocazione delle basi navali) - una potenza, intenzionata a porsi come egemone, deve appropriarsi del perimetro marginale interno per assicurarsi il controllo del mondo. Solo con l'accesso ai mari caldi, e quindi con basi navali sugli oceani, l'Heartland potrebbe costringere alla resa qualsiasi potenza antagonista, come ad esempio la Gran Bretagna che proprio ai primi del secolo è impegnata a dislocare le sue basi navali in modo da controllare sia il perimetro esterno che quello interno (Gibilterra, Malta, Suez, Aden, Ceylon o Sri Lanka, Singapore e Hong Kong all'interno; le basi canadesi, le Falkland, Città del Capo e Sidney all'esterno). Infatti a contrastare la tendenza egemonica dell'Heartland non è necessario che la potenza avversaria occupi tutto il perimetro interno, essendo sufficiente che essa possegga un discreto numero di basi, disposte in posizioni geografiche strategiche, per controllarne la circonferenza e con essa il mondo. È innegabile che la mobilità strategica e le possibilità d'intervento consentite dalle linee di comunicazione navali, unite alla flessibilità della manovra per linee esterne, assicurano alle potenze marittime una capacità di controllo dei perimetri interno ed esterno superiore a quelle continentali.
Se ora alla Gran Bretagna sostituiamo gli Stati Uniti, entriamo nella considerazione dell'analisi dell'ultimo geopolitico americano, Nicholas Spykman. In linea con Mackinder e Mahan, Spykman sintetizza così quanto detto finora: "Chi controlla le Rimlands [ il perimetro interno di Mackinder ] regna sull' Eurasia; chi regna sull'Eurasia controlla i destini del mondo". E qui sono gli Stati Uniti ad avere buon gioco perché, mentre l'Heartland è separato, per ragioni politiche e topografiche, dagli oceani e dalle Rimlands, l'emisfero occidentale può di fatto controllare queste ultime in virtù del proprio potere marittimo. In conclusione, chi può dominare il mondo, secondo Spykman, non è tanto l'Heartland, quanto l'emisfero occidentale - gli Stati Uniti - in possesso delle stesse potenzialità dell'emisfero orientale, ma con in più il libero sbocco agli oceani.
Da qualsiasi emisfero si parta, comunque, l'analisi geopolitica evidenzia che una potenza intenzionata a porsi come egemone deve garantirsi il controllo delle Rimlands, in quanto solo attraverso di esse può accerchiare l'emisfero avversario e assoggettare il mondo.
2. La lotta per le "Rimlands" o dalle "Rimlands" ?
Considerando fin qui gli sviluppi della geopolitica del nostro secolo, si è volontariamente soprasseduto circa i contenuti della scuola germanica, e non solo perché, con la caduta del nazismo e con il conseguente disarmo tedesco, tale filone di pensiero, per la pesante eredità che portava sulle spalle, si è estinto; ma anche perché, se ben considerato, il problema tedesco costituisce un ribaltamento della prospettiva, già analizzata, di Mackinder.
Ci sarebbe da discutere sulla "normale" direzionalità del processo di avvicinamento - ma c'è chi preferisce parlare di "incorporazione" - dell'Heartland alle Rimlands. Con Spykman abbiamo infatti esposto la situazione tipica della contrapposizione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica nell'ambito della "guerra fredda", il cui quadro di riferimento rispecchia perfettamente le definizioni geopolitiche proposte da Mackinder. La "Terra del cuore", occupata dall'Unione Sovietica a partire dalla penisola del Kamčatka e spinta fino ai paesi satelliti dell'Europa orientale, ha esercitato la propria pressione sulla linea perimetrale interna con il chiaro proposito di scardinare il blocco di accerchiamento predisposto dalle basi statunitensi tra il 1949 ed il 1955 (si pensi ai conflitti militari esplosi in Corea, Vietnam e Afghanistan, oltre alle iniziative politiche esercitate in Europa occidentale e nel Medio Oriente). Ma come previsto da Spykman, la potenza - gli Stati Uniti - che ha controllato le Rimlands, e cioè gli sbocchi ai mari caldi e agli oceani, è stata quella che alla fine ha guadagnato il dominio sul pianeta. Alla pressione espansiva proveniente dall'Heartland sovietico verso le Rimlands, la potenza occidentale ha risposto con un processo di accerchiamento e contenimento il cui risultato finale è stato la caduta definitiva dell'Unione Sovietica.
Ma cosa succederebbe se, invece di procedere dall'Heartland verso le Rimlands, il movimento di espansione invertisse la rotta ed assumesse una direzione contraria? Cosa accadrebbe se, una volta neutralizzata l'Unione Sovietica e di conseguenza aperta la fortezza dell'Heartland alle infiltrazioni dall'Europa occidentale (unica grande porta naturale d'uscita, ma pure d'entrata alla Terra del Cuore), qualche paese posto sulla cornice del perimetro marginale interno (e quindi con la possibilità di sbocchi sui mari caldi e gli oceani) puntasse a sua volta al controllo dell'Heartland?
La linea che prima separava il vecchio continente in occidentale ed orientale e soffocava l'identità dell'Europa centrale - cancellata come zona geopolitica dell'esito del conflitto mondiale - assume a questo punto grande importanza non più come confine tra le due potenze in conflitto, bensì come epicentro di un nuovo aggregato geopolitico ancora eterogeneo, perché composto da territori prima divisi tra Est ed Ovest, ma di portata strategica mondiale.
Se l'abbandono della pressione da parte dei due blocchi, sovietico ed americano, sulle Rimlands sta infatti manifestando ripercussioni un po' dovunque, è, per ora, soprattutto nell'ambito della ricostituzione di un'identità dell'Europa centrale che esso mostra i suoi frutti più evidenti. E la rinascita di tale zona, ad elevatissima valenza strategica, pone non pochi quesiti all'analisi geopolitica: anche se "rimossa" da tutta la dottrina dell'ultimo dopoguerra, la prospettiva di un processo di movimento inverso a quello precedentemente descritto (non più dall'Heartland alle Rimlands, ma dalle Rimlands all'Heartland) ritorna di attualità. E ci ritorna perché già presente nella tradizione geopolitica dell'Europa nell'arco di tempo compreso tra le due grandi rivoluzioni - francese e sovietica - almeno nelle strategie di Napoleone e di Hitler (per rimanere all'esempio più recente basti pensare alle mire espansionistiche naziste verso la Terra del Cuore, da unificare alle coste europee occidentali così da ottenere quelle condizioni geopolitiche che - per dirla con Mackinder, Mahan e Spykman - avrebbero permesso ai tedeschi il dominio sul mondo).
Ebbene, oggi non può passare inosservata la similarità tra i progetti egemonici del Terzo Reich
e quelli attuali della Germania di Kohl. È pur vero che Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Austria, Scandinavia, Jugoslavia, Cecoslovacchia ed Ungheria questa volta non vengono attaccati dalle truppe della Wermacht, ma sono pur sottoposti alla pressione di un marco corazzato da tassi d'interesse insostenibili. L' "Europa a due velocità" o a "cerchi concentrici" - come si scrive - non pare forse una riedizione del vecchio modello geopolitico di matrice germanica? Nel 1941 il maresciallo Pétain si accordò con Hitler per definire la partecipazione della Francia al Nuovo Ordine europeo progettato dal Terzo Reich. Mitterrand nel 1992, all'indomani del referendum francese su Maastricht, accoglie Kohl per sancire un asse franco-tedesco, cuore della nuova dimensione europea. Sono solo coincidenze oppure un ciclo storico geopolitico sta tornando a ripetersi? Non è che la spinta geopolitica tedesca, estinta "manu militari" al termine dell'ultima guerra mondiale, riaffiori, ovviamente con una caratterizzazione molto più complessa, ma con le medesime linee direttrici che passano attraverso la formazione di un'alleanza strategica franco-tedesca per la conquista del "Cuore della Terra" ?
Il "sentimento politico"
europeo nel 1992.
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3. I costi della riunificazione tedesca e come pagarli.
La linea di divisione interna della Rimland europea cade definitivamente (sancendo la rinascita dell'Europa centrale come entità geopolitica) tra il 1° luglio ed il 3 ottobre 1990, quando si raggiunge la riunificazione economica e monetaria delle due Germanie (quella occidentale, fino allora sotto il controllo atlantico; quella orientale, testa di ponte sovietica verso l'Europa).
Tale riunificazione, però, non si dimostra indolore e priva di traumi. La presa di coscienza delle reali difficoltà economiche della Germania orientale, gli ostacoli incontrati dalle imprese intenzionate ad investire nei nuovi Lander, la disparità abissale di prodotto interno lordo (193 miliardi di marchi a fronte dei 2600 della parte occidentale), ed infine la crisi economica presente in tutti i maggiori paesi industrializzati, dagli Stati Uniti al Giappone: tutto ciò raffredda notevolmente l'entusiasmo di quanti sul momento avevano accolto con calore la rifondazione dell'identità nazionale germanica spezzata per quasi mezzo secolo.
La linea politica del governo di Bonn non lascia tuttavia spazio a ripensamenti e si dimostra inequivocabilmente chiara quando, nell'estate del 1990, viene portata a termine l'unione monetaria. Il cambio tra marco orientale e federale risulta stabilito, in chiave politica, ad un livello di parità di 1 a 1 per il contante e di 2 a 1 per i depositi a medio termine a fronte di un reale rapporto tra i valori delle due monete di 10 a 1. A prima vista ciò appare davvero un miracolo per l'economia dell'ex Repubblica Democratica: niente creazione sofferta di un nuovo sistema monetario, niente inflazione irrefrenabile, nessun obbligo di aggiustamento; bensì all'opposto aumento dei salari e delle pensioni, assistenza sanitaria e sussidi di disoccupazione. E, come se non bastasse, l'entrata di diritto nel mercato interno tedesco e quindi nel mercato comune europeo.
Ma il fittizio miracolo economico, effetto subitaneo dell'unificazione, costringe l'inefficiente sistema dell'Est a scontrarsi, da un giorno all'altro, con una delle macchine produttive più avanzate del mondo - quella tedesca -, uscendone distrutto. Di fronte alla sfida dell'economia di mercato, all'ex Repubblica Democratica restano due sole possibilità: o lasciare che sopravvivano le pochissime imprese in grado di sostenere i costi della concorrenza con l'Ovest, e quindi accettare una disoccupazione strutturale avviata ad interessare oltre un quarto della popolazione lavoratrice; oppure contare sulle sovvenzioni statali provenienti dal governo di Bonn. Ma quanto potrebbe costare alla Germania sovvenzionare l'economia del settore orientale? Le stime più attendibili prevedono un impegno finanziario calcolabile intorno ai tre mila miliardi di marchi da spendere nei prossimi dieci anni, a fronte (per lo stesso periodo) di un prodotto interno lordo valutabile in non oltre 40 mila miliardi di marchi. Ora come sostenere una simile spesa che impegnerebbe quasi il 10% del PIL? - si sono chiesti i tedeschi.
Ebbene, quando un sistema economico si trova a dover fronteggiare un impegno d'investimento in quantità superiore all'ammontare del risparmio disponibile, esso non ha che due possibili opzioni per accumulare i capitali sufficienti. La prima si basa sull'assunzione di prestiti finanziari presso istituti bancari. Tale ipotesi esige ovviamente l'abbassamento del costo del denaro, cioè dei tassi d'interesse da pagare ai creditori, e comporta l'aumento della massa monetaria in circolazione, premessa a sua volta dell'innalzamento dei prezzi (inflazione).
Per i tedeschi tuttavia, reduci dagli effetti inflattivi colossali del primo dopoguerra, parlare di inflazione equivale a bestemmiare. Il rifiuto di questa soluzione conduce perciò direttamente alla seconda alternativa, che consiste all'opposto in un aumento dei tassi d'interesse capaci di attrarre il risparmio straniero. Un innalzamento unilaterale del tasso d'interesse, soprattutto se sostenuto e supportato da un'economia forte (in grado di fronteggiare qualsiasi pressione esterna), rende infatti inclinato il piano, prima in equilibrio, di circolazione dei capitali tra i diversi sistemi-paese.
Rifiuto dell'inflazione ed approvvigionamento di capitali "freschi" provenienti dai mercati valutari di mezza Europa mediante una politica di alti tassi d'interesse: non è difficile constatare come un tale disegno finanziario costituisca la piattaforma d'azione ideale e premeditata, per la Banca centrale tedesca, al fine di sostenere l'integrazione economica della Zona orientale. Il progetto in questione tuttavia non può che scontrarsi con l'opposizione dei paesi europei di ispirazione atlantica i quali, attanagliati tra l'altro dalla maggiore recessione economica degli ultimi 50 anni, verrebbero strangolati dalla fuoriuscita dei propri capitali, la cui presenza è invece assolutamente necessaria per una ripresa dei loro investimenti. A ciò favorirebbero anche bassi saggi d'interesse, che sono però resi impossibili dall'innalzamento del costo del denaro attuato in Germania, sicché, pur non volendolo, gli altri stati europei si vedono costretti ad una politica monetaria similare a quella tedesca per evitare una esagerata fuoriuscita dei capitali verso il paese dove i rendimenti sono migliori. Ne segue che dovrebbe essere il resto d'Europa, di fronte alla decisione unilaterale della Germania di "drogare" i tassi d'interesse, a pagare il costo dell'unificazione tedesca o con l'invio dei propri capitali oppure con l'arresto a tempo indeterminato del proprio sviluppo economico.
E gli Stati Uniti? Non stanno affatto bene e vivacchiano nella recessione. La guerra contro l'Iraq ha solamente sancito - per dirla con Henry Kissinger - "il glorioso tramonto della guerra fredda, non la nuova alba di un periodo di dominio americano". Ancora nella riunione dei "G7", tenutasi a Washington tra il 25 ed il 26 aprile 1992, gli Stati Uniti inviteranno gli altri due grandi partners economici, il Giappone e la Germania, ad allineare le rispettive strategie a quella americana a prò della ripresa dello sviluppo internazionale. Ma il gioco a tre si riduce subito alla disputa monetaria tra le banche centrali: se Alan Greenspan, presidente della Federai Reserve, viene immediatamente ad implorare un abbassamento degli alti tassi d'interesse applicati dalla Bundesbank, che garantirebbe la riapertura del mercato europeo ridando così fiato alla macchina industriale statunitense (e a pochi mesi dalle elezioni presidenziali americane uno stimolo alla crescita fornirebbe un valido sostegno alla riconferma di George Bush), la risposta del presidente della Bundesbank, Helmut Schlesinger, è negativa: la Germania ha scelto la via di finanziare il proprio deficit attingendo al risparmio altrui e ciò implica tassi d'interesse alti, a dispetto di qualsiasi protesta esterna.
Risultato? Una grande carica vendicativa che il governo americano, alle prese con i rischi della campagna elettorale, non può ancora permettersi di palesare, ma che nelle opportune sedi politiche e militari ha però già trovato i propri "esternatori".
4. Il "summit" della Nato a Roma.
Lo scenario militare di riferimento internazionale viene definito nel corso del "summit" della Nato tenutosi ai primi di novembre 1991 a Roma. In questo ambito lo scontro si pone subito con particolare durezza. A pochi mesi dal fallito putsch moscovita d'agosto - stabilita incontrovertibilmente la direzione filo-europea del processo di rinnovamento sovietico e quindi la necessità di creare un nuovo ordine per la sicurezza del vecchio continente - i paesi della comunità europea si ritrovano divisi tra loro sul tema della propria difesa.
Da un lato la Germania e la Francia (presente alla riunione anche se non inquadrata nel Patto atlantico), con l'appoggio "esterno" del presidente del consiglio italiano Giulio Andreotti, favorevoli alla strutturazione di un "polo europeo" non vincolato al potere di controllo americano. Dall'altro la "nemica storica" dell'Europa unita, la Gran Bretagna, legata a doppio filo agli Stati Uniti e quindi decisa sostenitrice della continuità della politica europea all'interno della tradizionale organizzazione della Nato. Lo scontro viene messo in luce proprio da George Bush che, richiamando all'ordine gli alleati, ribatte alle spinte franco-tedesche per la definizione di "una nuova identità di difesa europea", ammonendo che qualsiasi nuovo riordino sarebbe accettato solo se "complementare e compatibile alla Nato".
Di fronte all'offensiva americana (e britannica), francesi e tedeschi rifiutano per il momento lo scontro diretto, limitandosi a sostenere - per dirla con François Mitterrand - che la Nato "non è una Santa Alleanza" e che la sede per discutere della difesa europea è quella degli accordi di Maastricht e non del Patto atlantico. Il che equivale però ad una sorta di presa di distanza dall'America.
In questo contesto l'Italia assume una posizione contraddittoria: se il ministro degli esteri Gianni de Michelis si schiera subito con i filo-atlantici, il presidente del consiglio, Giulio Andreotti, continua a mostrarsi una "pedina inaffidabile" per gli Stati Uniti (vista la sua politica da tempo filo-araba e troppo accondiscendente verso Germania e Francia). Ed ecco allora le ultime parole di Bush rivolte - o meglio urlate - allo stesso Andreotti al termine di un incontro bilaterale tenutosi nella cornice del summit: "Se qualcuno di voi ha in testa altre idee, se volete andare per la vostra strada, se ritenete di non aver più bisogno di noi, ditelo apertamente!".
Sembra poi che un più minaccioso avvertimento venga successivamente ripetuto al presidente del consiglio italiano anche da Kissinger in un difficile incontro avvenuto a New York l'11 marzo 1992. Ventiquattr'ore dopo viene ucciso Salvo Lima e la strana coincidenza inquieterà talmente il braccio destro di Andreotti, Vittorio Sbardella, da spingerlo ad accusare direttamente dell'omicidio "gli americani... [che] non vogliono l'Europa" (ma poco dopo Sbardella lascerà cadere l'accusa, e contemporaneamente abbandonerà Andreotti).
5. Il documento "unipolare" del Pentagono.
Simultaneamente la preoccupazione americana diviene apertamente più generale allorquando, sempre all'inizio del marzo 1992, se ne fa portavoce diretto il Pentagono. Gli Stati Uniti non sono disposti a tollerare il benché minimo indebolimento dell'alleanza atlantica, la più adatta a consentire loro il controllo della Rimland europea e la sicura ed efficace penetrazione economica nell'Heartland in disfacimento. Ed ecco l'"International Herald Tribune" pubblicare il 9 marzo un documento militare sul "nuovo ordine mondiale unipolare", preparato dal Pentagono ed opportunamente fatto filtrare alla stampa (salvo poi comunicare che si trattava di un'"esercitazione teorica").
Secondo i militari statunitensi, l'obbiettivo da raggiungere da parte del loro governo è quello di una "benevola dominazione" di un solo stato (ovviamente gli USA), rifiutando categoricamente ogni "internazionalismo collettivo". Basilare diviene quindi impedire - anche a costo di "ricorrere, se necessario, all'uso preventivo della forza" - che stati irresponsabili (come l'Iraq) oppure disgregati (come quelli nati dalla frantumazione dell'Unione Sovietica), ma pure alleati (come Giappone e Germania) possano entrare in possesso di armi nucleari.
Così nel documento si dice che gli Stati Uniti "debbono mantenere in vita i meccanismi [ di deterrenza ] diretti ad impedire a potenziali competitori perfino di aspirare ad un più alto ruolo regionale e globale", ed il riferimento ai "potenziali competitori" non è per niente velato quando si lamentano gli "effetti destabilizzanti che produrrebbero un accresciuto ruolo da parte dei nostri alleati, in particolare il Giappone". Di fronte poi all'alzata di capo della Germania, gli Stati Uniti intendono difendere ad ogni costo i meccanismi già esistenti di controllo della regione, e la Nato è il principale di questi meccanismi per assicurare "sia una sostanziale presenza americana in Europa, sia una continua coesione all'interno dell'alleanza occidentale". Per questo si dovrà "cercare d'impedire l'apparizione di accordi esclusivamente europei nel campo della sicurezza, che metterebbero in pericolo la Nato".
Ma se qualche nazione "ribelle" allargasse effettivamente più del dovuto le proprie aspirazioni, magari con la formazione di un esercito autonomo, oppure con la stipula di accordi economici bilaterali antagonisti agli interessi americani? Di fronte ad eventuali prese di posizione in tal senso da parte di qualunque stato, anche alleato, gli Stati Uniti, afferma sempre il documento del Pentagono, non possono dare adito ad incertezze: essi "per proteggere i propri interessi vitali,... debbono essere pronti ad agire da soli quando un'azione collettiva non può essere orchestrata", perché "l'ordine mondiale ha come fondamento ultimo gli Stati Uniti", ed essi soltanto.
6. La battaglia per l'"Eurocorpo".
La risposta di Francia e Germania al documento unipolare del Pentagono giunge per il mese successivo. Di fronte all'aggressiva presa di posizione americana, il 21 maggio 1992 il presidente francese Mitterrand ed il cancelliere tedesco Kohl si riuniscono a La Rochelle, sulle coste dell'Atlantico, per rilanciare in grande stile il progetto di una difesa comune europea in qualche modo autonoma dal Patto atlantico. Il 22 maggio viene sancita formalmente la nascita di questo "Eurocorpo", un corpo d'armata in comune tra Germania e Francia, composto di 35-40 mila unità, dotato di armamenti all'avanguardia e destinato a diventare operativo nel 1995. Nel progetto franco-tedesco la nuova struttura militare dovrebbe costituire l'embrione ed il nucleo attorno al quale poi aggregare il futuro esercito unificato d'Europa.
La notizia della costituzione di un corpo d'armata bilaterale nel cuore del vecchio continente provoca la reazione immediata degli Stati Uniti, anche se, a dire il vero, l'unione di forze armate franco-tedesche non rappresenta una novità: diversi anni or sono infatti era già stato "lanciato" un primo corpo composto da militari di ambo i paesi, il quale tuttavia, stando alle affermazioni degli stessi componenti, non andò oltre la "scuola di lingue". Inoltre quella vecchia brigata franco-tedesca aveva poco a che vedere con ciò che dovrebbe diventare l'Eurocorpo, trattandosi per lo più di un gruppo di soldati composto da tedeschi e dai francesi presenti sul territorio della Germania. All'epoca ciò poteva essere giustificato dalla guerra fredda, ma una volta caduto il Muro di Berlino, non essendo la Francia membro del dispositivo di difesa della Nato, tale giustificazione viene meno. Rendere in qualche modo "legale" la permanenza della Francia in Germania rappresenta così la prima spinta volta a sancire formalmente un vero e proprio corpo d'armata bi-nazionale dei due paesi, alla quale si aggiunge l'interesse sia dei francesi che dei tedeschi per il controllo del nuovo sistema difensivo europeo che dovrebbe sorgere da un lato dalle ceneri del sistema sovietico e, dall'altro, dalla sopraggiunta superfluità della Nato.
Ora, proprio l'evidente contraddizione tra le tradizionali strutture militari atlantiche e quelle in fieri della difesa autonoma europea dà la voce alle proteste di Washington. "Guardate - dichiara subito il segretario di stato americano James Baker in un colloquio con il ministro degli esteri tedesco Klaus Kinkel, avvenuto il 24 maggio in margine agli incontri tra i ministri degli esteri della CEE - che la vostra iniziativa non ci piace. Ne siamo anzi allarmati, perché compromette l'efficienza e la tenuta della Nato". Ed in effetti, che necessità hanno le due maggiori potenze dell'Europa continentale di instaurare un nuovo organismo di difesa dal momento che esiste già l'Alleanza atlantica e che il pericolo proveniente dall'Unione Sovietica è definitivamente caduto? E comunque, perché non prevedere almeno che la nuova struttura militare venga in qualche maniera inquadrata entro la Nato?
Ma forse la questione più grave è che anche altri paesi europei potrebbero dare appoggio all'esercito franco-tedesco. "La nuova unità - avevano già scritto Kohl e Mitterrand al presidente della CEE, Ruud Lubbers, nel novembre 1991 - potrebbe divenire il nocciolo di una forza europea di difesa, in cui potranno confluire le forze di altri stati membri della UEO. Questa nuova struttura potrebbe ugualmente proporsi come modello precursore di una cooperazione più stretta fra stati membri della UEO". Al momento dell'annuncio congiunto i due paesi fondatori conoscono già la disponibilità ad aderire al progetto di Belgio, Lussemburgo e Spagna. Rimane però da stabilire se altri paesi li seguiranno. Già prima del maggio 1992 la Gran Bretagna (tradizionale testa di ponte atlantica in Europa) e l'Olanda avevano manifestato la loro diffidenza verso un progetto mirante a stabilire uno sdoppiamento del sistema difensivo occidentale; ma davvero la Spagna darebbe il proprio consenso all'Eurocorpo? E l'Italia, una penisola ad elevata valenza strategica, che cosa ne pensa? Mitterrand mostra di contare sulla sua adesione quando, in conclusione del vertice bilaterale di La Rochelle, espone la lista delle nazioni propense all'iniziativa: "Belgio, Lussemburgo, Spagna e Italia sono gli stati che hanno mostrato il maggior interesse". Ma dall'ordine decrescente proposto da Mitterrand è facile dedurre che, se la zona del Benelux offre un'adesione scontata al progetto (peraltro con il "problema" olandese), (N.d.R. l'Olanda riteneva come la NATO restasse la pietra angolare della politica di sicurezza europea. I Paesi Bassi si mostrarono particolarmente riluttanti nel seguire le iniziative dirette all’elaborazione di un’identità europea in materia di difesa, da http://www.dizie.eu/dizionario/filter:p/?print=print-search, N.d.R.) l'ultima posizione è la nostra, mentre di Gran Bretagna e Danimarca non si fa nemmeno menzione (e la Danimarca farà parlare molto di sé di lì a pochi giorni, quando il 2 giugno, in sede referendaria, si opporrà a maggioranza agli accordi di Maastricht, i britannici si configurano ormai come il principale baluardo filo-americano in Europa: disposti a fornire truppe ad una struttura militare europea solo se questa, pur chiamandosi UEO, avrà come obbiettivo la continuità d'interessi e strategie con la Nato).
Determinante a questo punto si rivela la presa di posizione dell'Italia, sia per la sua attuale instabilità politica che per la crisi istituzionale successiva alle elezioni del 5 aprile (N.d.R. furono le ultime elezioni con il sistema proporzionale ma anche le ultime della cosiddetta Prima Repubblica. La Lega Nord esplose, conquistando l'8,65% dei voti e portando a Roma 55 deputati e 25 senatori - cinque anni prima i parlamentari in camicia verde erano solo due, il senatùr Umberto Bossi e l'onorevole Giuseppe Leoni -. Le elezioni del '92 si svolsero in un clima arroventato per gli scandali di Tangentopoli, l'inchiesta iniziata nel febbraio dello stesso anno con l'arresto di Mario Chiesa. Eppure, nonostante quel primo pesante scricchiolio, il quadripartito che sosteneva il governo ottenne il 48,85% dei voti - 331 seggi alla Camera e 163 al Senato -. Venti anni fa iniziò la grave crisi che nel giro di due anni avrebbe spazzato via i partiti che per 45 anni avevano retto le sorti del Paese: per la prima volta la Dc scese sotto il 30%, fermandosi al 29,65%, il Psi prese il 13,62%. Fu anche la prima volta senza il Pci, con la falce e martello che si divise in due: il Pds che prese il 16,10% e Rifondazione comunista il 5,61%, da http://www.ilgiornale.it/news/interni/5-aprile-1992-finiva-repubblica-5-aprile-2012-finisce.html N.d.R.). Il risultato delle elezioni, negativo per i partiti della maggioranza, ha infatti aperto il campo ad una lotta senza quartiere, la cui posta in gioco è rappresentata dalle poltrone di presidente delle repubblica e di capo del governo, e che vede gli Stati Uniti puntare decisamente all'allontanamento dai centri di potere di Andreotti e dei suoi uomini.
Ma forse la questione più grave è che anche altri paesi europei potrebbero dare appoggio all'esercito franco-tedesco. "La nuova unità - avevano già scritto Kohl e Mitterrand al presidente della CEE, Ruud Lubbers, nel novembre 1991 - potrebbe divenire il nocciolo di una forza europea di difesa, in cui potranno confluire le forze di altri stati membri della UEO. Questa nuova struttura potrebbe ugualmente proporsi come modello precursore di una cooperazione più stretta fra stati membri della UEO". Al momento dell'annuncio congiunto i due paesi fondatori conoscono già la disponibilità ad aderire al progetto di Belgio, Lussemburgo e Spagna. Rimane però da stabilire se altri paesi li seguiranno. Già prima del maggio 1992 la Gran Bretagna (tradizionale testa di ponte atlantica in Europa) e l'Olanda avevano manifestato la loro diffidenza verso un progetto mirante a stabilire uno sdoppiamento del sistema difensivo occidentale; ma davvero la Spagna darebbe il proprio consenso all'Eurocorpo? E l'Italia, una penisola ad elevata valenza strategica, che cosa ne pensa? Mitterrand mostra di contare sulla sua adesione quando, in conclusione del vertice bilaterale di La Rochelle, espone la lista delle nazioni propense all'iniziativa: "Belgio, Lussemburgo, Spagna e Italia sono gli stati che hanno mostrato il maggior interesse". Ma dall'ordine decrescente proposto da Mitterrand è facile dedurre che, se la zona del Benelux offre un'adesione scontata al progetto (peraltro con il "problema" olandese), (N.d.R. l'Olanda riteneva come la NATO restasse la pietra angolare della politica di sicurezza europea. I Paesi Bassi si mostrarono particolarmente riluttanti nel seguire le iniziative dirette all’elaborazione di un’identità europea in materia di difesa, da http://www.dizie.eu/dizionario/filter:p/?print=print-search, N.d.R.) l'ultima posizione è la nostra, mentre di Gran Bretagna e Danimarca non si fa nemmeno menzione (e la Danimarca farà parlare molto di sé di lì a pochi giorni, quando il 2 giugno, in sede referendaria, si opporrà a maggioranza agli accordi di Maastricht, i britannici si configurano ormai come il principale baluardo filo-americano in Europa: disposti a fornire truppe ad una struttura militare europea solo se questa, pur chiamandosi UEO, avrà come obbiettivo la continuità d'interessi e strategie con la Nato).
Determinante a questo punto si rivela la presa di posizione dell'Italia, sia per la sua attuale instabilità politica che per la crisi istituzionale successiva alle elezioni del 5 aprile (N.d.R. furono le ultime elezioni con il sistema proporzionale ma anche le ultime della cosiddetta Prima Repubblica. La Lega Nord esplose, conquistando l'8,65% dei voti e portando a Roma 55 deputati e 25 senatori - cinque anni prima i parlamentari in camicia verde erano solo due, il senatùr Umberto Bossi e l'onorevole Giuseppe Leoni -. Le elezioni del '92 si svolsero in un clima arroventato per gli scandali di Tangentopoli, l'inchiesta iniziata nel febbraio dello stesso anno con l'arresto di Mario Chiesa. Eppure, nonostante quel primo pesante scricchiolio, il quadripartito che sosteneva il governo ottenne il 48,85% dei voti - 331 seggi alla Camera e 163 al Senato -. Venti anni fa iniziò la grave crisi che nel giro di due anni avrebbe spazzato via i partiti che per 45 anni avevano retto le sorti del Paese: per la prima volta la Dc scese sotto il 30%, fermandosi al 29,65%, il Psi prese il 13,62%. Fu anche la prima volta senza il Pci, con la falce e martello che si divise in due: il Pds che prese il 16,10% e Rifondazione comunista il 5,61%, da http://www.ilgiornale.it/news/interni/5-aprile-1992-finiva-repubblica-5-aprile-2012-finisce.html N.d.R.). Il risultato delle elezioni, negativo per i partiti della maggioranza, ha infatti aperto il campo ad una lotta senza quartiere, la cui posta in gioco è rappresentata dalle poltrone di presidente delle repubblica e di capo del governo, e che vede gli Stati Uniti puntare decisamente all'allontanamento dai centri di potere di Andreotti e dei suoi uomini.
Ebbene la risposta ufficiale italiana arriva a pochi giorni dall'annuncio di La Rochelle, il 23 maggio, anche se passa in sordina perché in concomitanza con l'uccisione del giudice Falcone. Quello del 23 è un sabato di maggio davvero "storico" - come diranno all'indomani i giornali -, ma non tanto per i rigurgiti e le impennate di una mafia ormai all'ultimo stadio di sviluppo, quanto perché l'Italia si schiera: se la morte di Falcone rende palese la necessità di eleggere al più presto un presidente della repubblica che però sia diverso da Andreotti, in risposta all'Eurocorpo il ministro della difesa Rognoni ribadisce che la direzione seguita dal governo italiano resta quella di puntare ad una difesa continentale incentrata sulla struttura della UEO, ma nell'ambito della conferma dei legami con la Nato, perché gli risulterebbe "difficile pensare di arrivare ad un esercito europeo partendo da un corpo d'armata franco-tedesco".
Col che lo schieramento di battaglia è ormai definito: un asse franco-tedesco con velleità autonomistiche, supportato dai paesi satelliti del Benelux, si assesta saldamente al centro dell'Europa, accerchiato però dalle basi americane poste per ora nelle sole nazioni esterne Gran Bretagna e Italia (alle quali vanno aggiunti "porti sicuri" come Grecia e Turchia). A questo punto si tratta soltanto di appurare la posizione di altri comprimari, come ad esempio la Danimarca.
7. Il referendum danese su Maastricht.
Dopo poco più di una settimana dalla battaglia campale italiana, anche la Danimarca sceglie da che parte stare. Il 2 giugno la maggioranza dei danesi vota contro l'adesione al Trattato di Maastricht: è l'inizio della guerra valutaria.
Con la caduta improvvisa della certezza, fino ad allora data per scontata, della volontà degli europei di aderire a Maastricht, prende il via la più difficile estate europea (che si chiuderà con il "ni" al referendum francese), i cui effetti economici saranno la stabilità dei cambi e la messa in crisi dello SME; ma i cui risultati politici sanciranno la cacciata, per alcuni versi definitiva, dei paesi filoatlantici (Gran Bretagna ed Italia in particolare) dall'asse franco-tedesco. In altri termini, nell'estate del 1992 si scavano le trincee della contrapposizione inter-occidentale.
Rivediamola quindi questa "fredda estate" del '92. Il clima economico che precede il referendum danese non ha subìto sconvolgimenti, sicché niente lascia prevedere il cataclisma che si scatena all'indomani del 2 giugno. Infatti, non appena la Danimarca sancisce il proprio "no" a Maastricht, la fiducia nella convergenza delle economie europee crolla di colpo. Il pericolo che l'Unione monetaria venga ostacolata induce il mercato finanziario a puntare sulle valute più forti, a scapito delle economie fragili che non possono impedire la svalutazione delle proprie deboli monete. In poche ore la speculazione sceglie le sue vittime (lira, sterlina e peseta) a prò del fortissimo marco che, sostenuto da tassi d'interesse "impossibili", a partire dai primi di giugno intraprende la sua irresistibile ascesa anche nei confronti del dollaro.
La manovra sembra una punizione per i paesi colpevoli di aver rifiutato l'adesione all'esercito unificato. Ed in questo senso il "no" danese a Maastricht potrebbe apparire in qualche modo ambiguo: in accordo con la Bundesbank per dar esca all'offensiva monetaria contro gli stati europei più restii a separarsi dalla Nato; oppure in opposizione all'asse franco-tedesco, ma oggettivamente sulla stessa direttiva d'azione? Se qui è difficile dare una risposta sicura, è invece certamente mirato contro gli avversari atlantici l'annuncio di Mitterrand di affidare ad un referendum popolare l'approvazione francese al Trattato di Maastricht. La speculazione trova così nell'incertezza del risultato di Parigi e nell'orizzonte temporale limitato ( fino al 20 settembre) il terreno ideale per manovrare "per linee interne" al fine di separare il "nocciolo duro" dell'Europa di Maastricht dalle nazioni "inaffidabili" che vanno poste in quarantena. Si può quasi dire che, attraverso la speculazione finanziaria, l'Eurocorpo franco-tedesco intenda mostrare i muscoli e farla pagare cara ai "traditori".
8. La "fredda estate" dello SME.
Il primo attacco è contro l'Italia, il paese più responsabile del freno dato all'unità militare del continente. Rifiutando di abbassare gli alti tassi d'interesse, i tedeschi consentono alla speculazione di mettere in ginocchio la lira. Unita alla fragilità dell'economia ed alla crisi politica in corso, la caduta della valuta di Roma trova nella Banca d'Italia un difensore materialmente non all'altezza della situazione. Il governatore Ciampi non può fare altro che opporsi alla linea offensiva germanica con le stesse armi degli avversari ma con mezzi in larghissima misura minori, il che corrisponde ad un sicuro suicidio. Né può sperare in un'azione di supporto degli Stati Uniti, alle soglie di una campagna elettorale quanto mai incerta. L'Italia per ora deve fare da sé, così come tutte le altre nazioni europee filo-atlantiche. A Washington se ne riparlerà dopo le elezioni.
Al nostro paese non rimane così che tentare una mediazione nell'incontro dei "G7" di Monaco di Baviera (ai primi di luglio), ma con scarso successo. La Bundesbank ribadisce ancora una volta l'intenzione di proseguire sulla propria strada senza accettare pressioni (soprattutto se queste giungono da chi ha ostacolato l'Eurocorpo), ma neppure questo le basta e Schlesinger da Francoforte gira il coltello nella piaga alzando ulteriormente il proprio tasso di sconto fino a raggiungere l'8,75% (due settimane prima la FED l'aveva ridotto al minimo storico del 3%). Il divario tra i due tassi di riferimento si fa sempre più profondo, come la trincea che separa l'asse franco-tedesco da quello atlantico. Il marco è padrone assoluto dei mercati finanziari e la povera Banca d'Italia non può far altro che rispondere al rialzo dei tassi tedeschi con un ulteriore aumento dei propri, sperando che la speculazione si fermi. Ed invece la speculazione vola e impazza (poi Ciampi confesserà di non aver nemmeno immaginato che la massa monetaria "a piede libero" fosse così imponente).
Di fronte all'abbandono della lira da parte degli investitori stranieri ed all'esportazione di capitali italiani verso la Germania, la nostra Banca centrale non può che mantenere i tassi di interesse più appetibili di quelli tedeschi, mentre la situazione si riverbera sulla scena politica interna perché la manovra economica di risanamento del debito pubblico, stante un tale costo del denaro, deve necessariamente scaricarsi sul costo del lavoro. Così il 31 luglio i sindacati confederali capitolano di fronte ai ricatti di Amato: gli alti tassi costringono a limitare i salari ed "il sindacato deve fare la sua parte". Trentin (a malincuore) sottoscrive la fine della scala mobile ed il giorno dopo Ciampi offre in cambio la riduzione di mezzo punto del tasso di sconto.
Ma si tratta appena di una pausa perché ad agosto, a poco più di un mese dal referendum francese, a favore della speculazione prendono a giocare i sondaggi sul voto. Le prime stime, che riportano il vantaggio dei "no" sopra i "sì", tornano a fare alzare la tensione e chi ci rimette le penne sono ancora lira, sterlina e peseta. Le banche centrali tentano comunque il tutto per tutto: il 3 settembre Londra ricorre ad un prestito in valuta di 10 miliardi di ECU; il 4 settembre Roma, con la lira al limite della banda di oscillazione nei confronti del marco, rialza il tasso di sconto al 15% (il sacrificio "sindacale" diventa così del tutto gratuito, ma la colpa è forse di Ciampi?). La situazione è ormai insostenibile, ma sabato 5 settembre, al vertice della CEE di Bath in Gran Bretagna, l'unica concessione che si ottiene dalla Bundesbank è la promessa che i tassi non aumenteranno. L'Italia propone almeno una svalutazione contemporanea delle valute dei tre paesi filo-atlantici, vero obbiettivo della tempesta d'estate, ma Londra e Madrid rispondono picche: forse credono di non essere anch'esse nel mirino!
La speculazione intanto scorrazza tra le monete europee fino a coinvolgere anche i paesi nordici. Nella seconda settimana di settembre la Finlandia è la prima vittima, costretta a sganciarsi dal Sistema monetario europeo mentre il suo marco viene svalutato del 15%; altra strada sceglie invece la Svezia, che resta legata al marco tedesco al prezzo di un innalzamento del tasso d'interesse a breve termine al 500%! Ma ormai ogni resistenza è impossibile e la Bundesbank, dopo aver finto di sostenere la lira in base agli accordi interni allo SME (spendendo, nella "sola" seconda settimana di settembre, "ben" 24 miliardi di marchi), non intende più gonfiare le proprie riserve di ulteriori lire in pericolo di svalutazione e così costringe la Banca centrale italiana alla definitiva resa solitaria. È domenica 13 settembre, ad una settimana dal referendum francese. A pochi giorni dalla meta, la lira svaluta unilateralmente del 7% in cambio del bel gesto tedesco di una riduzione dei tassi d'interesse dello 0,5% per lo sconto e dello 0,25% per il Lombard. Ma sono tagli che finiscono per rivelarsi una nuova manovra a favore della speculazione, perché se quello che concede la Bundesbank è così poco, allora per nessun'altra valuta sotto tiro può esserci speranza.
Ed infatti così è. Nei pochi giorni che rimangono al referendum la speculazione riversa tutta la propria violenza su sterlina e peseta, sicché il 16 settembre Londra dichiara di ritirarsi dallo SME mentre nella notte, al termine del Comitato monetario della CEE, anche la lira ne approfitta, autosospendendosi dal Sistema monetario e la peseta viene svalutata del 5%. Il risultato è raggiunto. Adesso si tratta soltanto di fermare la speculazione, che nel frattempo ha preso la mano rivolgendosi anche verso il franco, fino allora rimasto relativamente in disparte. Ma siamo alla vigilia del referendum su Maastricht, la cui importanza risiede non tanto nell'esito a favore o contro l'Unità monetaria europea (di fatto ormai saltata), ma piuttosto nella sanzione dell'alleanza franco-tedesca. Ed ecco il miglior risultato per l'asse "eurocorpista": solo il 51,05% di "sì" contro il 48,95% di "no". Una vittoria talmente minima da lasciare inalterata la situazione a scapito delle altre monete europee, ma che permette a Francia e Germania di sancire definitivamente il loro accordo economico, oltre che politico e militare. Lo SME per ora rimane, se non altro come discrimine nei confronti di lira e sterlina (le vere sconfitte per la loro eccessiva fedeltà verso gli Stati Uniti), e rimane anche il progetto di Maastricht, al quale però si allineeranno solamente quelle nazioni in grado di rispettarne le condizioni (e francamente è difficile credere che Gran Bretagna e Italia ne siano in grado).
L'unico problema che resta per Kohl e Mitterrand è quella speculazione che ancora non si ferma. Così, all'indomani del referendum, il cancelliere tedesco vola a Parigi per dare un chiaro segnale ai mercati: l'attuale parità tra franco e marco rispecchia l'effettivo equilibrio presente tra le due economie, che si opporranno con tutti i mezzi a loro disposizione a qualsiasi ulteriore attacco finanziario. La settimana successiva i mercati sono ancora in fermento, ma le Banche centrali di Francoforte e Parigi non lasciano più spazio agli "avventurieri", mostrando che a questo punto scherzare con le monete è diventato pericoloso perché la Germania ha detto "basta".
Alla fine di settembre la lunga estate di brivido è conclusa. A questo punto l'Unione europea, se mai si farà, avrà come unico asse di riferimento il "patto d'acciaio" franco-tedesco, e vi potranno rientrare soltanto le nazioni che intendono gravitare nell'area del marco. Paradossalmente - ma perché mai? - la Croazia sembra avere più possibilità di procedere verso Maastricht che non l'Italia.
9. L'America entra in campo.
Germania e Francia sembrano quindi avere vinto il confronto, mentre Italia, Gran Bretagna e Spagna si sono dovute arrendere senza porre condizioni, retrocesse esplicitamente dal ministro delle finanze tedesco Theo Waigel nell'Europa di "serie B". Chi avrebbe potuto salvare questi paesi europei erano gli Stati Uniti, i quali però hanno preferito non prendere parte alla guerra d'estate. Per quale motivo? E che fine ha fatto il "terribile" documento del Pentagono di marzo?
Il fatto è che gli Stati Uniti si sono trovati alle prese con l'impasse delle elezioni presidenziali e che nessuno dei candidati ha inteso di correre il rischio di minacciare pericolose campagne valutarie o guerre commerciali foriere di ripercussioni negative interne. Questo non significa però che gli USA non intendano intervenire, ma che essi attendono il momento giusto dettato dalla loro politica interna, temporaneamente separata da quella estera.
Infatti, appena messe da parte le elezioni, l'America scende in campo per la resa dei conti con la Germania: gli Stati Uniti sono più che mai intenzionati a sostenere il loro primato economico nei confronti della sfida d'ogni capitalismo concorrente, e ciò che fa da discrimine fra l'estate e l'inverno 1992 è proprio che, risolta la questione presidenziale, essi passano dalle parole, dai moniti, dalle minacce, direttamente ai fatti, allo scontro fisico e duro. A tal proposito l'ex "sessantottino" Bill Clinton non esprime incertezze: "Chiedo agli amici dell'America di continuare a lavorare con me verso una nuova pace - dice il 4 novembre 1992, il giorno successivo alla sua elezione - Ma avverto i nemici dell'America, dovunque essi siano, che commetterebbero un errore fatale per loro se pensassero di approfittare della transizione che separa la mia elezione dalla presidenza o di mettere in futuro alla prova la mia determinazione. Ricordatelo tutti: i presidenti cambiano, ma gli interessi degli Stati Uniti restano immutati.".
Né il monito di Clinton appare privo di fondamento dal momento che la nuova "Rimland a guida germanica" ha ormai svelato i propri esatti confini: attorno all'asse franco-tedesco si ritrovano per ora uniti: Benelux, Svizzera, Svezia, Norvegia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia. Geopoliticamente questo "Cuore d'Europa" esprime la massima minaccia, tendendo a fare avanzare il proprio baricentro politico ed economico verso l'Heartland dell'ex Unione Sovietica lungo due direttrici: da un lato la discesa per la penisola balcanica fino a raggiungere le nazioni affacciate sul Mar Nero, come Romania e Bulgaria; dall'altro l'avanzamento attraverso la Polonia ed i paesi baltici. Ipotizzando la fedeltà della Francia a ovest ed il successo dell'operazione "a tenaglia" a est, la Germania realizzerebbe la messa in pratica del teorema di Mackinder di congiungere la "Terra del Cuore", che possiede le grandi pianure euro-asiatiche, col centro d'Europa e gli sbocchi ai mari caldi coronando così il sogno tedesco di sempre di dominare il mondo.
Tuttavia il pianificato movimento verso la Russia, allo stato attuale degli schieramenti, manca ancora di alcuni pilastri fondamentali. Lasciando da parte paesi come Romania e Bulgaria, la cui collocazione riveste a tutt'oggi caratteri contraddittori, sono comunque individuabili inopinabili resistenze all'avanzamento tedesco. Intanto i tedeschi dovrebbero superare grandissime difficoltà per giungere al controllo di quella Polonia (dove gli americani stanno investendo fior di dollari) che impedisce la contiguità fisica della Germania con le repubbliche baltiche e la Russia, (N.d.R. e il sovvertimento in Ucraina QUI pagato dagli USA e cavalcato da Berlino la dice lunga sullo sviluppo di questa ipotesi N.d.R.) mentre la Cecoslovacchia, che sembrava ormai prossima a cadere nell'orbita germanica, si trova dal 1° gennaio 1993 divisa, per decisione del suo parlamento, in una Boemia tedesca ed una Slovacchia no. Inoltre lungo la direttrice balcanica la Serbia rappresenta un ostacolo difficile all'espansione di una nazione, la Croazia, che, sostenuta dalla Germania economicamente, militarmente (i nuovi "ustascia", fra i quali si trovano arruolati non pochi neo-nazisti tedeschi, dispongono di armi provenienti dagli arsenali dell'ex Germania dell'Est) e politicamente (si pensi al riconoscimento unilaterale che Bonn, non disposta ad attendere i tempi della CEE, ha concesso alla Croazia dopo appena pochi giorni dalla dichiarazione d'indipendenza di quest'ultima), intende far passare come "guerra di liberazione" l'annessione truffaldina di un altro stato, la Bosnia dei musulmani. Così il fronte della "guerra incivile" che sta tagliando a fette la Bosnia costituisce in verità la linea di demarcazione più evidente dello scontro geopolitico tra Stati Uniti e Germania, anche se sotto forme mascherate e troppo spesso confuse (pour cause?) dai mass-media.
10. La "Gatt* War" e la sua vera conclusione. * General Agreement on Tarifs and Trade (nde)
Ogni freno all'intraprendenza degli Stati Uniti viene comunque a cadere all'indomani della vittoria di Clinton. L'offensiva americana, attesa per tutta l'estate, si configura di colpo poche ore dopo la designazione del nuovo presidente statunitense, e paradossalmente ad opera ancora di Bush.
Dopo una lunga ed infruttuosa estate di trattative in seno agli accordi internazionali del Gatt, il 5 novembre gli Stati Uniti annunciano, per bocca della rappresentante commerciale americana Carla Hills, l'intenzione, a partire dal 5 dicembre successivo, di applicare sanzioni (del 200%) sulle importazioni agricole dei prodotti europei per un ammontare iniziale di 300 milioni di dollari, i quali però potrebbero in breve salire anche ad un miliardo, come Washington aveva già ammonito a giugno ricordando ai "separatisti" europei quali fossero i rischi a cui andavano incontro. Allora Kohl e Mitterrand non vollero sentire ragioni, rinviando di fatto la resa dei conti al dopo-elezioni. E così accade, essendo immediatamente evidente che la nazione al momento maggiormente colpita dai dazi americani è proprio la Francia, cioè uno dei due paesi del nuovo asse europeo.
Ma la Francia non intende fare da agnello sacrificale, sicché promette battaglia. Purtroppo però per i parigini il fronte dei falchi, che tanto vola in alto quel 5 novembre minacciando guerre e rappresaglie a destra e a manca ("stiamo schierando gli eserciti per prepararci alla guerra", dichiara un portavoce della Commissione CEE, e "risponderemo con rappresaglie proporzionali a quelle degli Stati Uniti", ammonisce Frans Andriessen, capo della delegazione comunitaria ai negoziati con gli americani), dopo nemmeno quattro giorni è già in frantumi. Infatti, mentre preparano la lista delle contromisure, i francesi paiono dimenticarsi che i provvedimenti della Commissione CEE devono essere approvati a maggioranza dal Consiglio dei ministri dei Dodici, e perché mai i paesi più "strizzati" dall'aggressione speculativa dovrebbero adesso difendere la Francia, coresponsabile delle loro disavventure estive?
E tuttavia, se si trattasse solo di questo, l'asse franco-tedesco potrebbe avere ancora buon gioco contro Italia e Gran Bretagna. La vera questione che spacca la Comunità europea risiede nel timore di Bonn (N.d.R. storica capitale germanica occidentale del secondo dopoguerra N.d.R.) che gli Stati Uniti allarghino i dazi anche ai prodotti industriali. Infatti, mentre la CEE tentenna, Carla Hills muove nuovamente all'attacco ammonendo che, nel caso in cui si dimostrasse impossibile giungere ad una "soluzione soddisfacente" in materia agricola con Bruxelles, gli Stati Uniti avrebbero in serbo misure ben più pesanti, questa volta però destinate a colpire 1,7 miliardi di dollari di importazioni industriali. L'America non può scendere in campo in maniera più esplicita, e francesi e tedeschi, fraternamente uniti all'indomani del referendum di settembre, finiscono inevitabilmente di scontrarsi visto che in rotta di collisione si rivelano i loro interessi commerciali. I tempi d'oro della speculazione pro-marco stanno per passare e la Germania non può più sacrificarsi per difendere i paesi fedeli. Ora contano soltanto i conti della bilancia con l'estero e Bonn non può rinunciare alle proprie esportazioni in USA, sicché è meglio che le restrizioni ricadano solo sull'economia francese, la quale d'altro canto appare, sotto il profilo dei parametri di Maastricht, anche più in salute di quella tedesca.
Così alla prima riunione di Bruxelles per decidere le contromisure europee la Francia si trova talmente isolata che l'adozione di rappresaglie contro l'America non viene nemmeno messa ai voti, evidentemente per non rendere ancora più palese e lacerante l'opposizione interna alla CEE. Ma l'aspetto più sorprendente della situazione sta nella presa di posizione di Germania, Danimarca e Benelux, buttatesi a fianco della "gran nemica" Gran Bretagna, ovviamente contraria ad una guerra commerciale con gli Stati Uniti e favorevole ad un accordo tra le parti. Alla Francia non resta che sperare nell'Italia, a detta dei francesi favorevole alla rappresaglia perché pure essa direttamente colpita dall'aumento dei dazi agricoli, ma nessuna dichiarazione pubblica dei ministri italiani presenti all'incontro giunge ad avallare il pio desiderio di Parigi. La sconfitta viene così quando, fra gli echi delle dimostrazioni anti-americane, i MacDonald devastati e le bandiere a stelle e strisce bruciate dai contadini francesi, sull'altra sponda dell'Atlantico, a Washington, il 20 novembre Carla Hills e i commissari della CEE giungono al sospirato accordo per evitare i dazi sui prodotti agricoli: la Comunità europea si impegna a ridurre le superfici coltivate e in più accetta di diminuire del 21%, prodotto per prodotto, l'export agricolo sovvenzionato. In effetti si tratta di un cedimento pressoché su tutti i fronti della trattativa, e lo sa bene il governo di Parigi per il quale, sul momento, "l'accordo è inaccettabile", come sentenzia il ministro dell'agricoltura Jean Pierre Soisson. Ma c'è ormai ben poco da fare, se non richiedere che almeno la CEE indennizzi gli agricoltori francesi colpiti dai tagli alla produzione.
La Francia si sacrifica dunque economicamente, e la sconfitta si riverbera immediatamente anche sul piano militare perché Mitterrand, capendo che la Germania non è affatto un partner affidabile quando lo scontro si fa duro, decide di abbandonarla anche a proposito del famigerato "Eurocorpo". Con la lettera congiunta, a firma dei governi francese e tedesco, inviata il 30 novembre al Consiglio atlantico, si annuncia infatti (ed è quasi una dichiarazione di resa) che quel corpo d'armata in allestimento che aveva scatenato la "guerra fredda" del 1992 potrà operare sotto comando Nato in tempo di guerra, ma anche e soprattutto in missioni straordinarie di pace fuori dal territorio dell'Alleanza. La Francia riconosce in tal modo la superiorità del Patto atlantico in ordine al controllo della sicurezza occidentale, consegnando agli Stati Uniti quello che nei progetti sarebbe dovuto divenire il "braccio armato" dell'Europa di Maastricht. Ma non solo: essa infatti si impegna a partecipare con il futuro Eurocorpo ad interventi "ad hoc" che, su incarico dell'ONU o della CSCE, la Nato si trovasse a sostenere per garantire gli equilibri internazionali. E gli americani prendono talmente in parola i francesi da chiamarli, pochi giorni dopo, alle loro dipendenze nell'operazione-occupazione militare in Somalia. È il primo banco di prova (subito seguito dai nuovi bombardamenti sull'Iraq) della "ritrovata" fedeltà francese, ma non è detto che altri non ne vengano richiesti in futuro in zone ben più calde militarmente, come ad esempio in quella Bosnia musulmana aggredita dai "comunisti" serbi ma pure dagli "ustascia" croati in odore di nazismo.
11. Il "caldo inverno" delle monete.
Piegato il "braccio militare" dell'alleanza franco-tedesca, agli Stati Uniti rimane da sostenere il confronto - in verità più difficile - con l'apparato economico germanico. È la seconda fase dell'attacco americano, che si sviluppa, contemporaneamente allo scontro sui dazi, quando il 19 novembre, il giorno precedente la firma dell'accordo USA-CEE, torna in scena la speculazione. Ma questa volta si tratta di un fenomeno valutario del tutto diverso da quello osservato nel corso dell'estate.
Dopo l'accordo ratificato in settembre tra Parigi e Bonn a garanzia degli impegni di reciproca difesa della parità monetaria, la bufera finanziaria era sembrata sparire d'incanto, lasciando sul terreno appena marco finlandese, lira italiana e sterlina britannica costrette ad uscire dallo SME. Eppure la Bundesbank ha potuto dormire sonni tranquilli per solo poco più di un mese, svegliata di soprassalto dagli esiti delle elezioni americane.
Paradossalmente, infatti, la corsa contro il tempo affrontata durante l'estate da Bush al fine di destare segni di vitalità nell'economia americana, dà i suoi frutti subito dopo l'elezione di Clinton, allorché la moneta americana manifesta di risentire efficacemente degli stimoli positivi provenienti sia dal campo politico che da quello economico, configurandosi nuovamente come il segnale della ripresa economica occidentale in via di identificazione con la promessa "clintonomics". Il biglietto verde torna in tal modo a rivestire il ruolo di "porto sicuro", di "bene rifugio" capace di attirare quei capitali erratici messi pericolosamente in movimento dalla politica monetaria dissennata della Bundesbank.
Ed i primi risultati della nuova fiducia riposta nel futuro dell'economia americana giungono in campo finanziario per l'appunto giovedì 19 novembre, quando gli attacchi della speculazione costringono una nuova valuta, la corona svedese, a ritirarsi a sorpresa dallo SME. Eppure nei drastici provvedimenti adottati dalle autorità monetarie svedesi vi è qualcosa di radicalmente diverso rispetto alle motivazioni che nell'estate precedente avevano costretto ad una resa simile sia Helsinki che Londra e poi Roma, perché se da un lato allora la corona era riuscita a resistere all'offensiva speculativa, che pur l'aveva coinvolta, scegliendo di rimanere ancorata al marco tedesco a costo di misure monetarie eccezionali, dall'altro non si comprende cosa possa aver spinto adesso la Riksbanken di Stoccolma a gettare la spugna dopo nemmeno una settimana di attacchi alla propria valuta. Cosa fa sì che la Svezia, capace di resistere alla speculazione d'estate, ceda di colpo di fronte a quella di novembre? In altri termini, chi c'è ora di tanto forte dietro la nuova offensiva valutaria? A rispondere è Olev Tryg della Swedbank di Stoccolma: è il "super-dollaro" - denuncia -, gettatosi sulla corona svedese "come su una preda da cui succhiare il sangue e poi abbandonare al suo destino. E continuerà così anche con le altre valute europee". Ma quali "altre valute europee"?.
Nella stessa giornata del 19 novembre la Banca di Norvegia annuncia l'intenzione di limitare i prestiti alle banche per frenare la fuoriuscita dei capitali, mentre d'urgenza si tiene un vertice delle autorità monetarie in Finlandia. È allora la fascia delle monete del Nord ad essere investita dalla nuova bufera valutaria, che ha di mira le monete satelliti del marco partendo da quelle scandinave meno difese, ma per arrivare al franco francese, al cui sostegno i tedeschi hanno legato l'esistenza stessa dell'asse politico-militare europeo. Ed è proprio la difesa del franco, vero obbiettivo della nuova offensiva speculativa, a far quadrare i conti in casa franco-tedesca: se la Francia ha sacrificato i suoi contadini nella guerra dei dazi, in cambio la Germania deve impegnarsi con tutte le sue forze a sostenere la moneta di Parigi, ormai in odore di svalutazione. E così è: mentre svalutano peseta spagnola ed escudo portoghese e rialzano a difesa i tassi d'interesse Olanda e Danimarca senza che la Bundesbank muova un dito (perché "è errato ed inefficace che le banche centrali siano obbligate a difendere sul mercato le monete più deboli", dichiara il suo presidente il 1° dicembre), la Germania non risparmia munizioni per proteggere la parità franco-marco, asse portante di quell'Europa di "serie A" monetariamente però ridottasi a solo un pugno di nazioni. E proprio tutte disposte a "morire per Dresda" ?
12.... e poi non ne rimase nessuna?
Intanto la recessione sta colpendo pesantemente l'Europa. La strada dell'innalzamento dei tassi d'interesse, imboccata decisamente dalla Germania nel 1990, si è ormai trasformata in un vicolo cieco in cui l'elevato costo del denaro - visto inizialmente come garanzia di controllo sull'inflazione e soprattutto come magnete nei confronti dei capitali internazionali - ha avuto il solo effetto di rallentare ovunque gli investimenti, e quindi lo sviluppo, in una congiuntura complessiva di per sé già allarmante. Così le speranze di una ripresa in Europa sono tutte legate all'abbassamento di quei saggi d'interesse richiesto da più parti (anche dai francesi e dalla CEE all'inizio di dicembre), ma che fino ad oggi ha incontrato la più decisa opposizione da parte di Schlesinger: finché riuscirà la banca tedesca non toccherà nemmeno di mezzo punto l'interesse, sebbene ciò vada ad evidente scapito della ripresa economica di tutti. Ma perché mai tanta ostinazione? Il fatto è che la morsa che attanaglia la Germania non lascia altra alternativa poiché i capitali stranieri, che il super-marco ha saputo attirare nel 1992, si sono rivelati alla prova dei fatti soltanto investimenti finanziari di breve periodo. Il saldo positivo di 59 miliardi di marchi registrato nel primo semestre è costituito infatti da prestiti esteri a breve scadenza, mentre sul fronte dei capitali a lungo termine, sempre per quel primo semestre, si palesa addirittura un disavanzo a scapito della Germania di 27 miliardi di marchi. Stando così le cose, è comprensibile la resistenza offerta dalla Bundesbank verso ogni esortazione alla riduzione del costo del denaro: abbassare i tassi d'interesse significherebbe vedere quei capitali fuggire in brevissimo tempo verso altri lidi, e provocare in Germania un vero e proprio collasso finanziario interno, chiamandola finalmente a fare i conti da sola con il costo spropositato dell'unificazione. Perciò "abbassare i tassi d'interesse non aiuta a risolvere i problemi né della Germania né dell'Europa", spiega il 1° dicembre il presidente della Bundesbank mirando a rafforzare il fronte europeo di resistenza alla pressione esercitata dalla bufera valutaria invernale, la quale presenta nuovamente le caratteristiche di una battaglia fra colossi geopolitici che muovono il giro vorticoso dei capitali speculativi.
Ora però, se ben si comprendono le motivazioni germaniche, quale vantaggio avrebbe mai l'Europa a non vedere abbassarsi i tassi d'interesse tedeschi? Abbiamo visto che, se questi si riducessero, i capitali defluirebbero immediatamente dalla Germania, ma... resterebbero nel vecchio continente? Come si è detto, la novità della fine del 1992 è una ritrovata aggressività del dollaro, stimolato dalla prospettiva della "clintonomics". Ma per portarla a compimento i capitali interni non bastano; così anche gli Stati Uniti hanno bisogno di attrarre denaro straniero per dotarsi di quella politica industriale capace di rilanciare la propria economia e farne una locomotiva planetaria dello sviluppo. Di conseguenza due sono i poli, con interessi concorrenti, impegnati a contendersi la liquidità speculativa internazionale, ed a fare subito le spese del confronto è il povero franco francese, ormai vaso di coccio fra marco e "super-dollaro" nonostante abbia alle spalle un'economia dai "fondamentali" talmente in ordine da essere l'unica a potere entrare a vele spiegate nell'Europa di Maastricht. La Bundesbank ha però ben capito chi sta manovrando per far saltare l'ultimo rapporto di cambio fisso che tiene ancora in piedi lo SME. Perché è di questo che, a partire da dicembre, si tratta: buttate fuori in estate lira e sterlina ad opera del marco, il Sistema monetario, divenuto la linea di discrimine tra i paesi dell'area germanica e quelli filo-atlantici, si trova adesso a fronteggiare un'offensiva valutaria di ben altro colore, intenzionata a spazzare via lo stesso "Cuore d'Europa" (il nucleo dell'"Europa a cerchi concentrici", ormai divenuto tutt'uno col "Cuore dello SME"). E l'unico modo per tagliare la testa del Serpente monetario è fare saltare la parità fra marco e franco, suo asse residuo.
Ecco allora i moniti di Kohl e Mitterrand affinché l'attuale sistema di cambi venga riformato attraverso la creazione di uno "SME a geometria variabile", con nucleo centrale di monete a parità stabile, attorno al quale strutturare due centri concentrici: uno per le valute degli altri paesi della CEE e l'altro per le restanti nazioni europee. E quali sarebbero gli stati ad entrare adesso di diritto nel "nocciolo duro" dello SME? Appena Germania, Francia, Benelux e Danimarca, poiché solo a questi esso si è ridotto dopo che il 10 dicembre anche la Norvegia, seguendo l'esempio di Svezia e Finlandia, è uscita dal Sistema monetario. L'Europa "marco-centrica" rinuncia così anche ai paesi satelliti, chiudendosi a riccio nella difesa di ciò che resta dei grandiosi propositi d'egemonia ed avanzamento verso l'Heartland: impeditagli la strada verso la Russia, circondata da paesi o filo-atlantici oppure ormai allo sbando, attaccata direttamente da un dollaro rampante, la "Grande Germania" non può fare altro che arroccarsi nella "Stalingrado" degli alti tassi d'interesse, pur di conservare il gruzzoletto di capitali racimolato durante l'estate a spese dei restanti paesi europei.
Ma fino a quando Schlesinger potrà resistere? L'ostinazione "teutonica" ha un prezzo sempre più elevato, in termini d'investimenti ed occupazione, che perfino i suoi alleati più fedeli sembrano ormai restii a pagare: è del 7 gennaio (1993 N.d.R.) la notizia della "ribellione", alla dittatura monetaria della Bundesbank, dei fino ad allora fedelissimi Belgio ed Olanda, passati decisamente ad una politica ufficiale di riduzione del tasso di sconto, immediatamente adottata pure da Austria e Svizzera (quest'ultima anche protagonista di una presa di posizione clamorosa contro il "pericolo tedesco" in occasione del referendum del 6 dicembre sull'adesione alla CEE). È una manovra che la stampa ha subito interpretato come un'anticipazione di ciò che sarà costretta a fare tra non molto la stessa Germania: e quel giorno, non appena abbassati i tassi d'interesse, i capitali speculativi razziati sui mercati finanziari internazionali durante il 1992 abbandoneranno la valuta tedesca. Allora l'unificazione diverrebbe un serissimo problema a carico della sola Germania, la quale si troverebbe in una tale situazione deficitaria ed alle prese con conflitti sociali così esplosivi da vedersi forse costretta a chiedere aiuto finanziario proprio ai nemici di un tempo, agli Stati Uniti d'America. A quel punto la "guerra monetaria" potrebbe dirsi veramente conclusa, come già è terminata la "guerra militare" attorno all'Eurocorpo.
Agli Stati Uniti resterebbe invece da portare a termine un altro compito, quello più difficile: la resa dei conti col Giappone. Se infatti la Germania si è mossa col progetto di entrare nell'Heartland attraverso la porta naturale dell'Europa centrale, il Giappone ha già mostrato pari intento puntando alla conquista della "Terra del Cuore", partendo però da est, attraverso la Cina. Così il 1993 potrebbe essere "l'anno del Giappone", quello in cui il fronte di conflitto verrebbe spostato dal nostro continente a quello asiatico.
Il logo dell'editore Andromeda.
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E sarebbe uno scontro ancora più duro di quello appena superato, entrando in campo il mercato dell'alta tecnologia, oltre che gli interessi delle più imponenti multinazionali al di qua ed al di là dell'Oceano Pacifico.
Ma gli americani hanno già allestito tutte le armi per farcela di nuovo: da gennaio alla Casa Bianca non siederà più un repubblicano liberista, ma un democratico protezionista che potrà fare tesoro della "prova generale", effettuata così vittoriosamente con gli europei, per lanciare il definitivo attacco all'egemonia economica nipponica, scatenandole addosso una "Gatt War" dagli occhi a mandorla. Perché solo al termine di quest'ultimo scontro gli Stati Uniti potrebbero nuovamente proporsi come i "gendarmi" della pace del mondo, sotto l'incondizionata sovranità economica del loro "super-dollaro".
Questo testo trae spunto da un seminario tenuto dagli autori presso l'"Osteria dell'Orsa", in Bologna, il 4 dicembre 1992. Il testo dell'articolo è del 15 gennaio 1993.
Accademia dell'ORSA, via Mentana, Bologna
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