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sabato 13 agosto 2016

Antonio Gramsci e l'Egemonia

Antonio Gramsci
Antonio Francesco Gramsci (1891-1937) è stato un politico, filosofo, giornalista, linguista e critico letterario italiano. Gli antenati paterni di Antonio Gramsci erano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia fin dal XV secolo, durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Le lontane origini albanesi erano conosciute dallo stesso Antonio Gramsci, che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht dal carcere di Turi, il 12 ottobre del 1931: «[...] io stesso non ho alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.». A due anni, Antonio si ammalò del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, Gramsci non supererà il metro e mezzo di altezza. Nel 1898 suo padre Francesco, impiegato all'Ufficio del registro di Ghilarza, in Sardegna, è condannato al carcere con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti. Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia Gramsci trascorse anni di estrema miseria. Per le sue delicate condizioni di salute, Antonio cominciò a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse nel 1903 con il massimo dei voti, e con grandi sacrifici riuscì a prendere la licenza ginnasiale a Oristano nell'estate del 1908 e ad iscriversi al Liceo Dettori di Cagliari. Di quel periodo scriverà sua sorella: «in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini». Alla fine della seconda, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì il professor Raffa Garzia, radicale e anticlericale, direttore de “L'Unione Sarda” e grazie alla collaborazione al giornale che Gaza gli propose, Antonio ricevette nell'estate del 1910 la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse».

Il 25 luglio Gramsci ebbe la soddisfazione di veder stampato il suo primo articolo, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, Gramsci scriveva: «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà [...] la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». Nell'autunno del 1911, il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, per poter avvedere ad una borsa di studio per frequentare l'Università di Torino; Gramsci fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino che supererà classificandosi nono, mentre al secondo posto si classifica uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. L'Università di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille Loria, Gioele Solari e il giovane linguista Matteo Bartoli, che si legò in amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Umberto Cosmo. Ricordando quegli anni, Antonio scriverà: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani». Gramsci si ritrovò a casa per le elezioni politiche del 26 ottobre 1913, dopo la fine della guerra italo-turca, dove votavano per la prima volta anche gli analfabeti e per contro dilagavano sia la corruzione che le intimidazioni. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti, favorì l'insieme delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere, mettendo d'accordo gli indipendentisti e "non-sardisti". Gramsci scrisse di quelle elezioni al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino ai primi di novembre del 1913, dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese lezioni private di filosofia dal professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». Sull'Italia neutralista della Prima guerra mondiale scrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese “Il Grido del popolo” del 31 ottobre 1914, l'articolo “Neutralità attiva e operante” in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'”Avanti!” di Mussolini “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Il 13 aprile 1915 sostenne quello che fu, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università, essendo cresciuto il suo impegno politico con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'”Avanti!”. Dal 1916 Gramsci trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni del “Grido del popolo” e del foglio piemontese dell'”Avanti!”, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, “Sotto la Mole”, dove pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Su richiesta di alcuni giovani compagni, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti “La Città futura”, uscito l'11 febbraio 1917, dove scriveva: 

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.  

Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» - scriverà - «il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano». La sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono, il 23 agosto 1917, in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale.
I bolscevichi avevano preso il potere in Russia il 7 novembre 1917 ma per settimane in Europa giunsero solo notizie confuse, finché il 24 novembre l'edizione nazionale dell'”Avanti!” uscì con un editoriale dal titolo “La rivoluzione contro il Capitale”, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti [...] essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche».

Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918 Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'”Avanti!”, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Il 1º maggio 1919 uscì il primo numero dell'”Ordine nuovo” con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto, Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i Consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo [...] perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.
Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi. L'8 maggio Gramsci pubblicò sull'”Ordine Nuovo” una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo [...] il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere [...] non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria [...] il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese... ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. Nell'ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.
Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia.
Il 26 gennaio 1925, dopo l'omicidio Matteotti, nel suo primo e unico intervento da deputato, Gramsci denuncia il carattere di regime piccolo-borghese del fascismo, alleato e sponsorizzato dai grandi proprietari terrieri e industriali ed ironizza pesantemente su Mussolini, ex alleato di partito, rievocando il suo passato socialista.
Nel 1926 venne ristretto, dal regime fascista, nel carcere di Turi.
Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita.

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci è considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo. Nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura culturale e politica della società. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. “L'egemonia culturale è un concetto che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo.” Antonio Gramsci
L'analisi dell'egemonia culturale, anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste predette da Karl Marx nei paesi industrializzati non si fossero verificate. Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè sindacati e partiti politici riformisti. L'inevitabile successione delle crisi economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo scientifico e a cominciare la transizione verso una società comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle strutture economiche implicava una trasformazione delle sovrastrutture culturali e politiche.

L'egemonia - Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.
Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente».
La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo egemone. Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che in Gramsci indica l'insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici.

L'egemonia nel Risorgimento italiano - Analizzando la storia del Risorgimento, Gramsci rileva che la classe popolare non trovò un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì «l'unità nazionale come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia». Gramsci ritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, (assertore di idee radicalmente democratiche ed egualitarie) come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.

Gramsci sulla mancata egemonia dei democratici risorgimentali - Una nuova fase di dibattito sui moti insurrezionali risorgimentali italiani si è aperta dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto per merito di Antonio Granisci e delle felici elaborazioni contenute nei famosi "Quaderni", compilati durante la lunga carcerazione impostagli dai tribunali fascisti, che la riflessione critica sul Risorgimento ha fatto un notevole salto di qualità, esplorando nuovi territori e confrontandosi con nuove e più ampie problematiche. Analizzando la vittoria dei moderati, Gramsci la spiegava con il fatto che essi erano un gruppo di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo con le classi e i ceti, la grande e la media borghesia, sia urbana sia rurale, che di fatto alimentarono ed egemonizzarono il processo unitario. I democratici al contrario non erano l'espressione politica di classi omogenee; per esserlo avrebbero dovuto trasformare il loro programma in senso sociale, come indicavano Pisacane e Ferrari, diventando il partito dei lavoratori poveri e delle masse contadine diseredate, prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa conversione del programma e rimasero stritolati politicamente tra l'egemonia moderata della borghesia e l'immobilismo popolare. Il Risorgimento era quindi una "rivoluzione fallita" perché non aveva saputo raccogliere, attraverso una decisa riforma agraria, l'adesione delle masse contadine, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, allargando così le basi dello stato e garantendo il superamento dell'arretratezza economica di tanta parte del paese. Gramsci intende anche come “rivoluzione passiva” quella in cui i liberali moderati hanno avuto strategicamente la meglio sui repubblicani democratici mantenendo l’ordine feudale esistente causando la permanente spaccatura tra Stato e società civile. Il fascismo è la diretta conseguenza di questa situazione, cioè un tentativo della borghesia debole di ridefinire un sistema politico che stava crollando.

Gramsci sulla fallita rivoluzione del "biennio rosso" - Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista "L'Ordine Nuovo", ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1.920. La scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso una occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Fu indetto uno sciopero da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie e infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.
Le occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e della sua incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare. Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche: « Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni. » (Giovanni Giolitti)
Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista. » (1.926, Antonio Gramsci)
Livorno, 15 gennaio 1921, il teatro Goldoni in cui venne
fondato, durante il 17° congresso socialista,
il Partito Comunista d'Italia.



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venerdì 29 luglio 2016

Influenza dei clericali, politiche, partiti, diritto di voto ed elezioni nel Regno d'Italia

Stampa originale della Dichiarazione
dei diritti dell'Uomo e del Cittadino.
Il 26 agosto 1789 è emanata in Francia la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, (Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen) un testo giuridico elaborato nel corso della Rivoluzione francese contenente una solenne elencazione di diritti fondamentali dell'individuo e del cittadino. Emanato basandosi sulla Dichiarazione d'indipendenza americana dalla corona britannica, tale documento ha ispirato numerose carte costituzionali e il suo contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti della libertà e dignità umana. Dopo il successo della Rivoluzione francese, l'Assemblea Nazionale Costituente decise di assegnare ad una speciale Commissione di cinque membri, eletta il 14 luglio 1789, il compito di stilare una "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" da inserire nella futura costituzione, nell'ottica del passaggio dalla monarchia assoluta dell'Ancien Régime ad una monarchia costituzionale. Basato sul testo proposto dal marchese di La Fayette, il progetto della Dichiarazione venne discusso in Assemblea dal 20 al 26 agosto e, nella redazione definitiva, fu accettato dal re Luigi XVI il 5 ottobre per essere inserito come preambolo nella Carta costituzionale del 1791. L'impatto di questa elencazione di principi fu innovatore e rivoluzionario allo stesso tempo. Sei mesi dopo la presa della Bastiglia e sole tre settimane dopo l'abolizione del feudalesimo, la Dichiarazione attuò uno sconvolgimento radicale della società come mai era avvenuto nei secoli precedenti. La "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino" d'altro canto non fu un episodio casuale e gran parte del suo contenuto è confluito a sua volta nella "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo" adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Mentre la rivoluzione americana, pur di evidente stampo massonico, aveva mantenuto la fede religiosa come valore, (sulla banconota da un dollaro è scritto "Abbiamo fede in Dio") in Francia vengono decapitati i poteri e i privilegi del clero insieme a quelli degli aristocratici e i valori concernenti lo stato sono puramente laici, liberi da dogmi e figli della visione illuminista.

Olympe de Gouges
All'interno del fermento culturale della rivoluzione francese c'erano anche le "suffragette", un movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto per le donne (dalla parola "suffragio" che significa "dichiarazione della propria volontà in procedimenti elettivi o deliberativi attraverso il voto"). Il movimento presenta all'Assemblea Rivoluzionaria, all'inizio della rivoluzione francese, nel 1789, il "Cahier de Doléances des femmes", una prima richiesta formale di riconoscimento dei diritti delle donne. In quegli anni, Olympe de Gouges pubblica "Le prince philosophe", romanzo che rivendica i diritti delle donne e inizia ad organizzare gruppi di donne. Nel settembre del 1791 pubblica "La Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina" (Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne), un testo giuridico francese che esige la piena assimilazione legale, politica e sociale delle donne, sul modello della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Primo documento a invocare l'uguaglianza giuridica e legale delle donne in rapporto agli uomini, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina è pubblicata allo scopo di essere adottata dall'Assemblée nationale  e costituisce un'imitazione critica della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che elenca i diritti validi solo per gli uomini mentre le donne non dispongono del diritto di voto, dell'accesso alle istituzioni pubbliche, alle libertà professionali, ai diritti di possedimento, ecc. L'autrice vi difende, non senza ironia sulle considerazioni dei pregiudizi maschili, la causa delle donne, scrivendo che « La donna nasce libera e ha uguali diritti all'uomo ». Olympe de Gouges criticò la Rivoluzione francese di aver dimenticato le donne nel suo progetto di libertà e di uguaglianza.
La sua azione tuttavia fu interrotta quando iniziò a criticare lo stesso Robespierre, e nel 1793 venne ghigliottinata.

Bandiera della Repubblica
Cispadana, con stemma di
faretra a 4 frecce.
Napoleone valica il San
Bernardo di David, 1801.
Nel 1.797, nell'ambito delle guerre del generale della Repubblica francese Napoleone Bonaparte ai vecchi regimi, le monarchie assolute che non prevedevano alcun potere al di la di quello della monarchia: nessun parlamento e governo parlamentare, per cui nessuna costituzione che garantisse la democrazia attraverso il voto, in Italia vengono fondate la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano e la Repubblica Cispadana comprendente i territori di Massa e Carrara, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara e Romagna, con capitale Bologna. Nella Repubblica Cispadana si indicono elezioni aperte a tutti i maschi maggiorenni per eleggere un parlamento. Viene inoltre promulgata una Costituzione e viene adottato il tricolore come bandiera della libera Repubblica.

L'Europa nel periodo napoleonico
con Francia e le sue espansioni
militari in verde scuro, i territori
controllati in verde chiaro e gli
alleati in blu.
Il 1.800 si era aperto dunque con la consapevolezza del diritto alle pari opportunità per le persone (inizialmente solo per gli uomini) nella gestione della "cosa pubblica", in latino Res publica, garantite da una Costituzione. Grazie alla rivoluzione industriale, all'urbanizzazione, a migliori condizioni igieniche ad una migliore situazione sanitaria dovuta all'applicazione delle scoperte scientifiche, emergevano nuove classi sociali e si andavano formando aggregazioni di massa. La Francia propagava le sue idee rivoluzionario-repubblicane e cercava di distruggere militarmente le monarchie assolute e l'impianto politico europeo nato dall'accordo fra l'imperatore Carlo Magno e il papato nell'800. Napoleone, il più bravo dei generali della rivoluzione, era in buona fede nella sua opera di promulgazione delle idee liberali e anti-clericali (la sola divinità era rappresentata dalla Scienza) care agli ambienti massonici (le logge massoniche erano penetrate anche nel mondo musulmano già dalla fine del Settecento, sull’onda dell’entusiasmo suscitato in Egitto dal proclama che il giovane generale Bonaparte aveva pubblicato in Alessandria il 2 luglio del 1798). In ogni paese o città che conquistava, Napoleone piantava l'albero della Libertà, promulgava il sistema repubblicano, toglieva i poteri all'aristocrazia e chiudeva parecchie chiese. Il suo potere crebbe poi a dismisura, fino ad ottenere il trono, contraddicendo i valori democratici repubblicani, ma sarà imperatore non di Francia ma dei francesi.

Carta dell'Europa della Restaurazione.
Con la sconfitta di Napoleone, si riafferma il principio di legittimità dei sovrani assolutistici dell'ancien regime con la Restaurazione del 1814, quando invece il secolo si chiuderà con l'affermazione dei principi di nazionalità e autodeterminazione dei popoli. Durante quel secolo, si passerà dalla prevalenza di regimi autoritari e conservatori ad ordinamenti sempre più liberali e democratici, caratterizzati da un'impegno sociale crescente e dalla comparsa di movimenti d'opinionepartiti politici, espressione della nascente società delle masse.

Colori e A di Anarchia.
E' nel 1840 che, con Pierre-Joseph Proudhon, considerato l'autentico fondatore del pensiero anarchico moderno, si assiste ad una rivalutazione o ad una valutazione positiva dei termini “anarchia” ed “anarchico”, grazie alla pubblicazione di “Che cos'è la proprietà?”, di cui le frasi più altisonanti sono: “la proprietà è un furto” e “il grado più elevato dell'ordine nella società viene espresso dal grado più alto di libertà individuale, ossia dall'anarchia”. Fra i padri non padroni del pensiero anarchico si annoverano anche Lev Tolstoj, William Godwin, Piotr A. Kropotkin, Max Stirner, le cui posizioni oscillano fra il comunismo anarchico o collettivismo e l'individualismo.
Pierre-Joseph Proudhon
Il comunismo anarchico o collettivismo, sostiene l'importanza dell'equilibrio tra gli individui nel corpo sociale e vede come finalità umana l'associazionismo, da cui deriverà l'anarco-sindacalismo e quelle correnti disposte a calarsi in piccoli compromessi riformistici con la società. Proudhon può essere considerato il campione di questo pensiero, che presagiva l'autoritarismo del pensiero marxista.
L'individualismo costituisce uno degli aspetti più romantici dell'anarchismo, responsabile del conflitto con il pensiero marxista comunista, anti-individualista per eccellenza e affine ad una certa destra nietzchiana, affascinata dal mito dell'oltre-uomo (erroneamente tradotto come super-uomo). Stirner può essere considerato il campione di questa posizione, dove l'”Io” si oppone alla società.
Carta con i moti rivoluzionari europei nel 1848.
Le differenze fra anarchismo e socialismo, comunismo o marxismo in generale, è che gli anarchici non accetteranno mai il concetto di dittatura del proletariato; soprattutto non riconoscono nel proletariato l'“avanguardia” della rivoluzione, trovando assurdo ed improbabile che una classe sociale, una volta raggiunto il potere, scelga di privarsene per favorire l'avvento del comunismo totale. Nel corso della Storia, anarchici e socialisti (e comunisti) rivoluzionari hanno condiviso la volontà di attuare la Rivoluzione, ma nient'altro... Anzi... Durante la guerra civile spagnola, iniziata nel 1936, gli anarchici instaurarono a Barcellona una repubblica che osservava due leggi: la prima legge sentenziava che nessuno era tenuto ad osservare alcuna legge e la seconda legge precisava che la prima legge era comunque facoltativa. Il proliferare di anarchici e i loro successi impensierirono molto Stalin, che ne fece fucilare più che poté, favorendo così i falangisti e i fascisti.

Carlo Alberto di Savoia
Il 4 marzo 1848, nel Regno di Sardegna, re Carlo Alberto, promulga dal palazzo reale di Torino lo Statuto Albertino, contenente concessioni alle istanze liberali, fra cui la legge elettorale per l'elezione dei parlamentari che, modificata in modo marginale nel 1859, garantiva il diritto di voto agli uomini con più di 25 anni d’età, che sapessero leggere e scrivere e che pagassero 40 lire di imposta diretta, quindi una discriminazione per censo. Nel suffragio censitario ha diritto di voto chi ha una ricchezza pari o superiore ad un certo livello, in questo caso chi avesse potuto pagare 40 lire. Avevano inoltre diritto di voto, senza dover pagare le 40 lire, magistrati, professori, ufficiali. Dai dati Istat http://www3.istat.it/dati/catalogo/20100728_00
/valore_moneta_1861_2008.pdf, possiamo considerare che 40 lire nel 1861 corrispondevano a 175,88 € nel 2008.

Camillo Benso conte di Cavour
Nel 1849 sorge nel Regno di Sardegna, con i governi di Massimo d'Azeglio e dal 1852 di Camillo Benso conte di Cavour, la Destra storica, che governerà il Regno d'Italia fino al 1876. I ministeri della Destra storica, dal primo governo Cavour al governo di Marco Minghetti del 1876, conseguirono importanti risultati, primo fra tutti l'unità d'Italia compiuta nel 1861 e portata a termine nel 1870 con la breccia di Porta Pia e la presa di Roma. Caratterizzata da un deciso intento laico nella gestione dello Stato, libero da orpelli e orientamenti di ordine religioso e da un liberalismo moderato, nel 1882 la Destra storica si trasformerà nel Partito Liberale Costituzionale (PLC) o anche Unione Liberale, mentre la matrice ideologica del raggruppamento della Sinistra storica può definirsi liberale progressista.

Vignetta con la piovra del
clericalismo nelle istituzioni.
Si definirono «clericali», dalla metà dell'800, in Francia e in Belgio, quei cattolici impegnati in politica ed organizzati in movimenti o partiti che si allineavano esplicitamente ai principi espressi dal clero e che cercavano, conseguentemente, di ostacolare e frenare lo sviluppo del libero pensiero e delle libere opinioni nella società civile dello stato laico.

I "clericali" francesi, che erano tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone III, influenzavano pesantemente la sua politica estera e in particolar modo difendevano strenuamente l'indipendenza della sede pontificia e dei suo domini dall'Italia unita, che il Regno di Sardegna cercava di costituire, e che avrebbe voluto Roma capitale.

Napoleone III
Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, meglio noto con il nome di Napoleone III (1808 - 1873), figlio terzogenito del re d'Olanda Luigi Bonaparte (fratello di Napoleone Bonaparte) e di Ortensia di Beauharnais, fu presidente della Repubblica francese dal 1848 al 1852 e Imperatore dei Francesi dal 1852 al 1870. Luigi Napoleone ottenne il potere con delle regolari elezioni, grazie anche alla forte diffusione della sua pubblicazione “L'estinzione della povertà”. Nel febbraio del 1848, dopo la proclamazione della Seconda Repubblica e la nascita di un governo provvisorio, annunziò la propria ricandidatura alle elezioni legislative intermedie del 17-18 settembre 1848 e vinse in cinque dipartimenti e a Parigi, ottenendo oltre 110.000 voti su 247.000 espressi, risultando il candidato più votato e prese il suo posto all'Assemblea Nazionale. Nello stesso mese di settembre, la commissione aveva terminato di redigere una nuova costituzione, caratterizzata dalla presenza di un esecutivo forte e di un presidente eletto per quattro anni con voto popolare, mediante suffragio universale maschile (per la prima volta in Francia). Contestualmente, furono fissate per il 10-11 dicembre le elezioni per la carica di Presidente della Repubblica. Luigi Napoleone annunziò prontamente la sua candidatura alle elezioni presidenziali e nel corso della campagna elettorale fece appello sia a istanze conservatrici, sia a istanze riformiste: infatti, nel suo manifesto elettorale, riaffermò il suo sostegno per la "religione, la famiglia, la proprietà" considerate come "la base eterna di ogni ordine sociale" ma, al contempo, annunciò che avrebbe attuato piani per favorire l'occupazione, garantito pensioni di vecchiaia ai lavoratori e introdotto riforme adeguate che, senza rovinare i ricchi, avrebbero garantito il benessere di tutti. Il 10 e 11 dicembre 1848 si tengono le elezioni presidenziali nella Seconda Repubblica francese, i cui risultati saranno annunciati il 20 dicembre. La dimensione della vittoria di Luigi Napoleone sorprende quasi tutti, ottenendo 5.572.834 voti, pari al 74,2 % dei voti espressi, a fronte di 1.469.156 voti per Cavaignac. Il socialista Ledru-Rollin ricevette 376.834 voti, il candidato di estrema sinistra Raspail, 37.106 voti, il poeta Lamartine 17.000 voti. Luigi Napoleone otteneva il sostegno di ogni ceto: contadini scontenti per l'aumento dei prezzi, lavoratori disoccupati, piccoli imprenditori che volevano prosperità e ordine e anche intellettuali come Victor Hugo. Luigi Napoleone aveva ottenuto il 55,6 % dei voti arrivando primo in tutti i dipartimenti, tranne quattro. In politica estera, Luigi Napoleone inaugurerà la propria presidenza, lui che da giovane si era unito alla rivolta patriottica contro gli Austriaci, sostenendo la spedizione francese (già approvata dal precedente governo) che restaurerà l'autorità temporale del papa Pio IX, deposto dalla Repubblica Romana, che aveva come principale capo politico Mazzini e Garibaldi come comandante militare.

Garibaldi conduce i suoi alla difesa
della Repubblica Romana.
Nel 1849 si instaura a Roma la Repubblica Romana (nota anche con la denominazione di Seconda Repubblica Romana, per non confonderla con quella di epoca napoleonica), nata a seguito dei grandi moti che nel 1848 coinvolsero tutta Europa e che ebbe, come questi ultimi, vita breve: 5 mesi, dal 9 febbraio al 4 luglio. La rivolta interna allo Stato Pontificio, con la fuga di papa Pio IX e l'interruzione dei suoi poteri temporali, fu governata da un triumvirato composto da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini ed Aurelio Saffi, mentre Giuseppe Garibaldi deteneva il comando militare.
Aurelio Saffi
« Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano. » citava l'articolo 1 del Decreto fondamentale della piccola repubblica, che fu stroncata dall'intervento militare della Seconda Repubblica francese, il cui presidente, Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III, per convenienza politica ristabilì l'ordinamento pontificio in disprezzo anche alla costituzione francese.
Carlo Armellini
L'esperienza della repubblica romana fu significativa per coloro che avevano come obiettivo un'Italia repubblicana e vide l'incontro e il confronto di molte figure di primo piano del Risorgimento, accorse da tutta la penisola, fra cui Giuseppe Garibaldi e Goffredo Mameli. In quei pochi mesi Roma passò dalla condizione di Stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova di nuove idee democratiche, ispirate principalmente al mazzinianesimo, fondando la sua vita politica e civile su principi quali, in primis, il suffragio universale maschile (il suffragio femminile non fu preso in considerazione), l'abolizione della pena di morte e la libertà di culto, che sarebbero diventate realtà in Europa solo un secolo dopo.

Fin da 1850, Camillo Benso conte di Cavour si mette in luce per la sua posizione anticlericale, pronunciando un discorso in difesa delle leggi Siccardi, che abolivano il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico, ancora in vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna.

Urbano Rattazzi
La Sinistra storica è lo schieramento politico che governerà il Regno d'Italia dal 1876, anno del primo governo di Agostino Depretis. Il primo leader storico della Sinistra storica fu il piemontese Urbano Rattazzi, il quale nel 1852 realizzò insieme all'allora leader della Destra storica, Camillo Benso di Cavour, il cosiddetto "Connubio". Rattazzi sarà sia Presidente della Camera dei Deputati che Presidente del Consiglio, con i voti sia della Destra, che della Sinistra. La matrice ideologica del raggruppamento di questa sinistra non marxista, può definirsi liberale progressista e, pur non avendo un precedente storico, si rifaceva moderatamente alle idee di democrazia mazziniane e garibaldine.

Nel 1852, nel Regno di Sardegna si era formato il "grande ministero", originato dal “connubio” fra il presidente del Consiglio dei ministri Cavour della Destra storica con Urbano Rattazzi della Sinistra storica, che si proponevano di modernizzare il Piemonte laicizzando lo Stato. Dovettero scontrarsi, nel 1855, con i clericali piemontesi, guidati dal vescovo di Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana, contrario alla soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato al governo, Cavour dovette affrontare un nuovo contrasto con i clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II, a causa del suo tentativo di introdurre il matrimonio civile in Piemonte, che sarà attuato diversi anni dopo.

Il 2 dicembre 1852, dopo un ennesimo colpo di stato, la Seconda Repubblica francese è dichiarata ufficialmente conclusa. Nasce così il Secondo Impero Francese: il Principe-presidente Luigi Napoleone, assume il titolo di Napoleone III (Napoleone II sarebbe stato il figlio prematuramente scomparso di Napoleone) mentre la carta costituzionale repubblicana del 1852 è lasciata in vigore; semplicemente alla parola "Presidente" è sostituita da quella di "Imperatore dei Francesi".

Vignetta sulla laicità.
Nel 1857 compare sul giornale torinese “l'Armonia”, diretto dal giornalista don Giacomo Margotti, l'esortazione diretta ai cattolici: «Né eletti, né elettori».

Il 27 gennaio 1861 per il 1º turno e il 3 febbraio per i ballottaggi, si svolgono nel Regno di Sardegna (che diventerà Regno d'Italia il 17 marzo) le elezioni politiche. Di fatto, hanno diritto al voto pochissime persone, come previsto nella legge elettorale contenuta nello Statuto emanato da Carlo Alberto nel 1848: gli uomini di età superiore a 25 anni, alfabetizzati e che paghino una tassa di 40 lire che attesti il loro censo. Il sistema elettorale è uninominale a doppio turno, per cui risulteranno eletti al primo turno i candidati che abbiano riportato più del 50% dei voti o voti pari ad almeno un terzo degli aventi diritto al voto. Nel caso in cui ciò non si verificasse si terrà un ballottaggio. Su una popolazione di 22.176.477 residenti censiti in quell'anno, (dato ISTAT) gli aventi diritto al voto sono 418.695 uomini, pari all'1,88% della popolazione, di cui votano in 239.583, il 57,2% degli aventi diritto e i voti validi saranno circa 229.760, il 95,9%.
Le prime elezioni politiche del Regno d'Italia sono vinte dalla destra storica, a cui seguirà un governo di Cavour. All'opposizione vanno 80 garibaldini e la sinistra storica.
Leader:     Camillo Benso conte di Cavour          Urbano Rattazzi                           Giuseppe Mazzini
Partito:               Destra storica                             Sinistra storica                             Estrema sinistra
Voti:                circa 110.400, il 46,1 %            circa 48.900, il 20,4 %                  circa 5.500, il 2,3 %
Seggi:                       342 su 443                              62 su 443                                     14 su 443

Giuseppe Mazzini
Il gruppo detto dell'Estrema Sinistra, chiamato anche solo Estrema, che aveva suoi rappresentanti in Parlamento, affondava le sue radici ideali nel filone più laico, democratico e repubblicano del Risorgimento, quello mazziniano e garibaldino, ma con riferimenti propri al pensiero e all'azione di Carlo Cattaneo e di Carlo Pisacane. All'interno di questo gruppo, a cui affluiranno anche i repubblicani e i socialisti, i radicali costituiranno la fazione relativamente più moderata.

L'Italia nel 1861.
Il 17 marzo 1861, in un tumultuoso precipitare degli eventi, è proclamato il regno d'Italia. All'unità d'Italia, Napoleone III fu sentimentalmente favorevole, come lo era - senza sentimento - anche la Gran Bretagna, poiché un'Italia unita avrebbe potuto contrastare la potenza francese. nel 1861 nasce il Regno d'Italia. Durante la costituzione del Regno d'Italia nel 1861, Camillo Cavour dichiarava che il suo ultimo scopo era fare di Roma la capitale definitiva dello Stato. La città apparteneva allo Stato Pontificio che era completamente circondato dal regno di Vittorio Emanuele II. Negli anni seguenti la Questione romana divenne il tema principale della politica estera italiana. Complicava il quadro la forte ingerenza della Francia nelle relazioni tra i due Paesi: Napoleone III era alleato dell'Italia, ma sin dal 1849 una guarnigione francese difendeva Roma da eventuali attacchi italiani. Non meraviglia quindi che, sebbene lo Stato italiano dichiarasse di rinunciare a ogni controllo giurisdizionalistico, tuttavia i tentativi di regolare i rapporti con la Chiesa secondo la formula cavouriana di «Libera Chiesa in libero Stato», effettuati dallo stesso Cavour tramite il suo collaboratore Diomede Pantaleoni, e in seguito dai primi governanti della Destra storica, fallissero per l'intransigenza del rappresentante papale. Non ancora intransigenti ma cattolici di stretta osservanza, tra il 1861 e il 1878 i credenti italiani si appartano dalla vita nazionale e si esprimono su giornali con toni estremamente polemici.
« Lentamente s'instaura quel costume, che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui il cattolico politico ha associazioni professionali..circoli..scuole cui inviare i figli, esclusivamente suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » scrive di quegli anni Arturo Carlo Jemolo, in “Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni”. Mentre restano fuori dal processo di unificazione italiana il Veneto e il Friuli, unite al Regno solo nel 1866, lo Stato Pontificio e alcuni territori irridenti, il Parlamento si divide fra la corrente vicina a quella che era stata la politica e l’ottica di Cavour, e quindi moderata e una componente democratica che ha come modello di riferimento le idee garibaldine e la cultura mazziniana. Queste due realtà, identificate come Destra e Sinistra storica, pur essendo fieramente anti-clericali, erano tuttavia molto lontane dall’essere chiaramente delineate e aggregavano consensi ed esponenti molto eterogenei tra di loro.

Nel 1862 la Questione romana è fonte di tensione costante anche per la politica interna italiana. Giuseppe Garibaldi tenta una spedizione armata verso Roma. Nelle sue intenzioni doveva essere una ripresa della spedizione dei Mille. Partì con i suoi uomini dalla Sicilia, ma venne fermato dall'esercito italiano il 29 agosto sull'Aspromonte: ferito, venne fatto prigioniero e messo agli arresti domiciliari nell'isola di Caprera. L'Italia non vorrà così mettere alla prova l'amicizia col potente vicino francese.

Negli anni successivi il governo italiano si mosse per vie diplomatiche: inizialmente propose alla Francia il ritiro del contingente di stanza nell'Urbe ma la Francia oppose un diniego. Si arrivò così alla Convenzione del 15 settembre 1864. Il Regno d'Italia si impegnò a rispettare l'indipendenza dello Stato Pontificio e a difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno); la Francia acconsentì a ritirare le proprie truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in un'efficiente forza di combattimento. L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva comunque assai popolare, né il Regno rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito nel 1861, da Cavour in persona e diverse furono le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa Città eterna.

Papa Pio IX
Il 1864 è l'anno della nascita in Italia del clericalismo, che coincide con l'emanazione del “Sillabo” di papa Pio IX (1846-1878) che, considerandosi "prigioniero dello stato italiano", condanna ogni aspetto del liberalismo e del modernismo dando vita così al movimento degli «intransigenti» cattolici, che rifiutano di riconoscere il nuovo Regno d'Italia.

Il 22 ottobre (per il 1º turno) e il 29 ottobre (per i ballottaggi) 1865, si svolgono nel Regno d'Italia le seconde elezioni politiche, quando la capitale è stata da poco spostata da Torino a Firenze. Su una popolazione stimata in 24.000.000 di abitanti (nel censimento del 1961, 22.176.477 abitanti e nel 1871, 27.299.883 abitanti, dati ISTAT), hanno diritto di voto 504.265 uomini, il 2,10% della popolazione residente e votano 276.523 persone, il 54,8% degli aventi diritto. La destra storica rivince confermando i governi di Alfonso La Marmora.
Partiti                          voti %
Destra storica               34,5
Sinistra storica              27,8
Estrema sinistra              2,6
Eletti non definibili          1,2
Altri candidati (?)          33,9

Nel 1866 la Chiesa sente la difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione che consente l'elezione di deputati cattolici purché nel formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi divine e della Chiesa"). La Camera ritiene nullo il giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici sarà quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della Chiesa influirà negativamente sulla politica italiana post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei politici italiani del tempo.

Il 10 marzo (per il 1º turno) e il 17 marzo (per i ballottaggi) 1867, si svolgono le terze elezioni politiche nel Regno d'Italia. Su una popolazione stimata in 25.000.000 di residenti, (22.176.477 abitanti censiti nel 1861 e 27.299.883 nel 1871, da dati ISTAT) hanno diritto al voto 504.265 uomini, il 2,017% della popolazione, di cui votano in 276.523, il 54,8% degli aventi diritto. Per effetto dei ballottaggi, pur avendo ottenuto meno voti, la sinistra ottiene più seggi parlamentari della destra e, grazie anche al tradizionale "connubio" fra destra e sinistra il governo sarà affidato, per la seconda volta, a Urbano Rattazzi, della sinistra storica, a cui succederà poi Luigi Federico Menabrea, della destra storica.
Partiti                     % voti      seggi
Destra storica           35,7       151
Sinistra storica          30,1       225
Estrema sinistra          2,7          -
Eletti non definibili       0,7         43
altri candidati             30,8         74
Totale                        100,  su 493 seggi al parlamento.

Il 3 novembre 1867 si combatte la battaglia di Mentana, nel Lazio, uno scontro a fuoco che si svolse quando le truppe pontificie, coadiuvate da un battaglione francese, si scontrarono con i volontari di Giuseppe Garibaldi, diretti a Tivoli per sciogliere la Legione, essendo fallita la presa di Roma per la mancata insurrezione dei romani.

L'invasione francese della Repubblica Romana con la restaurazione di papa Pio IX del 1849, il fallito tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (nel periodo 1862-67) e l'episodio di Mentana, sempre a difesa di papa Pio IX (nel 1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione politica al Clero e ai clericali del regime di Luigi Napoleone III.

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Il 30 gennaio 1870, la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari esprime il parere che non sia conveniente (in latino: “non expedit”) per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche. Si preannuncia quindi, l'allontamento definitivo dei cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica dello Stato italiano. Inoltre il Concilio Vaticano Primo, iniziato nel dicembre del 1869, che si caratterizza principalmente per la definizione del dogma dell'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra in materia di fede e di morale (come avviene il 18 giugno 1870), rende ancora più accentuata la durezza delle posizioni del Clero, anche se ben 55 vescovi "antinfallibilisti", prima della approvazione del dogma si allontanarono dal Concilio che, interrotto dalla presa di Roma, non sarà più ripreso.

I bersaglieri italiani prendono Roma.
Il 20 settembre 1870, dopo varie azioni diplomatiche volte ad acquistare Roma dal Vaticano e approfittando della sconfitta di Napoleone III a Sedan, che aveva difeso militarmente la Roma papale, i bersaglieri prendono militarmente Roma; ne moriranno 45 contro 19 zuavi della guardia pontificia. Si indice quindi un referendum per i romani che devono esprimersi se accettare l'inserimento di Roma nel Regno d'Italia o se rimanere sotto il regno del papa re. I voti a favore dell'appartenenza al Regno d'Italia saranno la larga maggioranza, e il papa, ritiratosi in castel Sant'Angelo lancia un anatema contro i cristiani che collaboreranno con il Regno d'Italia mentre il sentimento nazionale si manterrà fieramente anticlericale.

Il 20 novembre 1870 per il 1º turno e il 27 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le quarte elezioni politiche, poco dopo la Breccia di Porta Pia e la presa di Roma e per questo motivo molti cattolici obbediranno al “non expedit” del papa e non voteranno.
Come previsto dalla legge elettorale emanata da Carlo Alberto nel 1848, hanno diritto al voto pochissime persone e saranno esclusi dal voto: nelle campagne tutti i giornalieri e quasi tutti i piccoli proprietari, mezzadri e fittavoli e nelle città tutti gli operai, quasi tutti gli artigiani e lo strato inferiore delle classi intellettuali. Su una popolazione stimata in 27 milioni di residenti, (27.299.883 censiti nel 1871, dato ISTAT) in 530.018 hanno diritto al voto, pari all'1,96% della popolazione. I votanti sono 240.974, il 45,4% degli aventi diritto.
Partiti                    % voti
Destra storica         37,2
Sinistra storica        28,8
Estrema sinistra        1,9
Eletti non definibili     0,2
altri candidati           31,9
Totale                      100, su 508 seggi al parlamento, ha la maggioranza la destra storica per cui prosegue il governo di Giovanni Lanza.

Decreto del 29 marzo 1871
della Comune di Parigi.
Dal 18 marzo al 28 maggio 1871, si instaura la Comune di Parigi, un governo democratico-socialista conseguente alla sconfitta francese nel conflitto franco-prussiano dove, fra l'altro, si verificano gli eccidi della "settimana di sangue", fra cui l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi, Georges Darboy, che possono essere considerati come effetti del duro scontro, in Francia, tra clericali e anticlericali socialisti.

Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la Legge delle Guarentigie (ovvero Legge delle Garanzie) voluta dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo la presa di Roma del 20 settembre 1870. Respinta da papa Pio IX con l'enciclica “Ubi nos” e mai accettata dalla Santa Sede, rimase tuttavia in vigore per l'Italia sino alla Conciliazione del 1929.

Carlo Cattaneo
Nel novembre 1872 si tiene a Roma il primo congresso dell'Estrema Sinistra italiana, il 13 maggio 1890 si terrà il secondo. L'Estrema Sinistra era rappresentata in Parlamento e affondava le sue radici ideali nel filone più laico, democratico e repubblicano del Risorgimento, quello mazziniano e garibaldino, ma con riferimenti propri al pensiero e all'azione di Carlo Cattaneo e di Carlo Pisacane. All'interno di questo gruppo, a cui appartenevano anche i repubblicani e i socialisti, i radicali costituivano la fazione relativamente più moderata, essendo gli unici a considerare relativo agli eventi il loro programma politico, nell'ambito della vigente monarchia costituzionale.
Il congresso delibera che i punti fondanti del programma dell'Estrema Sinistra sono:
Carlo Pisacane
- completa separazione tra Stato e Chiesa;
- superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
- promozione dell'ideale federale degli “Stati Uniti d'Europa” mutuato da Carlo Cattaneo;
- opposizione al nazionalismo, all'imperialismo e al colonialismo.
- indipendenza della magistratura dal potere politico;
- abolizione della pena di morte;
- tassazione progressiva;
- istruzione gratuita e obbligatoria;
- emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
- suffragio universale per uomini e donne;
- un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
- sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
- riduzione dell'orario di lavoro;
- riduzione del servizio di leva.

Nel 1874 la Santa Sede pubblica la bolla del “Non éxpedit” (in italiano: non conviene), con la quale il pontefice Pio IX dichiara inaccettabile per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche del Regno d'Italia e all'intera vita politica italiana, mentre si costituisce l'Opera dei congressi, che può essere considerata come la nascita di un vero e proprio partito cattolico italiano “clericale”. L'organizzazione rivendica la rappresentanza del "paese reale" contro lo Stato liberale e si assume il compito di coordinare tutte le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico, scolastico e giornalistico.

Marco Minghetti
L'8 novembre 1874 per il 1º turno e il 15 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le quinte elezioni politiche. Su una popolazione stimata in 27.500.000 abitanti (27.299.883 censiti nel 1871 e 28.951.546 nel 1881, da dati ISTAT), gli aventi diritto al voto sono 571.575, pari al 2,078% della popolazione, di cui voteranno 318.517 uomini, il 57,6% degli aventi diritto.
Partiti                       % voti
Destra storica            33,3
Sinistra storica           32,5
Estrema sinistra           1,6
Eletti non definibili        0,1
altri candidati             32,5
Totale                         100, su 508 seggi al parlamento, la destra storica ha una risicata maggioranza e prosegue il secondo governo di Marco Minghetti.

Il collegio elettorale è una suddivisione territoriale che comprende un certo numero di elettori facenti parte del corpo elettorale e permette l'elezione di un solo candidato al Parlamento per ciascun collegio elettorale, quello che ha ottenuto più voti nel caso che sia uninominale, nel collegio plurinominale possono essere eletti più rappresentanti al Parlamento. Il collegio uninominale è generalmente adottato nei sistemi di voto maggioritari, quello plurinominale nei sistemi proporzionali.
Nel caso di collegi uninominali, come è stato per la gran parte delle elezioni politiche del Regno d'Italia, l'appartenenza ad uno o l'altro schieramento politico degli eletti, non è sempre stato trasparente.
Può essere quindi utile consultare: http://legislature.camera.it/_dati/costituente/documenti/ministerocostituente
/p1_Vol2_5.pdf che nella premessa precisa: "Sino alle elezioni del 1919 le nostre statistiche ufficiali elettorali si sono costantemente astenute dal presentare dati numerici sul colore politico dei candidati e degli eletti. Una siffatta classificazione, (si dichiarava nelle varie relazioni) , si può fare soltanto nei Paesi dove le organizzazioni sono ben distinte e salde, mentre invece per l’Italia, in regime di Collegio uninominale, mancano documenti autentici per classificare i candidati, o almeno gli eletti, secondo il colore politico. Però sin dal 1880 studiosi di grande autorità e competenza non approvavano questo silenzio assoluto delle nostre statistiche ufficiali. L’importante compito, abbandonato dalla statistica ufficiale, veniva preso in considerazione da alcuni privati studiosi i quali cercavano di colmare questa lacuna con apposite monografìe, succedutesi quasi ininterrottamente dal 1874 al 1913."

Il 5 novembre 1876 per il 1º turno e il 12 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le seste elezioni politiche. Su una popolazione stimata in 28.000.000 residenti (27.299.883 censiti nel 1871 e 28.951.546 nel 1881, dati ISTAT), gli aventi diritto al voto sono 604.931, pari al 2,16% della popolazione, di cui votano 358.258 uomini, il 61% degli aventi diritto, con il 97,8% di voti validi.
Partiti                                         % voti
Ministeriali (Sinistra storica)          56,0
Opposizione (Destra storica)        12,4
Estrema sinistra                              1,5
Altri candidati                                30,1
Agostino Depretis
Totale                                            100, su 508 seggi al parlamento. Le elezioni del 1876 portano alla vittoria la sinistra storica e con il governo di Agostino Depretis giunge la fine della fase dei governi della destra storica, che durava dal 1861, intervallata solo da due brevi governi di Urbano Rattazzi. Depretis formerà un governo che, oltre all'appoggio della Sinistra, si reggerà anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Il governo Depretis sposta la sinistra storica verso l'ala conservatrice del parlamento, incontrando i moderati più progressisti, che erano stati inglobati all'interno di una più grande coalizione. Lentamente sono estromessi gli esponenti più progressisti della Sinistra, dando vita ad un Grande Centro, che monopolizza la vita politica del Paese, lasciando a pochi partiti minori il ruolo di opposizione di estrema sinistra. Questa politica, in cui la dialettica e la differenza ideologica fra le ali del Parlamento vengono sfumando, è detta “trasformismo”, e sarà resa possibile dalla riforma elettorale del 1882. Il nuovo governo adotterà provvedimenti anticlericali, condivisi sia dalla Destra che dalla Sinistra, come l'insegnamento religioso facoltativo nelle scuole elementari, l'esclusione del clero dalle commissioni scolastiche e il controllo diretto dello Stato sulle opere pie.

Simbolo del partito
radicale italiano.
Il 26 maggio 1877 viene fondato, di fatto, dall'esponente radicale repubblicano Agostino Bertani, il partito dell'Estrema sinistra, o Partito della "democrazia" o, più semplicemente dell'Estrema radicale, che ha cominciato a essere concepito dopo la sconfitta di Mentana del 1867 e lo scioglimento del Partito d'Azione mazziniano. In analogia con i termini destra storica e sinistra storica, riferiti ai partiti dell'epoca, il partito dell'Estrema sinistra viene indicato come Estrema sinistra storica o Partito radicale storico, in modo da scongiurare possibili confusioni con omonimi partiti d'ispirazione affine, ma appartenenti alla storia della seconda metà del XX secolo. Si dissolverà il 26 aprile 1922 con la confluenza nel Partito Democratico Sociale Italiano. 

Nel 1878, dopo la morte di papa Pio IX gli succede papa Leone XIII (1878-1903) che mostra fin dall'inizio del suo pontificato, attenzione ai problemi sociali, al mondo del lavoro e dei suoi conflitti (vedi “Rerum Novarum”), per cui sembra potersi delineare un'attenuazione dello scontro tra Chiesa e Stato.

Il 16 maggio 1880 per il 1º turno e il 23 maggio per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le settime elezioni politiche, in cui hanno diritto al voto 622.743 uomini su 28.951.546 residenti censiti in quell'anno (dato ISTAT), il 2,15% della popolazione, di cui votano in 358.250, il 62,6 degli aventi diritto e i voti validi saranno il 97,2%.
Partiti                                          % voti
Ministeriali (Sinistra storica)          46,7
Opposizione (Destra storica)        20,7
Estrema sinistra                              1,7
Altri candidati                                30,8
Totale                                            100, su 508 seggi al parlamento, si conferma la maggioranza della sinistra e prosegue il terzo governo di Benedetto Cairoli.

Il 10 marzo 1882 il governo italiano acquisisce ufficialmente il possedimento etiopico di Assab (nella futura Eritrea, acquistato nel 1.869 per il governo italiano dalla compagnia genovese Rubattino) che il 5 luglio dello stesso anno diventa ufficialmente italiano. Con i governi di sinistra di Agostino Depretis e in seguito di Francesco Crispi, la politica italiana si rivela decisamente colonialistico-aggressiva e si organizzeranno almeno tre tentativi ufficiali del governo per l'acquisizione di porti nel mar Rosso, che possano fungere da base verso un futuro impero coloniale in Asia o in Africa.

Nel 1882, il quarto governo Depretis, della sinistra storica salita al potere nel 1876, con una riforma elettorale estende il diritto di voto ai cittadini che abbiano compiuto 21 anni e che abbiano superato con buon esito i primi due anni della scuola elementare, in breve che siano alfabetizzati. Inoltre si adotta il sistema dei collegi plurinominali, scelta che si riproporrà anche nelle elezioni del 1886 e del 1890, abbandonando temporaneamente il sistema dei collegi uninominali.

Nel 1882 la Destra storica si trasforma nel Partito Liberale Costituzionale (PLC) o anche Unione Liberale.

Il 29 ottobre 1882 per il 1º turno e il 5 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le ottave elezioni politiche per cui il governo Depretis, della sinistra storica, aveva elaborato una nuova legge elettorale: l'età di accesso al voto è abbassata da 25 a 21 anni ed il requisito di censo cala da 40 a 19,8 lire di tasse da pagare. Inoltre, coloro che hanno superato l'esame di terza elementare (e quindi sono alfabetizzati) non sono soggetti al requisito di censo. Il risultato è l'allargamento del suffragio da circa 620.000 di uomini a oltre 2 milioni di aventi diritto al voto. Inoltre è cambiato il meccanismo di elezione, i collegi uninominali sono sostituiti da collegi plurinominali, ai quali è attribuito un numero di seggi variabile tra 2 e 5. L'elettore ha diritto a tanti voti quanti sono i seggi, con l'eccezione dei collegi da 5 seggi, nei quali l'elettore dispone solo di quattro voti. I candidati risultano eletti al primo turno se riportavano la maggioranza assoluta dei voti, con un numero di voti almeno pari ad un ottavo degli aventi diritto. In caso contrario, è necessario un ballottaggio al quale accede un numero di candidati pari al doppio dei seggi da attribuire. Su una popolazione stimata in 29.200.000 residenti (28.951.546 residenti censiti nel 1881, dato ISTAT), hanno diritto di voto 2.017.829 uomini, pari al 6,91% della popolazione, di cui votano in 1.223.851, il 60,7%.
Partiti                                            % voti       seggi
Ministeriali (Sinistra storica)             39,8        331
Opposizione (ex Destra storica)       19,0        144
Estrema sinistra                                 4,6          33
Altri candidati                                   36,6           -
Totale                                               100,   su 508 seggi si conferma la maggioranza della sinistra e proseguono i governi di Depretis. Il notevole aumento degli aventi diritto al voto non muta lo scenario parlamentare.

Quando nel 1.884 il Khedivato si ritira dal Corno d'Africa, i diplomatici italiani stipulano un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua, che assieme ad Assab formeranno i cosiddetti “Possedimenti italiani nel Mar Rosso”, la futura Eritrea. Massaua diventa la capitale provvisoria del possedimento d'oltremare e il controllo italiano si estende nell'entroterra. L'occupazione italiana di Massaua segna l'inizio di una lunga e dispendiosa guerra contro l'Etiopia, in cui la finale annessione dell'Eritrea e della Somalia non potranno compensare le enormi spese militari che ritarderanno inevitabilmente il decollo industriale italiano: quel cattivo utilizzo dei capitali avrà inevitabili ripercussioni in tutto il paese.

Nel 1885, in un'Enciclica il papa raccomanda ai cattolici europei di partecipare alla vita politica dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat) per ragioni grandissime e giustissime»... Cioè quello che era consentito ai paesi cattolici europei, non lo era però per l'Italia.

Carta dell'Eritrea, colonia italiana.
Per i governi di Crispi, il porto della città di Massauadiventerà il punto di partenza per un progetto che avrebbe dovuto sfociare, con la spedizione italiana del Mar Rosso del 1885, nel controllo dell'intero Corno d'Africa, con inclusa la Somalia, zona abitata da popolazioni etiopiche, dancale, somale e oromo, autonome o sottoposte formalmente a diversi dominatori: vari sultanati (Harar, Obbia e Zanzibar i più importanti), emiri e capi tribali.

Nel 1886, una circolare del Sant'Uffizio recita così: «A togliere ogni equivoco, udito il parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il “Non expedit” contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.»

Il 23 maggio 1886 per il 1º turno e il 30 maggio per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le none elezioni politiche. Grazie alla riforma elettorale del 1882, gli aventi diritto al voto sono 2.420.317 su una popolazione stimata in 30 milioni di residenti (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), l' 8,067% della popolazione, di cui votano 1.415.801 uomini, il 58,5%.
Partiti                                               % voti      seggi
Ministeriali (Sinistra storica)                57.5        292
Opposizione (ex Destra storica)          27.9        142
Estrema sinistra                                    8.8          45
Dissidenti di sinistra                                             26
Si conferma la maggioranza della sinistra e prosegue il settimo governo Depretis.
Francesco Crispi

Dopo Depretis, la figura cardine della politica italiana dal 1887 al 1896 è Francesco Crispi, della sinistra storica. Il modello della sua politica sarà la Germania di Bismarck, dove le tensioni sociali fra la classe operaia e la borghesia sembrano equilibrate. Sotto il suo governo la politica coloniale sarà ripresa con più vigore, reprimerà nel sangue la rivolta dei fasci operai in Sicilia e scioglierà il Partito Socialista, fondato da Turati a Genova nel 1892. Tuttavia emana una serie di riforme sociali quali la riduzione della giornata lavorativa e la prima legge sull'assistenza sociale, passata alla storia proprio come "legge Crispi".

Il 2 maggio 1889 Menelik II, incoronato nuovo imperatore d'Etiopia, firma con il regno d'Italia un equivocato trattato di pace. A seguito della sconfitta e della morte del Negus Neghesti (Re dei Re), Giovanni IV, in una guerra contro i dervisci sudanesi, l'esercito italiano di stanza a Massaua occupa una parte dell'altopiano etiopico, compresa la città di Asmara, sulla base di precedenti accordi intrapresi con Menelik, quando era ancora Negus del sud etiopico il quale, con la morte del rivale, era riuscito a farsi riconoscere come il nuovo Negus Neghesti. Con il trattato che ne segue, Menelik accetta la presenza degli italiani sull'altopiano e riconosce di utilizzare l'Italia come canale di comunicazione preferenziale con i paesi europei. Quest'ultimo riconoscimento viene interpretato dagli italiani (e tradotto dalla lingua amarica di conseguenza) come l'accettazione di un protettorato italiano, ma per i cinque anni seguenti, quella interpretazione del trattato di pace sarà fonte di discordie fra i due paesi. Intanto nell'area meridionale somala l'Italia ottiene dei protettorati tramite un accordo da parte del console italiano di Aden (nella penisola arabica) con i rispettivi governanti dei sultanati, che rappresenteranno i germi di quella che sarà la Somalia Italiana (dal 1.889 al 1.908 un protettorato e dal 1.908 una colonia italiana).

Nel 1890, nel Regno d'Italia, il dislivello di analfabetismo tra Nord e Sud produce diverse percentuali di aventi diritto al voto, pari al 10,4% della popolazione nell’Italia settentrionale, l’8,2 nell’Italia centrale, il 7,7 nell’Italia meridionale e il 7,6 nelle isole. Rimangono escluse dal voto, nel nord e nel centro Italia, vaste zone della popolazione artigiana, operaia e rurale, ancora analfabete, e nell’Italia meridionale la quasi totalità dell’artigianato, dei piccoli coltivatori e del proletariato rurale. Cresce l’influenza politica delle città, meglio provviste di scuole elementari in confronto alle campagne. Cresce così il peso del Nord alfabetizzato rispetto al Sud prevalentemente analfabeta.

Il 23 novembre 1890 per il 1º turno e il 30 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le decime elezioni politiche in cui, su una popolazione stimata in 31 milioni di residenti (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), hanno diritto al voto 2.934.000 uomini, il 9,46% della popolazione, di cui voteranno in 1.639.000, il 55,8% degli aventi diritto.
Partiti                                           % voti
Ministeriali (Sinistra storica)            58,1
Opposizione (ex Destra storica)       6,9
Estrema sinistra                               6,9
altri candidati                                  28,1
Totale                                              100
Si riconferma il successo della sinistra e prosegue il governo di Francesco Crispi.

Nel febbraio 1891 si verifica la prima vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza su una proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese è affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 è nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora facente parte del gruppo crispino.
Come neo-presidente del Consiglio, Giolitti si trova a dover affrontare prima di tutto l'ondata di diffuso malcontento che la politica crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. 

Partito Socialista Italiano
Nell'agosto del 1892, a Genova, viene fondato il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo ingloba anche il Partito socialista rivoluzionario, assumendo prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani e poi, dal 1895 quello di Partito socialista italiano, il primo partito di sinistra marxista. Già all’inizio degli anni 80 dell’Ottocento, il movimento operaio italiano comincia a dotarsi di organizzazioni politiche, dal Partito socialista rivoluzionario di Romagna di Andrea Costa al Partito operaio italiano di Giuseppe Croce e Costantino Lazzari. Sulla base di quest’ultima esperienza, e più ancora della Lega socialista milanese di Filippo Turati, a Genova, nell’agosto 1892, viene fondato il Partito dei lavoratori italiani. Il Partito socialista italiano (PSI) verrà sciolto, dopo la fase craxiana, nel 1994.

Il 6 novembre 1892 per il 1º turno e il 13 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le undicesime elezioni politiche in cui, su una popolazione stimata in 31 milioni di residenti (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), hanno diritto al voto 2.934.000 uomini, come per 1890, quindi, il 9,46% della popolazione, di cui voteranno in 1.639.000, il 55,8% degli aventi diritto. Con le elezioni del 1892 si abbandona il sistema dei collegi plurinominali adottato nelle elezioni del 1882, 1886 e 1890 e si torna al sistema precedentemente in vigore dei collegi uninominali.
Partiti                                         %voti
Ministeriali (Sinistra storica)         51,2
Opposizione (ex Destra storica)   11,5
Estrema sinistra                             6,9
Altri candidati                               30,3
Totale                                            100
Nonostante la flessione, la sinistra storica conserva la maggioranza parlamentare e prosegue il primo governo di Giovanni Giolitti, appartenente al gruppo di Crispi nella sinistra storica.

Emile Zola pubblica la sua accusa.
Nel 1894, in Francia deflagra l'”affaire Dreyfus”, la cui accusa era sostenuta anche dai clericalisti antisemiti, organizzati nello squadrismo dell'”Action française”, sintomo che, alla fine dell'Ottocento, in Francia era forte la presenza di una Chiesa conservatrice contrapposta ad intellettuali laici, progressisti ed in parte massoni.

Nel 1894 avviene la feroce repressione dei Fasci Siciliani da parte del governo della sinistra storica di Francesco Crispi. I tumulti dei giornalieri siciliani e il diffondersi del movimento socialista nell’Italia settentrionale e centrale sollevano un’andata di panico fra le classi benestanti. Una nuova legge elettorale dispone una “epurazione straordinaria” delle liste elettorali e il numero degli elettori scende a 2.160.000, per paura dell'avanzata del socialismo.

Dal 1894 il termine “clericale” si diffonde in Spagna ed in Italia, meno in Germania e per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società civile. All'interno del partito clericale italiano nasce una corrente che riflette l'azione sociale della Chiesa, specie nelle campagne, dove si organizzano società cattoliche di mutuo soccorso, cooperative di consumo contadine e sindacati bianchi.
Don Romolo Murri
E' la nuova corrente della Democrazia Cristiana, che chiede che la sua azione sociale trovi legittima rappresentanza e valido riconoscimento nel parlamento italiano, poiché senza politici che la tutelino, l'organizzazione sociale cattolica non potrebbe sperare di sostenersi.
Per questi obiettivi si batterono don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo, subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia romana. Se prima non si fosse risolto il problema del rapporto Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si sarebbe potuta affrontare la questione sociale e politica.

Partito Repubblicano Italiano,
immagine di Marcus Schmoeger.
Il 21 aprile 1895, a Bologna, viene fondato, tra gli altri, da Giuseppe Gaudenzi, il Partito Repubblicano Italiano (PRI), che ha mantenuto immutati nome, simbolo (una foglia di edera) e basi ideologiche, facilmente riconducibili, come riportato nello Statuto del partito, al repubblicanesimo di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Cattaneo ai quali si aggiungeranno poi Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Inizialmente ancorato a posizioni di sinistra non marxista, fortemente anti-monarchico e anticlericale, nel corso degli anni ha assunto tratti laici e liberal democratici.

Il 26 maggio 1895 per il 1º turno e il 2 giugno per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le dodicesime elezioni politiche che, per effetto della riduzione del numero degli elettori disposto dalla riforma elettorale del 1894 (con il governo Crispi), per paura dell'avanzata del socialismo, vede in 2.120.000 gli aventi diritto al voto, su una popolazione di residenti stimata in 32 milioni (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), per cui ha diritto al voto solo il 6,62% della popolazione, di cui i votanti sono 1.251.000 uomini, il 59,0% degli aventi diritto.
Andrea Costa
Partiti                                                              % voti             seggi
Ministeriali (Sinistra storica)                              65,75              334
Opposizione costituzionale (ex Destra storica) 20,47              104
Partito Radicale                                                  9,25                47
Partito Socialista Italiano                                     6,8                 15
Altri                                                                    1,58                  8
Totale                                                                 100           su 508 seggi. Queste elezioni, il cui esito permetterà di far proseguire il quarto governo di Francesco Crispi, della sinistra storica, nonostante il restringimento degli aventi diritto al voto, faranno entrare per la prima volta in Parlamento degli esponenti del Partito Socialista Italiano.

Nel 1895, l'Italia scatena la prima guerra italo-abissina contro l'Etiopia, attaccandola dai suoi territori in Eritrea e Somalia. Le differenti interpretazioni del trattato di pace stipulato nel 1.889, posero le basi per lo scoppio di un conflitto e la successiva avanzata italiana in Abissinia (o Etiopia), ma la pronta reazione delle truppe abissine costrinse inizialmente l'Italia alla resa. Dopo questa prima sconfitta, l'Italia subisce, il 1º marzo 1896, la definitiva e pesante disfatta di Adua, nella regione del Tigrai (o Tigré) dove i 15.000 soldati del generale Oreste Baratieri sono travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik II.
La battaglia di Adua in un celebre dipinto etiope.
Il 26 ottobre 1896 si conclude la pace di Addis Abeba, con la quale l'Italia rinuncia alle sue mire espansionistiche in Abissinia. La disfatta provoca forti reazioni in tutta Italia, dove c'è chi propone un immediato rilancio del progetto coloniale e chi, come una parte del partito socialista, propone di abbandonare immediatamente le imprese colonialiste.

La disfatta di Adua segna la fine della Sinistra storica, con le dimissioni di Crispi da presidente del consiglio, anche se si continuerà a parlare di questo schieramento politico successivamente.

Il 1896 segna l'inizio della "crisi di fine secolo" che sfocerà nell'età giolittiana che inizierà nel 1903, quando Giolitti ritornerà Primo Ministro: un periodo di recessione economica che contribuirà all'aumento della tensione sociale e politica, che si tradurrà nella successione di 11 governi (tra cui quelli autoritari di Luigi Pelloux) in appena 10 anni.

Il 21 marzo 1897 per il 1º turno e il 28 marzo per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le tredicesime elezioni politiche in cui, su una popolazione stimata in 32 milioni di residenti (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), hanno diritto di voto 2.458.388 uomini, il 7,68% della popolazione, di cui votano in 1.241.486, il 50,5% degli aventi diritto.
Partiti                                                                  % voti     seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica)                             64,37     327
Opposizione costituzionale (ex Destra storica)     19,49      99
Partito Radicale                                                     8,27       42
Partito Repubblicano Italiano                                 4,92       25
Partito Socialista Italiano                                        3,00       15
Totale                                                                     100   su 508 seggi parlamentari. Il governo sarà guidato da Antonio Di Rudinì, della destra storica, mentre dal 24 maggio 1899 al 24 giugno 1900, sarà il governo militare di Luigi Pelloux a reggere il potere esecutivo, giustificato dalle rivolte scoppiate tra il 1898 e il 1899, a causa della fame e della disoccupazione.

Nella crisi di fine secolo si manifestano le conseguenze sul piano sociale della politica protezionistica, come dimostrano i fatti di piazza del Duomo a Milano del maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris non esita a sparare con i cannoni ad alzo zero sulla folla che chiedeva "Pane e lavoro" durante la protesta dello stomaco. Si era infatti verificato un ulteriore aumento del prezzo del grano a causa delle diminuite esportazioni dagli Stati Uniti, impegnati allora nella guerra per Cuba. Sarebbe bastato togliere la tariffa protettiva, ma ormai la classe dirigente italiana era terrorizzata dal socialismo e preferiva ricorrere all'intervento repressivo del Regio Esercito.

Antonio Di Rudinì
Nel 1898 avviene la feroce repressione dei moti popolari, orchestrata dal governo della destra di Antonio Di Rudinì. A Milano in particolare, a seguito dell'aumento del prezzo della farina e del pane, il cui costo cresceva da anni, il popolo insorse ed assaltò i forni del pane. La situazione economica era grave, tanto che nell'arco dei precedenti quarant'anni, circa 519.000 lombardi erano emigrati. L'insurrezione milanese, passata alla storia come la "protesta dello stomaco", durò dal 6 al 9 maggio 1898 e fu repressa nel sangue da reparti dell'esercito comandati dal generale Fiorenzo Bava-Beccaris. Nella repressione militare vi furono, secondo i dati ufficiali (sicuramente sottostimati, dato che testimoni oculari parleranno di circa 300 vittime), ottanta persone uccise, di cui solo due tra la forza pubblica, e quattrocentocinquanta feriti, dei quali ventidue militari. Tra le vittime vi erano anche vari mendicanti che si trovavano in fila per ricevere la minestra dei frati in via Monforte, sui quali si sparò col cannone. Bava Beccaris, per tale azione di ordine pubblico, fu insignito con la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia dal re Umberto I, il quale per l'occasione inviò a Bava Beccaris un telegramma, reso pubblico, in cui scriveva fra l'altro che l'onorificenza gli era conferita «per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria». Inoltre Umberto I lo nominò senatore un mese dopo, con un decreto reale del 16 giugno 1898.
Gaetano Bresci
Gaetano Bresci intendeva vendicare l'eccidio e fare giustizia., e perciò decise di ritornare in Italia dagli USA con l'obiettivo di uccidere re Umberto, ritenendolo responsabile massimo di quei tragici avvenimenti.

Luigi Pelloux
Dal 24 maggio 1899 al 24 giugno 1900, sarà il governo militare del generale Luigi Pelloux a reggere il potere esecutivo, giustificato dalle rivolte scoppiate tra il 1898 e il 1899, a causa della fame e della disoccupazione.

Il 3 giugno 1900 per il 1º turno e il 10 giugno per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le quattordicesime elezioni politiche che, su una popolazione stimata in 32.750.000 residenti (28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT) assegna il diritto di voto a 2.568.388 uomini, il 7,84% della popolazione, di cui i votanti sono 1.497.970, il 58,3%.
Partiti                                                                 % voti          seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica)                            58,27           296
Opposizione costituzionale (ex Destra storica)    22,83           116
Partito Radicale                                                    6,69             34
Partito Socialista Italiano                                       6,50             33
Partito Repubblicano Italiano                                5,71             29
Totale                                                                    100        su 508 seggi parlamentari. Con il governo di Giuseppe Saracco, torna al potere la sinistra storica.

Il il 29 luglio 1900 si compie l'assassinio di re Umberto I per mano dell'anarchico Gaetano Bresci e salirà così al trono del Regno d'Italia Vittorio Emanuele III, evento a cui i governi della sinistra faranno coincidere un periodo di rapido miglioramento sociale, destinando le risorse alla crescita nazionale e non alle iniziative militari coloniali.

Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di Giolitti alla Camera, emblematico della sua ideologia, contribuisce alla caduta del governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova, ed è in questo primo confronto con le parti sociali che si evidenzia la ventata di novità che Giolitti porta nel panorama politico dei cosiddetti "anni roventi": non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e quindi degli scioperi, purché non violenti né politici (possibilità, fra l'altro, secondo lui ancora piuttosto remota in quanto le agitazioni nascevano tutte da disagi di tipo economico). Come da lui stesso sottolineato nel suo discorso in Parlamento in merito allo scioglimento, in seguito ad uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, sono da temere massimamente le proteste violente e disorganiche, effetto di naturale degenerazione di pacifiche manifestazioni poiché represse con la forza: «Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza».
Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ha una notevole influenza che va oltre quella della sua carica di ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del Consiglio.

Gaetano Salvemini
Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902 sia nel settore agricolo che in quello industriale, sia nel più sviluppato Nord che nel Sud del paese, dimostravano che tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano ad incidere sulla precaria situazione della società italiana, soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e presa in considerazione solo come un serbatoio di voti da ottenere con la corruzione dei deputati meridionali, gli "àscari" del governo, con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra. Gli intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini, non si stancavano di accusare Giolitti, definito il "ministro della malavita".

Erano ancora valide, nel mondo cattolico, le dichiarazioni di papa Pio IX (papa dal 1846 al 1878) sulla "non convenienza" (non expedit) della partecipazione dei fedeli all'attività politica del Regno d'Italia, anche se l'ambiente delle associazioni cattoliche laicali, come la Democrazia Cristiana, era in costante movimento. All'interno dell'Opera dei Congressi, la principale associazione cattolica italiana, divenne egemone il gruppo di don Romolo Murri, che sosteneva la necessità di preferire l'accordo tattico con i socialisti piuttosto che appoggiare i liberali. Per i democristiani, il muro del “non expedit” sembrava potesse incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di costumi semplici e popolari. Nel 1903 compare invece sull'”Osservatore Romano” una nota ufficiale così redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri giornali riguardo all'abolizione del “Non expedit”, essendo esse assolutamente prive di fondamento

Il 3 novembre 1903 Giolitti ritorna al governo deciso ad una svolta radicale: si oppone, come aveva già fatto, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fa dalle file della Sinistra e non più dal gruppo crispino della sinistra storica come in precedenza. L'età giolittiana sarà caratterizzata da una notevole crescita economica e sociale, e si svolgerà nell'ultima parte di quel periodo chiamato, a livello internazionale, Belle Époque. Ebbe anche, sul finire, la ripresa del colonialismo italiano con la guerra di Libia. Giolitti si può definire un liberale progressista o un conservatore illuminato, sapeva adattarsi, cercando di padroneggiarla, alla variegata realtà politica italiana. Egli disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito. Egli dunque era convinto di dover governare un paese "gobbo" che non aveva intenzione di "raddrizzare" ma realisticamente governare per quello che era. La sua attenzione si rivolse al partito socialista, per trasformarlo da avversario a sostegno delle istituzioni ed allargare nello stesso tempo le basi dello stato, e ai cattolici, che volle fare rientrare nel sistema politico.
Giovanni Giolitti può essere considerato il primo vero architetto dell'edificio sociale italiano, anche se più dedito agli interessi del Nord a discapito di quelli del Sud Italia.
Il cambiamento di prospettiva politica perseguito da Giolitti, gli consente di realizzare un po' più agevolmente quelle trasformazioni che si era proposto già nel all'epoca del suo primo mandato nel 1882: conciliare gli interessi della borghesia con quelli dell'emergente proletariato (sia agricolo che industriale). A questo proposito Giolitti è il primo a proporre l'entrata nel suo governo come ministro al socialista Filippo Turati, che rifiutò, convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. Tuttavia, nonostante l'opposizione della corrente massimalista, in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò dall'esterno il governo Giolitti che in questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi a condizione che non turbassero l'ordine pubblico. Nelle gare d'appalto furono inoltre ammesse le cooperative cattoliche e socialiste. L'apertura nei confronti dei socialisti, insomma, fu una vera e propria costante di questa fase di governo: Giolitti programmava, infatti, di estendere il consenso nei riguardi del governo presso queste aree popolari, e in particolare presso quelle aristocrazie operaie che, grazie ad una migliore retribuzione salariale e, quindi, a un migliore tenore di vita, raggiungevano il reddito minimo che consentiva il diritto di voto. Giolitti era infatti convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché da un lato non avrebbe consentito ai lavoratori di condurre una vita dignitosa, dall'altro avrebbe strozzato il mercato provocando una sovrapproduzione.
Come hanno fatto notare alcuni storici, la posizione di Giolitti si definiva in ragione della forza organizzata raggiunta dal PSI e dalla CGL, che l'uomo politico piemontese considerava due pilastri da cooptare in funzione della stabilità dell'ordine costituito. Al nord il tentativo si concretizzò, nel tentativo di creare uno strato di classe lavoratrice riformista e almeno parzialmente appagata dal sistema, anche attraverso la concessione di un numero sempre più significativo di appalti e lavori pubblici alle cooperative socialiste.

Dal 27 al 30 maggio 1904 si costituisce ufficialmente il Partito Radicale Italiano nel corso del I Congresso Nazionale, a Roma. All'epoca il leader era Ettore Sacchi che, progressivamente, condusse il partito alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell'età giolittiana nel periodo 1903-1914. Contemporaneamente, un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, sarà per molti anni alla Presidenza della Camera dei deputati nel periodo 1904-1919. Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti, i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all'invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla Presidenza della Camera. Dopodiché, tra il 1904 e il 1905, parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II; successivamente, non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche, contribuirono alla sua caduta.

Il 28 luglio 1904 il papa Pio X (1903-1914) decide di sciogliere l'associazione Opera dei Congressi, dove i "sovversivi" di don Romolo Murri, sensibili alle tematiche sociali, avevano acquistato la maggioranza. Un altro sacerdote, don Luigi Sturzo, che si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, si adegua alla decisione pontificia in attesa di tempi migliori.
Giovanni Giolitti
Nello stesso anno la corrente moderata del clericalismo, organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica realizza accordi prelettorali con candidati liberali moderati, in maggioranza giolittiani. Giovanni Giolitti, in difficoltà dopo lo sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti, aveva infatti deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti, e in quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali avrebbero ottenuto il voto dei cattolici ma si sarebbero impegnati a non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero. Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati cattolici no, cattolici deputati sì.», anche se non la pensavano così i cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.»
Lo stesso papa Pio X si mostra favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali o la nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a divisioni nella Chiesa, preferisce quello per lui minore, per cui apprezza l'intento del conte Vincenzo Gentiloni e dei cattolici vicini al suo orientamento, a schierarsi con la monarchia e con i liberali giolittiani, per fermare l'avanzata socialista, marxista e anarchica.

Il 6 novembre 1904 per il 1º turno e il 13 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le quindicesime elezioni politiche, nelle quali il papa Pio X consente delle eccezioni al “non expedit”, permettendo anche ai cattolici di partecipare alle elezioni, per la prima volta dal 1868, e ne risulteranno eletti tre deputati cattolici. Su una popolazione stimata in 35.500.000 residenti (32.963.316 censiti nel 1901 e 35.841.563 nel 1911, dati ISTAT) hanno diritto di voto 2.541.327 uomini, il 7,158% della popolazione, di cui voteranno in 1.593.886, il 62,7% degli aventi diritto.
Partiti                                                                     % voti          seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica)                                66,73            339
Opposizione costituzionale (ex Destra storica)        14,96             76
Partito Radicale Italiano                                            7,28              37
Partito Socialista Italiano                                           5,70              29
Partito Repubblicano Italiano                                    4,72              24
Cattolici                                                                     0,59               3
Totale                                                                         100        su  508 seggi parlamentari. Con la vittoria della sinistra storica, prosegue il secondo governo Giolitti.

Eritrea e Somalia colonie del
Regno d'Italia.
Nel 1905 il governo italiano assume direttamente la responsabilità di creare una colonia nel sud della Somalia, a seguito delle accuse rivolte all'italiana Società del Benadir di aver tollerato o addirittura collaborato alla perpetuazione della tratta degli schiavi. L'organizzazione amministrativa venne affidata al governatore Mercantelli, che organizza la colonia nelle sei suddivisioni amministrative di Brava, Merca, Lugh, Itala, Bardera e Jumbo.

Durante il suo III mandato (dal 29 maggio 1906) Giolitti continua essenzialmente la politica economica già avviata nel suo secondo governo, e si preoccupa di risanare il bilancio dello Stato, con una più equa ripartizione degli oneri sociali, aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni del Novecento. Il governo poté dare il via nel 1906 alla conversione della rendita nazionale, diminuendo il tasso d'interesse dal 5% al 3,75% dando la possibilità, a chi non avesse accettato la diminuzione della rendita, di poter ottenere l'intero rimborso dei capitali sottoscritti; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello Stato. Questa era, in realtà, un'operazione rischiosa, perché, per quanto si potesse prevedere un limitato panico tra i creditori dello Stato, le richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto, comunque, ebbe successo perché queste furono assai limitate e la possibilità della bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu possibile perché la conversione della rendita provocò una generale diminuzione del costo del denaro, che consentì di ottenere crediti ad un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò un nutrito consenso. Questa riduzione dei tassi d'interesse favorì l'industria pesante, che risultava ancora arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che sarebbero stati necessari a modernizzarla.
La lira godeva di una stabilità mai prima raggiunta al punto che sui mercati internazionali la moneta italiana era quotata al di sopra dell'oro e addirittura era preferita alla sterlina inglese.

Nel 1907 prosegue l'orientamento papale a preservare il patrimonio di valori tradizionali del mondo cattolico e nel decreto “Lamentabili sane exitu” del 1907, Pio X condanna 65 proposizioni moderniste, decretando subito la condanna al modernismo nell'enciclica “Pascendi dominici gregis”. Nello stesso anno, don Murri è sospeso a divinis e diventerà deputato nelle file dei radicali.

Vincenzo O. Gentiloni
Nel 1909 papa Pio X, promuove la creazione dell'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale con il compito di indirizzare i cattolici italiani impegnati in politica, e pone il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni alla direzione dell'organismo. Il primo banco di prova della collaborazione tra UECI e i liberali moderati di Giolitti, saranno le elezioni politiche di quell'anno.

Le elezioni politiche del 1909 sono il primo banco di prova della collaborazione tra UECI e moderati, dove diversi cattolici si candidano nelle liste liberali e in cui saranno eletti 21 "deputati cattolici" nelle liste liberali di Giolitti. 
Il 7 marzo 1909 per il 1º turno e il 14 marzo per i ballottaggi, si svolgono le sedicesime elezioni politiche nel Regno d'Italia. Su una popolazione stimata in 35 milioni di residenti (32.963.316 censiti nel 1901 e 35.841.563 nel 1911), gli aventi diritto al voto sono 2.930.473, l'8,37% della popolazione, di cui votano 1.903.687 uomini, il 65,0% degli aventi diritto.
Filippo Turati
Partiti                                                              % voti             seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica)                          61,4                306
Opposizione costituzionale (ex Destra storica)  10,8                  60
Partito Radicale Italiano (del 1904/22)                6,5                  55
Partito Socialista Italiano                                     7,4                  39
Partito Repubblicano Italiano                              2,7                  22
Cattolici                                                               3,8                  26
Totale                                                                 100             su 508 seggi parlamentari. Grazie anche ai voti dei cattolici, Giolitti e i socialisti riformisti di Filippo Turati conseguono una chiara vittoria elettorale, ma l'ingresso dei cattolici produce un'accentuazione in senso conservatrice della politica italiana, mentre il partito liberale avrebbe dovuto uscire dal suo moderatismo, che non soddisfaceva più le classi sociali contrapposte, che si andavano estremizzando. L'11 dicembre, al terzo governo Giolitti, della sinistra storica, subentrerà il secondo governo Sonnino, della destra storica.

Il nazionalismo italiano affonda le proprie radici nell'esperienza del Risorgimento. Nella seconda metà degli anni sessanta dell'Ottocento assumerà connotazioni e forme politiche e culturali legate all'esperienza risorgimentale, dando vita al fenomeno dell'irredentismo. Tale fenomeno raggiungerà il suo massimo sviluppo agli inizi del secolo successivo. In questa fase il nazionalismo italiano si presentò come movimento delle classi borghesi in ascesa, appoggiato anche da intellettuali, artisti e letterati, fra cui spiccano le figure di Niccolò Tommaseo, Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio. Sotto il profilo organizzativo e politico fu importante la fondazione, nel 1910, ad opera di Enrico Corradini e Luigi Federzoni dell'Associazione Nazionalista Italiana. Il giornale Il Regno fu il primo organo ufficiale del movimento nazionalista italiano, cui seguì il settimanale L'Idea Nazionale, nel 1914 trasformato in quotidiano. Il nazionalismo svolse un ruolo importante in molti momenti della storia d'Italia postrisorgimentale.
Per i nazionalisti l'Italia deve avere una sua politica di ricongiungimento e deve recuperare le terre italiane ancora sotto il dominio straniero, con un programma che guardava al rafforzamento dell'autorità statale come rimedio contro l particolarismo politico, e la guerra per l'affermazione del prestigio italiano. Furono in prima linea come fautori dell'interventismo nella prima guerra mondiale. L'associazione si candidò come partito politico alle elezioni del 1913 e conquistò alcuni deputati. Dopo la fine della guerra, i nazionalisti alimentarono la campagna sulla "vittoria mutilata". Nel febbraio 1923 l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) si fuse con il Partito Nazionale Fascista (PNF), e da allora un'unità di destini la legò al fascismo italiano.

In seguito, l'impero ottomano subisce l’aggressione dell’Italia che, pur alleata della Germania, amica dell'impero ottomano, tra 1.911 e 1.912 strappa all'impero le ultime residue province nordafricane che ancora, almeno formalmente, controllava: Tripolitania e Cirenaica.
Carta con le ex province
ottomane nell'attuale Libia.

Gli italiani occupano anche Rodi e il Dodecaneso e giungono a forzare lo stretto dei Dardanelli. Il 12 ottobre del 1.912, turchi e italiani accedevano alla faticosa pace di Losanna. Il sultano avrebbe invero volentieri ceduto Tripolitania e Cirenaica all’Italia in cambio di un suo governo nella sostanza coloniale, ma che formalmente rispettasse la sovranità ottomana: tale accordo era già stato accettato dall’Inghilterra per l’Egitto e dalla Francia per Algeria e Tunisia. Ma il governo di Giolitti, che aveva scatenato la guerra per distogliere l’attenzione degli italiani da forti difficoltà interne, aveva bisogno di un’affermazione piena, non di una transazione che sarebbe parsa un ripiego se non una mezza sconfitta. Così la guerra continuò per approdare alla costituzione di una “Libia italiana”.
All'inizio del conflitto, il governo di Giolitti era stato esortato anche dal poeta romagnolo e socialista di estrazione romantica Giovanni Pascoli, che reclamava un posto al sole per l'Italia
“La grande proletaria si è mossa” è il discorso pronunciato da Giovanni Pascoli nel novembre 1.911 a Barga, in occasione della campagna di Libia. E’ molto interessante leggere le parole del poeta in riferimento a questo avvenimento storico poichè svelano un Pascoli nazionalista e fortemente interventista, difficile da conciliare con il “socialista dell’umanità”, quale si definiva egli stesso. Questa guerra coloniale è presentata dal poeta come un’esigenza necessaria alla sopravvivenza dei cittadini italiani che, dopo anni trascorsi come lavoratori emigrati oltremare e oltralpe, dopo anni di sfruttamento e ingiurie, dovevano assolutamente procurarsi terre fertili da cui trarre il proprio sostentamento. Inoltre il paese aveva bisogno di dimostrare il proprio valore militare, e la campagna di Libia sembrava un’occasione ideale per potersi riscattare agli occhi dell’Europa: “Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar Carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora”. Questo tentativo di presentare la campagna di Libia come una guerra difensiva e non di attacco, unica modalità accettata dai socialisti, ignorava completamente il fatto che i libici avessero diritto alla autodeterminazione.

La guerra italo-turca (nota in italiano anche come guerra di Libia e per i turchi come Guerra di Tripolitania) fu combattuta dal Regno d'Italia contro l'Impero ottomano tra il 29 settembre 1.911 e il 18 ottobre 1.912, per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica. Le ambizioni coloniali spinsero l'Italia ad impadronirsi delle due province ottomane che nel 1934, assieme al Fezzan, avrebbero costituito la Libia, dapprima come colonia italiana ed in seguito come Stato indipendente. Durante il conflitto, fu occupato anche il Dodecaneso, arcipelago del Mar Egeo; quest'ultimo avrebbe dovuto essere restituito ai turchi alla fine della guerra, ma rimase sotto amministrazione provvisoria da parte dell'Italia fino a quando, con la firma del trattato di Losanna nel 1923, la Turchia rinunciò a ogni rivendicazione, e riconobbe ufficialmente la sovranità italiana sui territori perduti nel conflitto. 
Carta con il Dodecaneso.
Nel corso della guerra, l'Impero ottomano si trovò notevolmente svantaggiato, poiché avrebbe potuto rifornire il suo piccolo contingente in Libia solo attraverso il Mediterraneo e la flotta turca non fu in grado di competere con la Regia Marina. Gli Ottomani, così non riuscirono ad inviare rinforzi alle loro province nordafricane. Pure se minore, questo evento bellico fu un importante precursore della prima guerra mondiale. Osservando la facilità con cui gli italiani avevano sconfitto i disorganizzati turchi ottomani, i membri della Lega Balcanica attaccarono l'Impero prima del termine del conflitto italo-turco.
Nella guerra italo-turca si registrarono numerosi progressi tecnologici nell'arte militare tra cui, in particolare, l'impiego dell'aeroplano (furono schierati in totale 9 apparecchi) sia come mezzo offensivo che come strumento di ricognizione. Il 23 ottobre 1911 il pilota Carlo Maria Piazza sorvolò le linee turche in missione di ricognizione, e il 1º novembre dello stesso anno l'aviatore Giulio Gavotti lanciò a mano la prima bomba aerea (grande come un'arancia, si disse) sulle truppe turche di stanza in Libia. Altrettanto significativo fu l'impiego della radio con l'allestimento del primo servizio regolare di radiotelegrafia campale militare su larga scala, organizzato dall'arma del genio sotto la guida del comandante della compagnia R.T. Luigi Sacco e con la collaborazione dello stesso Guglielmo Marconi. Infine, il conflitto libico registrò il primo utilizzo nella storia di automobili in una guerra: le truppe italiane furono dotate di autovetture Fiat Tipo 2 e motociclette SIAMT.

Resta il fatto che la Libia, così come l'Eritrea, sarà un'unità inventata dall'Italia e non era mai stata un'entità politica unitaria, antefatto che potrebbe motivare l'attuale crisi libica. La Libia infatti non ha mai posseduto un tessuto sociale comune fra le varie tribù.

Guidata dalla forte personalità di Giovanni Giolitti, l'Italia fa progressi notevoli, coronati anche dalla fortunata guerra italo-turca. Tra il 1910 e il 1914, si conseguì in Italia la massificazione dell'istruzione secondaria e l'ingresso della donna del mondo del lavoro qualificato (con la "rivoluzione" della macchina da scrivere). Alla vigilia della prima guerra mondiale l'Italia, passando da un'economia prevalentemente agricola a una di stampo industriale, era divenuta la settima potenza industriale del mondo e aveva inoltre dato prova di buone capacità militari nel conflitto contro la Turchia.

La guerra italo-turca, realizzata con l'appoggio diplomatico delle potenze dell'Intesa, voluta dall'opinione pubblica italiana e dalla borghesia industriale interessata alla produzione bellica, rappresenta l'inizio della fine dell'età giolittiana. Alle delusioni seguite alla sanguinosa conquista di quello "scatolone di sabbia", come dicevano i socialisti turatiani, si aggiunse la preoccupazione per la ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel bilancio dello Stato.

Il quarto governo Giolitti dura dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nasce come il tentativo, probabilmente più vicino al successo, di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che comunque voterà a favore del governo. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale maschile, progetti di considerevole valenza "sociale" ed entrambi immediatamente realizzati. Nel settembre del 1911 Giolitti, premuto dalle spinte nazionaliste (il movimento nazionalista si era costituito come partito organizzato nel primo congresso di Firenze nel 1910) da tuttavia inizio alla guerra di Libia. Il conflittoavrà notevoli ripercussioni anche in politica interna, dividendo il Partito Socialista e allontanandolo dal governo in maniera irrimediabile.

Il 30 giugno 1912 viene approvata una riforma elettorale che introduce il suffragio universale maschile. L’elettorato attivo è esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il numero di aventi diritto al voto aumenta notevolmente, passando dai circa tre milioni del 1909 ad oltre 8.600.000. Questa legge rimane in vigore solo per una legislatura e sarà sostituita nel 1919, in un contesto profondamente mutato.
La riforma elettorale approvata era stato il prezzo che Giolitti aveva dovuto pagare ai socialisti di Leonida Bissolati per l'appoggio ottenuto durante la guerra italo-turca. Molti nuovi elettori erano operai e il PSI riscuoteva molti consensi nel mondo operaio.
Giolitti, e con lui vari esponenti della classe politica che aveva governato l'Italia, desiderava bloccare l'avanzata del Partito Socialista Italiano. Prese perciò l'iniziativa di rivolgersi all'Unione Elettorale Cattolica Italiana, contando sul precedente del 1909, e l'esperimento della collaborazione con i cattolici fu rinnovato. Il partito liberale mise a disposizione una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali, al fine di far confluire i voti dei cattolici su quelli tra loro che promettessero di fare propri i valori affermati dalla dottrina cristiana e, parallelamente, di negare il proprio sostegno a leggi anticlericali.
Per la stampa si chiamerà «Patto Gentiloni», un accordo politico informale mai messo per iscritto che propone ai candidati del Partito Liberale che avessero voluto il sostegno dei votanti cattolici, di sottoscrivere i seguenti sette punti programmatici:
- difesa delle congregazioni religiose,
- difesa della scuola privata,
- difesa dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche,
- difesa dell'unità della famiglia,
- difesa del "diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",
- salvaguardia di una migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,
- conservazione e rinvigorimento “delle forze economiche e morali del paese”, per un incremento dell'influenza italiana in campo internazionale.

Benito Mussolini
Il XIII congresso socialista, convocato in forma straordinaria dal 7 al 10 luglio 1912 a Reggio Emilia, inasprisce le divisioni che attraversano il Partito riguardo alla Guerra di Libia. Trionfa la corrente massimalista e si sancisce l'espulsione di una delle aree riformiste, capeggiata da Bonomi, Cabrini e Bissolati: quest'ultimo, nel 1911 si era recato al Quirinale per le consultazioni susseguenti la crisi del Governo Luzzatti, causando il malcontento del resto del partito, compreso quello di Turati, esponente di spicco dell'altra corrente riformista. L'esponente socialista che al congresso si scaglia ferocemente contro i tre espulsi, aizzando la folla contro di loro, è Mussolini, esponente nella corrente massimalista. In virtù di quell'arringa, egli si guadagnerà una notevole fama all'interno del PSI, che da lì a poco gli consentirà di diventare direttore dell'Avanti!. Bissolati e i suoi, cacciati dal partito, daranno vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI). Dopo il congresso socialista di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto l'espulsione dell'ala moderata e il prevalere della corrente massimalista, guidata da un giovane anarco-sindacalista Benito Mussolini, divenuto direttore dell'"Avanti!", tutto stava ad indicare che la lotta politica si stava acutizzando tra l'estremismo di sinistra e una borghesia passata alle tesi dell'imperialismo.

Pietro Nenni
Furono forse queste preoccupazioni che nell'imminenza delle elezioni del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca di un più vasto consenso di massa con l'istituzione del suffragio universale maschile e soprattutto con il patto Gentiloni con i cattolici in funzione antisocialista. 
Errico Malatesta
I risultati elettorali sembrarono premiare la politica giolittiana, ma era un'illusione: ormai lo scontro tra la destra e la sinistra si combatteva nelle strade come dimostreranno i disordini della "Settimana Rossa" nel giugno del 1914, guidata dal socialista Mussolini, dal repubblicano Pietro Nenni, dall'anarchico Errico Malatesta. 
Questa situazione sociale ingestibile politicamente convinse Giolitti, già dimessosi nel marzo del 1914, di aver visto giusto nella sua decisione di abbandonare almeno temporaneamente la vita politica. Giolitti in realtà si era dimesso designando come suo successore il conservatore Antonio Salandra, calcolando che dal fallimento della politica di questi egli sarebbe potuto tornare al governo da sinistra con un programma di più avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò sbagliato: ormai non era più possibile alcuna mediazione tra capitale e lavoro.

Il raggruppamento politico dei Liberali, anche noto con il nome Unione Liberale, è stato il cartello elettorale comprendente diversi partiti liberali, creato per le elezioni politiche italiane del 1913 a seguito del Patto Gentiloni e la conseguente scomparsa dei Ministeriali giolittiani. I suoi simboli elettorali consistevano solitamente in una torcia, oppure uno scudo con aquila, o vari utensili di lavoro. Esso è arrivato a comprendere 26 partiti.

Il 26 ottobre 1913 per il 1° turno e il 2 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le diciassettesime elezioni politiche, le prime elezioni a suffragio universale maschile con l'ormai tradizionale collegio uninominale a doppio turno e in cui è operativo il cosiddetto «Patto Gentiloni» fra clericali e liberali. Su una popolazione stimata in 36.500.000 residenti (35.841.563 nel 1911 e 39.396.757 nel 1921), gli aventi diritto al voto sono 8.672.000 uomini, pari al 23,758% della popolazione, di cui votano 5.100.615 uomini, il 58,8% degli aventi diritto. I risultati sanciscono un grande successo del Patto Gentiloni: il Partito Liberale ottiene una schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti, di cui ben 228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai cattolici. I deputati socialisti (PSI e Socialisti indipendenti e sindacalisti) vedono salire a 58 il numero dei propri eletti, i riformisti (Partito Socialista Riformista Italiano) eletti sono 21, 73 i radicali, 34 i cattolici (non aderenti al Partito Liberale) e 5 i nazionalisti.
Partiti                                            Ideologia                                                        Leader
Liberali                                         Liberalismo, Centrismo                                   Giovanni Giolitti
Partito Socialista Italiano (PSI)     Socialismo, Socialismo rivoluzionario              Filippo Turati
Partito Radicale Italiano (PR)       Radicalismo, Anticlericalismo                          Francesco Saverio Nitti
Part. Dem. Costituzionale (PDC)  Liberalismo sociale, Liberalismo                      vari
Unione Elett.Cattolica It. (UECI)   Clericalismo, Cristianesimo democratico         Vincenzo Ottorino Gentiloni
Part. Socialista Riform. It. (PSRI) Socialismo democratico, Socialdemocrazia      Leonida Bissolati
Partito Democratico (PD)             Socialismo liberale, Socialdemocrazia              vari
Partito Repubblicano It. (PRI)      Repubblicanesimo, Radicalismo                       Carlo Sforza
Cattolici conservatori                   Integrismo cattolico, Clericalismo, Tradizionalismo    vari
I risultati:
Antonio Salandra
Partiti                                                          voti              % voti       seggi
Liberali                                                    2.387.947         47,6          270
Partito Socialista Italiano                            883.449         17,6            52
Partito Radicale Italiano                             522.522         10,4            62
Partito Democratico Costituzionale             277.251           5,5            29
Unione Elettorale Cattolica                         212.319           4,2            20
Partito Socialista Riformista Italiano           196.406           3,9            19
Partito Democratico                                    138.967           2,8            11
Partito Repubblicano Italiano                     102.102           2,0             8
Cattolici conservatori                                   89.630           1,8             9
Repubblicani dissidenti                                71.564           1,4             9
Socialisti indipendenti                                  67.133           1,3             8
Radicali dissidenti                                        65.671           1,3            11
Totale                                                       5.100.615        100       su 508 seggi. Con la netta vittoria dei liberali, grazie anche al «Patto Gentiloni», prosegue il IV governo Giolitti fino al 21 marzo 1914, quando governerà Antonio Salandra, del partito liberale.

Fra il 1871 e il 1914 l'Europa era stata uno spazio civile più unitario che mai, caratterizzato da forti omogeneità e simbiosi di esperienze culturali e di orientamenti ideali. La relativa facilità con cui i gruppi dirigenti che vollero la guerra, la poterono scatenare, dimostrerà che le aggregazioni particolaristiche e le contrapposizioni di interessi conservavano un'influenza determinante rispetto ai motivi di omogeneità e di solidarietà. E' perciò legittimo parlare di guerra civile insita nel teatro europeo, per quella che sarà chiamata la prima guerra mondiale.

Nel 1914, con l'inizio della guerra mondiale, i clericali si schierano con i neutralisti, come apertamente espresso dal papa Benedetto XV (1914-1922) nella sua condanna all'"inutile strage" mentre, più in generale, nell'Italia neutrale del 1914/15, si contrappongono due posizioni.
1) Da una parte le fazioni politiche-sociali ostili alla guerra, schieramento vasto e differenziato in cui ci sono i liberali guidati da Giolitti, che temono lo sconvolgimento delle fragili strutture materiali e morali dello stato italiano e che pensano di ottenere gli ultimi territori italiani occupati dall'Austria-Ungheria, Trento e Trieste, con una trattativa. Giolitti non credeva alla guerra, conosceva l’impreparazione militare italiana, peraltro reduce dalla guerra di Libia, prevedeva un conflitto di lungo periodo e pensava che il crollo dell’impero austro-ungarico non avrebbe certo favorito il nostro paese. Poi ci sono i cattolici e i socialisti che da posizioni ideologiche distanti sono ostili alla guerra. Il primo socialista a prendere posizione contro la guerra, prima ancora che venisse ufficialmente dichiarata, è Mussolini, che sull'"Avanti" del 26 luglio 1914, proclama la “neutralità assoluta” e riprende il vecchio detto di Andrea Costa: “Né un uomo, né un soldo. A qualunque costo”. Morgari, Turati e Treves convocano il Gruppo parlamentare socialista il 27 luglio del 1914 a Milano nei locali dell’”Avanti”, dove si riprende il tema della “neutralità assoluta” e ai lavoratori si raccomanda “di tenersi pronti per quelle più energiche misure che il partito intendesse adottare”. Da ricordare che le prime nette posizioni contro la guerra si riferivano all’ipotesi di una discesa in campo dell’Italia coi paesi della Triplice alleanza, dunque a fianco dell’Austria, che aveva iniziato la guerra contro la Serbia. Più sfumata era, fra i socialisti, la contrarietà all’ipotesi di una discesa in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa. Il comunicato finale della Direzione socialista, riunita il 3 agosto, attribuisce infatti ogni responsabilità del conflitto alle “cupidigie balcaniche dell’imperialismo austro-ungarico”. Il giorno prima Mussolini aveva scritto: “In caso di spedizione punitiva contro l’Italia da parte di un’Austria vittoriosa è probabile che molti di quelli che oggi si sono occupati di anti patriottismo saprebbero compiere il loro dovere”. L’Avanti, il 4 agosto, parla “ di orda teutonica scatenata su tutta l’Europa” il 6 di “sfida germanica contro latini, slavi, ed anglosassoni”, mentre su “Critica sociale”, Turati ipotizza una non ben decifrabile “neutralità non dogmatizzante e imperativa”. Fino a quel punto, le posizioni di Mussolini sulla diversa valutazione dell’intervento italiano alleato agli imperi o contro gli imperi centrali, erano più o meno quelle di Turati. E quando lo stesso Mussolini, il 10 settembre, scrisse l’articolo sull’”Avanti” in cui si osservava la necessità di scegliere “tra i due mali, il minore e cioè la vittoria dell’Intesa”, nessuno lo contestò. Ma il 18 ottobre Benito Mussolini, ancora direttore del quotidiano ufficiale del partito socialista "L'Avanti", fino ad allora sostenitore della neutralità italiana come da direttive di partito, pubblica in terza pagina un articolo in cui sostiene che il mantenimento della linea di neutralità avrebbe ghettizzato il movimento, relegandolo in posizione subalterna. Egli propone perciò di armare il popolo per la guerra e, una volta essa terminata, rivolgersi contro le strutture dello Stato liberale e borghese, dando luogo alla Rivoluzione e al trionfo del socialismo. Ciò gli costa l'allontanamento dal giornale il 20 ottobre 1914 e, nemmeno un mese dopo esce con la prima copia di un nuovo quotidiano da lui fondato, il Popolo d'Italia, dalla linea fortemente interventista, guadagnandosi inoltre il 29 novembre l'espulsione dal partito socialista a causa delle sue provocazioni nei confronti dei compagni. Il 14 novembre 1914, in un articolo intitolato Audacia, scrive sulle colonne del nuovo giornale: «Oggi - io lo grido forte - la propaganda antiguerresca è la propaganda della vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed esaspera l'istinto della conservazione individuale.
Palmiro Togliatti
Ma per ciò stesso è una propaganda antirivoluzionaria … E riprendendo la marcia è a voi, giovani d'Italia; giovani delle officine e degli atenei; giovani d'anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di fare la storia; è a voi che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie... “Guerra”». Sotto l'influsso di Mussolini e di Salvemini, l'allora studente universitario socialista Antonio Gramsci scriverà un articolo sul settimanale socialista di Torino Il Grido del Popolo il 31 ottobre 1914 dal titolo "Neutralità attiva e operante" con il quale anch'esso si discosta dalla linea ufficiale del partito e che spaccherà le fila dei giovani socialisti torinesi. Anche il socialista Palmiro Togliatti si arruolerà volontario nell'esercito per partecipare ai combattimenti.
2) Il fronte interventista, guidato dai nazionalisti che, al mito socialista della lotta di classe e della rivoluzione, sostituiscono la guerra come garanzia dell'ordine sociale, del comando delle classi superiori su quelle inferiori. La nuova destra nazionalista di Enrico Corradini e Alfredo Rocco indica la necessità di imparare ad andare in piazza, strappandola all'egemonioa della sinistra, se si vuole essere politicamente all'altezza dei tempi; sono linguaggi e forme nuove dell'azione politica dell'età delle masse. La piazza interventista brulica, in Italia, di tecnici della mobilitazione popolare che vengono anche da sinistra, come il socialista riformista, deputato di Trento al parlamento di Vienna, Cesare Battisti, il socialista massimalista Benito Mussolini, che in precedenza era neutralista, i sindacalisti rivoluzionari Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, i social-riformisti Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini. Queste conversioni, dall'Internazionale dalla bandiera rossa alla Patria e al tricolore, si collocano nel quadro di una nuova compatibilità, della destra con la piazza e quindi di una generale rifusione dei linguaggi e dei simboli della politica. Quel che accomuna destra e sinistra interventista, è l'obiettivo di portare, comunque, l'Italia in guerra, nonostante gran parte degli strati popolari e gli stessi rappresentanti delle istituzioni siano contrari. Sono invece favorevoli alla guerra la corona, gli ambienti di corte e i militari.
Tutto farebbe propendere i nazionalisti verso la triplice alleanza, gli imperi centrali, se l'imperialismo italiano non fosse entrato in rotta di collisione, nel mar Adriatico, con l'imperialismo austro-ungarico, per cui la destra nazionalista si allea con quelle correnti della sinistra che idealizzano la guerra democratizzandone i fini: Trento e Trieste all'Italia per completarne il Risorgimento e giusti confini nazionali per tutti i popoli. Il presidente del consiglio dei ministri, il conservatore Antonio Salandra, userà invece l'inconsueta formula del “sacro egoismo” dell'Italia, nel portare avanti una doppia trattativa segreta e parallela con i due fronti già in guerra e il ministro degli esteri Sidney Sonnino firmerà in segreto, nell'aprile del 1915 il patto di Londra, che impegna l'Italia ad entrare nel conflitto, entro un mese, al fianco della Triplice Intesa contro L'Austria-Ungheria.

Il 26 aprile 1915 viene firmato il Patto di Londra, un accordo segreto stipulato tra il governo italiano del liberale Antonio Salandra e i rappresentanti della Triplice Intesa (Francia, Regno Unito e Impero russo) . Il patto, composto da 16 articoli, prevede che l'Italia entri in guerra al fianco dell'Intesa entro un mese ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, con gli altopiani carsico-isontini e con l'intera penisola istriana ma con l'esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia, numerose isole dell'Adriatico, Valona e Saseno in Albania e il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso. In Russia, durante la rivoluzione d'ottobre, il governo bolscevico renderà pubblici tutti i patti segreti siglati dallo zar, compreso quello di Londra, che susciterà una grande riprovazione mondiale per tali patti che, durante il trattato di pace, a Versailles, non furono rispettati.

Il 23 maggio 1.915, il Regno d'Italia dichiara guerra all'Austria-Ungheria, avviando le operazioni belliche a partire dal giorno seguente. L'Italia dichiarerà poi guerra all'Impero ottomano il 21 agosto 1915, al Regno di Bulgaria il 19 ottobre 1915 e all'Impero tedesco il 27 agosto 1916. Con l'entrata in guerra dell'Italia al fianco dell'Intesa, in accordo al patto segreto di Londra, si aprirà un terzo fronte a sud, fra Italia ed Austria. Il maggio del 1915 sarà definito “radioso” dal poeta-soldato nonché vate, Gabriele D'Annunzio, che inciterà le piazze interventiste con le sue parole immaginifiche e gli attraenti slogan che si diffonderanno in seguito sia nella politica così come nella pubblicità commerciale: il discorso del 5 maggio dallo scoglio di Quarto (GE), là dove erano partiti i mille di Garibaldi, i discorsi romani, gli “Eia Eia Alalà” ("Eia!" era il grido con cui, secondo la tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo; Alalà era una divinità femminile della mitologia greca che accompagnava in battaglia Ares, il dio della guerra e il grido di battaglia degli opliti greci era dunque "Alalà!") insieme poi alle reclame che D'Annunzio nello stesso tempo avava preparato per il liquore “Aurum” e per i grandi magazzini “La Rinascente” di cui avava inventato il nome. Il vecchio stile della politica Giolittiana precipiterà, anche per l'infortunio lessicale del “parecchio”, che Giolitti disse, si sarebbe potuto ottenere, da una semplice trattativa con l'impero austro-ungarico, preoccupato dall'eventuale apertura di un nuovo fronte bellico con l'Italia. Era l'ultimo oltraggio all'immagine grandiosa del Paese da parte di chi veniva definito un sensale (mediatore contrattuale) della politica, mentre veniva apprezzato il “sacro egoismo” di Antonio Salandra. Così, il parlamento italiano fu completamente emarginato dalla decisione di entrare in guerra, evento che avrebbe preannunciato l'avvento del conservatorismo autoritario al potere nel dopoguerra.

Nello stesso mese di maggio del 1915, un sottomarino tedesco affonda il transatlantico inglese Lusitania”, il lugubre segnale che nel conflitto non ci sarebbero state limitazioni territoriali e negli obiettivi militari era prevista anche la distruzione delle popolazioni civili oltre agli apparati militari nemici.
Per la prima volta la guerra era non solo mondiale ma anche totale. Fu quindi la prima guerra globale, resa possibile dal progresso ottenuto nelle società industriali. Era la prima guerra della nuova civiltà industriale: la potenza delle armi, le capacità organizzative, i mezzi di trasporto, le forze produttive e le risorse finanziarie erano state notevolmente incrementate dalle economie industriali dei paesi coinvolti nel conflitto.

L'entrata in guerra dell'Italia apre un lungo fronte sulle Alpi Orientali, esteso dal confine con la Svizzera a ovest fino alle rive del mare Adriatico a est: qui, le forze del Regio Esercito sostennero il loro principale sforzo bellico contro le unità dell'Imperiale regio Esercito austro-ungarico, con combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, nell'Altopiano di Asiago e soprattutto nel Carso, lungo le rive del fiume Isonzo. Contemporaneamente alle operazioni belliche, la guerra ebbe anche una profonda influenza sullo sviluppo industriale del paese oltre ad avviare grandi cambiamenti in ambito sociale e politico. Il fronte interno giocò un ruolo fondamentale per il sostegno dello sforzo bellico: gran parte della vita civile e industriale fu completamente riadattata alle esigenze economiche e sociali che il fronte imponeva, e comparve la militarizzazione dell'industria, la soppressione dei diritti sindacali a favore della produzione di guerra, i razionamenti per la popolazione, l'entrata della donna nel mondo del lavoro e moltissime altre innovazioni sociali, politiche e culturali. La guerra impose uno sforzo popolare mai visto prima; enormi masse di uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul fronte di battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della morte, che impose ai combattimenti la necessità di dover affrontare enormi conseguenze psicologiche collettive ed individuali, che andavano dalla nevrosi da combattimento, al reinserimento nella società fino alla nascita delle associazioni dei reduci.

Le guerre del passato, che avevano obiettivi limitati, non furono condotte fino all'annientamento del nemico. Nella precedente età degli imperi, gli obiettivi della politica e dell'economia si erano fusi e la competizione bellica aveva come posta la crescita economica. La guerra totale illimitata invece, coinvolgeva l'intera società. Tutte le strutture sociali, politiche, economiche e culturali subirono delle trasformazioni a ritmo fortemente accelerato: lo sviluppo industriale ed economico metteva a disposizione dei belligeranti mezzi di distruzione estremamente potenti. Per la prima volta la fitta rete delle comunicazioni ferroviarie e stradali, i collegamenti telefonici e telegrafici furono utilizzati sull'intera rete continentale, per scopi bellici. Le più recenti invenzioni tecniche e scientifiche furono rapidamente riconvertite in strumenti di morte. In primo luogo la chimica, con l'uso di gas asfissianti, con l'invenzione del motore a scoppio si semplificava il trasporto delle truppe e si costruì una nuova e potente arma, la cui efficacia fu riconosciuta al fine del conflitto: il carro armato. Altra nuova invenzione fu l'arma aerea, sia per la ricognizione che per i bombardamenti dall'alto (e i primi furono gli italiani in Libia durante la guerra italo-turca del 1911/12). Tutti gli apparati interni furono utilizzati: gli scienziati, furono impegnati fino allo spasimo nelle ricerche, le tecniche di organizzazione furono perfezionate e tutto l'apparato industriale fu sconvolto dalla pressione di una domanda di prodotti bellici travolgente.
La produzione divenne un interesse diretto dello stato, un elemento decisivo della sua sicurezza e in quanto tale fu assoggettata al controllo pubblico. Requisizioni, ripartizioni pubbliche delle materie prime, militarizzazione dei lavoratori, furono gli aspetti più evidenti della nuova situazione.
Nasce così l'economia moderna: programmata, centralizzata, pianificata e organizzata dallo stato, quindi un colpo mortale al modello liberale e liberista.

Il 1917 sarà un anno tragico e cruciale per le sorti del conflitto. La guerra si sta protraendo da troppo tempo e popoli ed eserciti sono ormai materialmente e moralmente stremati; tuttavia non se ne vede la fine. Gli scarsi risultati ottenuti, gettano in una crisi profonda gli eserciti. Sui diversi fronti si diffondono gli ammutinamenti dei soldati. Le gerarchie militari dei paesi belligeranti, per garantire la disciplina, ordinano un gran numero di fucilazioni. Nell'esercito italiano, dopo la rotta di Caporetto di novembre, saranno fucilati anche un gran numero di ufficiali, una barbarie che denuncia quanto vacillasse il potere centrale.
A Mosca scoppia la rivolta di febbraio e in tutto l'impero zarista dilaga la rivoluzione russa, che rovescia il governo dell'impero zarista e che con la presa del potere bolscevica nella rivoluzione d'ottobre porta alla formazione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, mentre cinque anni più tardi, nel 1922, in seguito alla guerra civile russa, costituirà l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dove, formalmente, Lenin applicherà le teorie sociali ed economiche di Karl Marx e Friedrich Engels, messe nel cassetto poi dall'imperialismo di Stalin.
La Russia uscirà così dal sistema degli stati europei. Dalla Rivoluzione russa nascerà una nuova frattura nel continente; al sistema capitalistico degli stati occidentali si contrapporrà il nuovo sistema comunista sovietico, che nel biennio 1919-21 ispirerà in tutta l’Europa la nascita dei partiti comunisti e, in alcuni paesi (Germania, Ungheria, Italia), tentativi rivoluzionari, tutti peraltro falliti. Di fronte al pericolo rosso le potenze europee favoriranno l’affermazione di regimi autoritari di destra, soprattutto negli stati confinanti con l’Unione Sovietica, secondo la politica del “cordone sanitario”.

L'11 febbraio 1917, Antonio Gramsci scrive: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia... ...Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Carta del fronte italiano, da Caporetto
al Piave. Da  https://it.wikipedia.org/
wiki/ Battaglia_di_Caporetto#/media
/ File:Battle_of_Caporetto_IT.svg
Sul fronte italiano, dopo una lunga serie di inconcludenti battaglie, si verifica l'offensiva degli austro-ungarici e dei contingenti tedeschi venuti dal fronte russo, dove il conflitto era terminato per via della Rivoluzione d'Ottobre, che nella battaglia di Caporetto dell'ottobre-novembre 1917 costringe gli italiani alla ritirata fino alle rive del fiume Piave, dove la resistenza italiana si consolida. Alla rotta segue una lunga serie di fucilazioni di militari e di un gran numero di ufficiali, barbarie che denota quanto vacillasse il potere centrale.

Alla fine del 1917, dopo la rivoluzione bolscevica d'ottobre, disintegrato l'impero degli zaril governo rivoluzionario russo decide di uscire dallo stato di guerra, firmando poi il Trattato di Brest Litovsk con gli imperi centrali il 3 marzo '18, mentre da immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi. Tra di essi si rinviene il "Patto di Londra", la cui pubblicazione avrà vasta risonanza internazionale, causando grave imbarazzo alle potenze firmatarie e suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica mondiale, ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Patto di Londra darà il via ad una modifica degli orientamenti politici internazionali che influirà notevolmente sulla sua non completa attuazione a guerra finita. La risoluta opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, dei suoi celebri "Quattordici punti" e, non a caso, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi, alcuna validità. La rivoluzione d'ottobre segnerà inoltre una nuova e definitiva frattura nel continente: al sistema capitalistico degli stati europei e statunitensi, si oppone il nuovo sistema comunista sovietico.

Carta della battaglia finale del Piave
con Vittorio Veneto. Da Speciale
"La Stampa" del 16 gennaio 1914.
A fine ottobre 1918, la pressione italiana e il cedimento di un esercito austriaco, ormai politicamente e moralmente minato da processi disgregativi, spalancano alla conquista italiana le terre del Veneto e del Friuli con la successiva presa di Trento e Trieste nei primi giorni di novembre. L'Italia, che è riuscita a riprendersi dalla rotta di Caporetto del novembre'17, avvenuta per la sottovalutazione dei movimenti delle armate austro-tedesche a nord del fronte giuliano, e che ha resistito vittoriosamente agli attacchi nemici sulla linea del Piave e del Grappa, con l'avvicendamento al comando del gen. Diaz sferra la decisiva controffensiva di Vittorio Veneto fino alla rotta delle forze austro-ungariche e tedesche. Nei primi giorni di novembre la vittoria si completa con la presa di Trento e Trieste.

Il 3 novembre viene siglato l'armistizio di Villa Giusti, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino a Padova, sede del quartier generale italiano, fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia in rappresentanza dell'Intesa. L'Impero austro-ungarico si dissolve e terminano le ostilità, costate alle forze armate italiane circa 650.000 caduti e un milione di feriti.

Il gen. Armando
Diaz al fronte.
Il 4 novembre è la data del bollettino della vittoria firmato dal gen. Armando Diaz e per l'Italia si conclude la I guerra mondiale. «Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12  Bollettino di guerra n. 1268  La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito»

Le guardie rosse durante
 un'occupazione.
Nel 1.919, in Italia, inizia il biennio rosso degli scioperi indetti dai socialisti, che erano stati in non interventisti riguardo alla Grande Guerra, quando invece la maggioranza dei socialisti europei aveva rinnegato le scelte della seconda internazionale del 1889 per lanciarsi in un conflitto suicida, dettato da motivazioni nazionalistiche. Mentre la presa del potere dei bolscevichi, nell'ambito della rivoluzione russa d'ottobre del 1917, aveva rigenerato l'ideale socialista europeo, spinto dall'idea leninista di un'esportazione mondiale della presa del potere da parte della classe operaia, in Italia divampa il "biennio rosso", locuzione con cui viene comunemente indicato il periodo compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920. In tale periodo si verificarono, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione. Le agitazioni si estesero anche alle zone rurali e furono spesso accompagnate da scioperi, picchetti e scontri. Una parte della storiografia estende la locuzione ad altri paesi europei, interessati, nello stesso periodo, da analoghi moti. L'espressione "biennio rosso" entrò nell'uso comune già nei primi anni venti, con accezione negativa; venne utilizzata da pubblicisti di parte borghese per sottolineare il grande timore suscitato, nelle classi possidenti, dalle lotte operaie e contadine, e quindi per giustificare la reazione fascista che ne seguì. Negli anni settanta, il termine "biennio rosso", questa volta con connotazioni positive, venne ripreso da una parte della storiografia, politicamente impegnata a sinistra, che incentrò la sua attenzione sulle agitazioni del 1919-20, considerandole come uno dei momenti di più forte scontro di classe e come esperienza esemplare nella storia delle relazioni che intercorrono fra l'organizzazione della classe operaia e la spontaneità delle sue lotte. L'economia italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la guerra, che si protrasse a lungo; infatti, nel biennio 1917-1918 il reddito nazionale netto era sceso drasticamente, e rimase, fino a tutto il 1923, ben al di sotto del livello d'anteguerra, mentre il tenore di vita delle classi popolari era, durante la guerra, nettamente peggiorato. Secondo una statistica, dando il valore 100 al livello medio dei salari reali nel 1913, questo indice era sceso a 64,6 nel 1918. Nell'immediato dopoguerra si verificarono inoltre un ingentissimo aumento del debito pubblico, un forte aggravio del deficit della bilancia dei pagamenti, il crollo del valore della lira e un processo inflativo che portò con sé la repentina diminuzione dei salari reali. Il peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari (già duramente provate dalla guerra) fu la causa immediata dell'ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle città sia nelle campagne, compresi i pubblici dipendenti, cosicché l'anno 1919 totalizzò complessivamente in Italia oltre 1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti. Mentre gli operai scioperavano prevalentemente per ottenere aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro (la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere fu ottenuta, nelle grandi industrie, nell'aprile 1919), gli scioperi nelle campagne, che coinvolsero nel 1919 più di 500.000 lavoratori, ebbero obiettivi diversi a seconda delle categorie: i sindacati dei braccianti lottavano per ottenere il monopolio del collocamento e l'imponibile di manodopera, mentre mezzadri e salariati fissi cercarono di ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti a loro più favorevoli; contemporaneamente si verificarono, soprattutto nel Lazio e nel meridione, importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari. Si ebbe un'ondata di moti contro il carovita (in Toscana ricordati come "Bocci-Bocci") che attraversò tutta la penisola tra la primavera e l'estate del 1919, cui il governo non riuscì a mettere un freno. Come in tutta l'Europa post-bellica, anche in Italia gli ex combattenti, costituiti in proprie associazioni, divennero un elemento importante del quadro politico. Le associazioni di reduci in Europa erano caratterizzate da alcune istanze comuni a tutte: la difesa del prestigio internazionale del proprio paese e la rivendicazione di importanti riforme politiche e sociali. In Italia gli orientamenti politici degli ex combattenti furono vari.

Foto segnaletiche di Mussolini in
 Svizzera. Da @CorriereBologna.
Il 21 marzo 1919 Benito Mussolini fonda il Fascio Milanese di Combattimento e i 120 uomini che danno vita al movimento verranno detti poi Sansepolcristi dal nome della piazza nella quale avvenne la riunione. Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista Italiano e convertito alle idee del nazionalismo e della prima guerra mondiale, riuscì a fondere la confusa congerie di idee, aspirazioni, frustrazioni degli ex combattenti reduci dalla dura esperienza della guerra di trincea, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria che subito si contraddistinse per la violenza dei metodi impiegati contro gli oppositori. In questo clima nacque il fascismo, ufficialmente il 23 marzo 1.919 a Milano. Quel giorno a piazza San Sepolcro, all'interno di Palazzo Castani – sede in quel tempo del Circolo per gli Interessi Industriali, Commerciali e Agricoli della provincia di Milano – i cui locali erano stati presi in affitto – si radunò un piccolo gruppo di circa 120 ex combattenti, interventisti, arditi e intellettuali, che fondarono i Fasci italiani di combattimento. Il programma di questo gruppo fu essenzialmente volto alla valorizzazione della vittoria sull'Austria Ungheria, alla rivendicazione dei diritti degli ex-combattenti, al "sabotaggio con ogni mezzo delle candidature dei neutralisti". Seguì quindi un programma economico-sociale che prevedeva, fra l'altro, l'abolizione del Senato, tasse progressive, pensione a 55 anni, giornata lavorativa di otto ore, abolizione dei Vescovati, sostituzione dell'Esercito con una milizia popolare. Dopo il primo congresso nazionale, tenutosi a Firenze nell'ottobre 1.919, i Fasci italiani di combattimento si presentarono alle elezioni politiche italiane del 1.919, nella circoscrizione di Milano, con una lista capeggiata da Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti, senza ottenere alcun seggio, avendo raccolto solo 4.795 voti, su circa 370.000. Le violenze perpetrate dallo squadrismo fascista durante il convulso periodo del biennio rosso in Italia, di cui l'esempio più famoso fu l'assalto all'Avanti!, costituirono una violenta offensiva contro i sindacati e i partiti di ispirazione socialista (ma anche cattolici), in particolar modo nel centro-nord d'Italia (soprattutto Emilia-Romagna e Toscana), causando numerose vittime nella sostanziale indifferenza delle forze di polizia. Il movimento fu appoggiato anche da diversi personaggi come Dino Grandi, l'unico accreditato competitore di Mussolini per la leadership all'interno del movimento.
Solo una minoranza di ex combattenti aderì ai Fasci di combattimento; molti di più furono i reduci che diedero il proprio consenso alle idealità democratiche espresse dai "quattordici punti" del presidente statunitense Woodrow Wilson.

L'Associazione Nazionale Combattenti, nel suo congresso di fondazione che ebbe luogo nell'aprile 1919, propose l'elezione di un'Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di deliberare un nuovo assetto democratico dello Stato. Una parte della storiografia ha ritenuto che l'incomprensione e l'ostilità, che il Partito Socialista riservò in quegli anni alle istanze espresse dai reduci, abbiano contribuito a spingere questi ultimi a destra, verso il nazionalismo e il fascismo. Un'altra parte della storiografia ha rilevato, tuttavia, che l'atteggiamento socialista di opposizione alla guerra era in continuità con il pacifismo e il neutralismo che tale partito aveva già espresso prima e durante il grande conflitto, atteggiamento che era d'altronde largamente condiviso dai suoi elettori e che il partito molto difficilmente avrebbe potuto sconfessare a guerra finita. Peraltro, sia nel 1915 sia nel 1919 l'orientamento neutralista (che fosse di matrice cattolica, giolittiana o socialista) era quello ampiamente maggioritario in Italia, cosicché l'interventismo e il bellicismo finirono per assumere più facilmente un carattere antidemocratico. Due furono, comunque, i principali orientamenti politici nei quali si articolò il movimento degli ex combattenti: uno più radicale, che trovò espressione nell'associazione degli arditi e nei nazionalisti estremisti come D'AnnunzioMarinetti e Mussolini e un secondo orientamento più moderato, rappresentato dalla Associazione Nazionale Combattenti, la quale in politica estera non condivideva lo sciovinismo dei nazionalfascisti mentre in politica interna era piuttosto vicina alle posizioni di Nitti e di Salvemini. Gli ex combattenti furono anche protagonisti, in quegli anni, di importanti lotte sociali, soprattutto nell'Italia meridionale: specialmente in Calabria, in Puglia e nel centro-ovest della Sicilia ebbero luogo rilevanti occupazioni di terre già facenti parti di latifondi, per un'estensione che è stata stimata fra i quarantamila e i cinquantamila ettari nel biennio 1919-20; questi movimenti furono spesso guidati dalle associazioni dei reduci, a differenza dell'Italia settentrionale, dove i moti contadini ebbero prevalente carattere bracciantile e furono perlopiù egemonizzati dai socialisti.

Le Venezie ottenute con i trattati
di Saint-Germain e Rapallo.
Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti (antifascista, fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Italiano e il primo nato dopo l'unità d'Italia), sottoscrive il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali e le parti del Tirolo comprendenti Cortina d'Ampezzo e le odierne Province  Autonome di Bolzano e di Trento furono annesse al Regno d'Italia.
Il 12 settembre 1919 , alcuni Arditi, ex-combattenti italiani, guidati dal poeta D'Annunziooccupano militarmente la città di Fiume chiedendone l'annessione all'Italia.

Il 13 giugno 1920 cade il governo Nitti, poiché impotente contro D'Annunzio e si instaura il quinto e ultimo governo Giolitti, che riuscirà a sbloccare la situazione.

Il 12 novembre 1920, il liberale Giovanni Giolitti, con il Trattato di Rapallo, raggiunge un accordo con gli jugoslavi: l'Italia acquisirà quasi per intero il litorale ex-austriaco comprendente le città di Gorizia e Trieste col loro circondario, nonché la quasi totalità dell'Istria e le isole quarnerine di Cherso e Lussino. Della Dalmazia promessa col patto di Londra all'Italia andranno la città di Zara, le isole di Làgosta e Cazza e l'arcipelago di Pelagosa. Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Fiume veniva riconosciuta città indipendente, ma D'Annunzio non riconobbe validità al Trattato di Rapallo giungendo a dichiarare guerra all'Italia: il poeta e la formazione irregolare di Arditi vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze armate italiane (cosiddetto Natale di sangue della fine di dicembre del 1920).

Don Luigi Sturzo
Nel 1919 papa Benedetto XV abroga definitivamente e ufficialmente il “non expedit”, già inapplicato da tempo. Ciò permette la nascita del Partito Popolare Italiano, vagheggiato già nel 1905 da don Luigi Sturzo, come partito d'ispirazione cattolica ma indipendente dalla gerarchia ecclesiastica nelle sue scelte politiche.
Con l'avvio del biennio rosso e la fondazione dei fasci di combattimento, l'Unione nazionale di Carlo Ottavio Cornaggia Medici si scinde dal Partito Popolare Italiano.

Il 16 novembre 1919 si svolgono nel Regno d'Italia le diciottesime elezioni politiche, per la prima volta si adotta un sistema elettorale proporzionale. Nessun partito riuscirà a presentarsi in tutti i 54 collegi in cui era divisa l'Italia. Solo il PSI e il PPI riuscirono a presentarsi in modo uniforme in 51 collegi col medesimo contrassegno, rispettivamente la falce e martello e lo scudo crociato. Tutte le altre forze politiche si presentarono con nomi e simboli diversi da collegio a collegio. Si potevano contare 281 simboli per 1.260 candidati, di cui 252 eletti.
Su una popolazione stimata in 38.800.000 residenti (35.841.563 nel 1911 e 39.396.757 nel 1921), gli aventi diritto al voto sono 10.239.326 uomini, pari al 26,39% della popolazione e di cui i votanti sono 5.793.507, pari al 56,58% degli aventi diritto.
Per la prima volta, il partito liberale è nettamente ridimensionato, visto che i cattolici adesso votano per il loro partito, il Partito Popolare e il partito più votato è quello socialista.
Francesco Saverio Nitti
Partiti                                                    voti              % voti           seggi
Partito Socialista Italiano                   1.834.792        32,28            156
Partito Popolare Italiano                    1.167.354        20,53            100
Liste liberali, democratici e radicali      904.195         15,91              96
Liste del partito democratico                632.310         10,95              60
Liste del partito liberale                        490.384          8,63               41
Liste del partito dei combattenti            232.923          4,10              20
Liste del part. radicale + radicali ind.    110.697          1,95               12
Liste del partito economico                     87.450         1,54                 7
Liste del Part. Soc. Rif.+Un.Soc.             82.172         1,45                 6
Liste radicali, rep., soc., combattenti       65.421         1,15                 5
Liste del partito repubblicano                  53.197          0,94                9
Liste socialiste indipendenti                     33.948         0,60                 1
Totale                                                  5.684.833         100           su 508 seggi. Prosegue il governo del radicale Francesco Saverio Nitti.

Nel 1920 è in corso una battaglia parlamentare fra i socialisti (che dichiaravano che in certi casi il divorzio «in virtù dei soli principi religiosi non si può rigettare») e il Partito popolare italiano, cioè i cattolici, che di divorzio non volevano sentire parlare.

Le espansioni della rivolta
dei bersaglieri.
Intanto prosegue il biennio rosso, A Fiume, il 20 aprile 1.920, gli autonomisti di Riccardo Zanella, ostili ai legionari dannunziani, con l'appoggio dei socialisti, proclamano lo sciopero generale.
Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori sono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l'aumento del prezzo del pane indebolì il governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1.920 per lasciare il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari sia tra i manifestanti. Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista L'Ordine Nuovo, ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1.920. La scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso una occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Fu indetto uno sciopero da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie e infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.
Le occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e della sua incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare. Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche: « Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni. » (Giovanni Giolitti)
Antonio Gramsci.
Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista. » (1.926, Antonio Gramsci)
La vicenda dell'occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l'accordo.
In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l'occupazione delle fabbriche come emblematica di un'epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato - secondo questa interpretazione - solo dall'avvento al potere di Mussolini. Su questo argomento, abbiamo già visto l'opinione espressa da Gramsci nel 1.926, secondo la quale la rivoluzione fallì solo a causa dell'insipienza dei dirigenti socialisti. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l'occupazione delle fabbriche avesse realmente la possibilità di costituire l'occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa.
Nelle elezioni amministrative del novembre 1.920, il Partito socialista italiano ottenne ancora un successo, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2.022 comuni su 8.346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell'Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l'assistenza sociale, la riscossione e l'impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune. Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1.919. Nelle elezioni amministrative del 1.920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti "blocchi nazionali" o "blocchi patriottici" che spesso comprendevano anche i fascisti. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie.
L'avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l'altro, dall'atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra. Ad esempio Piero Operti, che nell'ottobre 1.920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un'aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate. Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell'epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali. Di fatto, verso la fine del 1.920, dopo la conclusione della vicenda dell'occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale, iniziò la sua tumultuosa ascesa politica che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche.
Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio Rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell'epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell'ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone. La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l'episodio più efferato fu l'eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti, dove restarono uccisi undici braccianti, tra cui due donne.

 Logo del Partito Comunista d'Italia
Il 15 gennaio 1921 a Livorno si apre il XVII Congresso Nazionale del Partito socialista che termina con la scissione della componente comunista che il 21 gennaio darà vita al Partito comunista d'Italia. Tra i fondatori del nuovo partito, vi sono personaggi di spicco, messisi in evidenza durante i moti del biennio rosso, come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci.

Il 15 maggio 1921 si svolgono nel Regno d'Italia le diciannovesime elezioni politiche. Hanno diritto al voto tutti i cittadini di sesso maschile maggiorenni, ovvero che abbiano compiuti i 21 anni. Rispetto alle precedenti elezioni del 1919, in base al R.D. 2 aprile 1921, n. 320, vengono tolte le limitazioni d'età agli elettori analfabeti e i seggi sono aumentati da 508 a 535, suddivisi in 34 collegi elettorali. Sono inoltre le prime elezioni a cui partecipano i votanti dei territori neoannessi della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia. Su una popolazione di 39.396.757 residenti, hanno diritto di voto 11.457.164 uomini, il 29,08% della popolazione, di cui i votanti sono 6.701.496, pari al 58,4%.
Partiti                                                                voti              %voti        seggi
Partito Socialista Italiano                             1.631.435          24,7          123
Partito Popolare Italiano                              1.347.305          20,4          108
Blocchi Nazionali                                          1.260.007          19,7          105
Liberali Democratici                                       684.855          10,4            68
Liberali                                                           470.605           7,1            43
Partito Democratico Sociale Italiano                309.191           4,7           29
Partito Comunista d'Italia                                 304.719           4,6           15
Partito Repubblicano Italiano                           124.924            1,9            6
Partito Democratico Riformista                        122.087            1,8           11
Partito dei Combattenti                                    113.839            1,7           10
Liste di slavi e di tedeschi                                  88.648            1,3            9
Partito Economico                                             53.382             0,8            5
Socialisti Indipendenti                                       37.892             0,6            1
Partito Dissidente e Cristiano del Lavoro          29.703             0,4            0
Fasci di combattimento                                     29.549             0,4            2
Totale                                                                                      100      su 535 seggi. Nelle elezioni del 1921 i Fasci italiani di combattimento si presentarono nella lista Blocchi Nazionali, ed elessero 35 deputati, tra cui lo stesso Mussolini, che risultò terzo deputato più votato d'Italia. L'elezione di tre deputati fascisti Farinacci, Grandi e Bottai fu invalidata nel 1922, poiché tutti sotto l'età minima che era di trent'anni al momento dell'elezione.
Il 4 luglio si instaura un governo retto dal socialista riformista Ivanoe Bonomi, dal 26 febbraio 1922 seguiranno due governi del liberale Luigi Facta e il 31 ottobre 1922 sarà il fascista Benito Mussolini a governare, fino al 1943.

Il partito Popolare, che in quello stesso anno aveva ottenuto un buon successo alle elezioni, era minato al suo interno per la eterogeneità delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza del futuro papa Pio XI (1922-1939) e del clero. Era quindi inevitabile quella scissione nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione del fascismo mentre l'altra, i clericofascisti, s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo.

Mussolini e i quadrumviri.
Il 25 febbraio 1922 cade il governo Bonomi e gli succede Luigi Facta.
Il 26 aprile si dissolve il partito radicale italiano con la confluenza nel Partito Democratico Sociale Italiano
Il 24 ottobre, il governo Facta non riesce ad arginare lo strapotere delle squadre fasciste; Mussolini dichiara: "O ci daranno il potere o lo prenderemo calando su Roma".
Il 28 ottobre avviene la Marcia su Roma. Mussolini con i quadrumviri Bianchi, Balbo, De Bono e De Vecchi, guida 14.000 camice nere nella capitale.
Il 31 ottobre, Mussolini presenta al Re la lista dei ministri e il suo Governo ottiene la fiducia del parlamento, votato anche dalle forze moderate ed ottiene addirittura l'assenso di Giolitti. Mussolini diventa capo del governo in Italia.
Il 16 novembre, Mussolini tiene alla camera il famoso "discorso del bivacco". « Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. ». Le squadre fasciste vengono trasformate nella Milizia Volontaria.

Nel febbraio 1923 l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) si fonde con il Partito Nazionale Fascista (PNF), e da allora un'unità di destini la legò al fascismo italiano.

Il 6 aprile 1924 si svolgono le ventesime elezioni politiche nel Regno d'Italia. Hanno diritto di voto tutti i cittadini maggiorenni di sesso maschile. Sono le uniche elezioni disciplinate dalla cosiddetta "legge Acerbo" (n. 2444 del 18 novembre 1923), un proporzionale con voto di lista e premio di maggioranza. Alla consultazione partecipano 23 liste con 1306 candidati, di cui 346 sono deputati uscenti e 41 avevano esercitato il loro mandato nel corso della XXV Legislatura.
Oltre alla Lista Nazionale (nota anche come "listone") e alla Lista Nazionale bis, si presentano ben sette liste liberali e quattro liste democratiche di opposizione, due liste socialiste, due liste autonomiste (slavi-tedeschi e sardisti) e una lista ciascuna per popolari, comunisti, repubblicani, demosociali ed agrari. Solo tre liste si presentano in tutto il regno: la Lista Nazionale il cui leader è Benito Mussolini, il Partito Popolare Italiano il cui leader è Alcide De Gasperi e il Partito Socialista Unitario il cui leader è Giacomo Matteotti, che il 10 giugno pronuncierà un vibrante atto d'accusa contro il metodo violento fascista durante la competizione elettorale, che gli costerà la vita. Su una popolazione stimata in 39.900.000 residenti (39.396.757 censiti nel 1921 e 41.043.489 censiti nel 1931), hanno diritto di voto 11.939.452 uomini, pari al 29,92% della popolazione, di cui votano in 7.614.451, il 63,78% degli aventi diritto. I voti nulli e contestati non assegnati sono 448.949, il 6,27% mentre il quorum premio è assegnato a 1.903.613 voti, il 25%.
Partiti                                                                                                        voti             % voti       seggi
Lista Nazionale (PNFascista, destra, liberal-nazionali, nazional-pop)       4.305.936     60,09       355
Lista Nazionale bis (fascisti estremisti e fiancheggiatori fidati)                    347.552       4,85        19
Partito Popolare Italiano                                                                              645.789       9,01        39
Partito Socialista Unitario                                                                            422.957       5,90        24
Partito Socialista Italiano                                                                             360.694       5,03        22
Partito Comunista d'Italia                                                                             268.191       3,74       19
Partito Repubblicano Italiano                                                                      133.714       1,87         7
Partito Democratico Sociale Italiano                                                             111.035       1,55       10
Bandiera nazionale (liberali di Giovanni Giolitti)                                             78.099      1,09         4
Orologio (liberali indipendenti Alfonso Rubilli e Gianfranco Tosi)                   74.317      1,04         4
Partito dei Contadini d'Italia                                                                           73.569      1,03         4
Stella nera (opposizione costituzionale Giovanni Amendola)                          72.941     1,02         8
Slavi e Tedeschi                                                                                             62.491      0,87         4
Cavallo (opposizione cost. Vincenzo Giuffrida: nittiani e socialriformisti)         45.365      0,63        5
Stella bianca (opposiz. Ivanoe Bonomi: dem. autonomi, LDN, dissidenti)        33.473      0,47        -
Bandiera nazionale (liberali A. Pezzullo, G. Barattolo e Giuseppe Toscano)   29.936      0,42        3
Bandiera nazionale e corona reale (Camillo Corradini)                                   29.574      0,41        2
Partito Sardo d'Azione                                                                                     24.059      0,34        2
Aquila sormontata da stella (fascisti dissidenti R. Sala e Cesare Forni)           18.062      0,25       1
Bilancia (liberali Silvestro Graziano)                                                                 12.925      0,18       1
Etna (opposizione costituzionale Ettore Lombardo Pellegrino)                           6.153      0,09       1
Stemma di Bari (liberali indipendenti Nicola De Grecis)                                      5.275      0,07       1
David fromboliere (liberali indipendenti Giuseppe Maria Fiamingo)                    3.395      0,05       -
Totale                                                                                                           7.165.502    100   su 535 seggi. In base alla nuova legge elettorale (legge 18 novembre 1923 n. 2444, nota come "legge Acerbo"), alla lista più votata a livello nazionale - purché avesse almeno il 25% - venivano assegnati i 2/3 dei seggi in tutte le circoscrizioni (ciò significava l'elezione in blocco di tutti i candidati della lista, essendo essi 356), mentre gli scranni rimanenti erano assegnati alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti e secondo ordine di preferenza personale. Il "listone", cui spettavano 356 seggi, a causa della sopravvenuta morte di uno dei suoi candidati, Giuseppe De Nava, perse un seggio a favore del PCI, in quanto lista con maggiori resti. Dal 31 ottobre 1922 sarà il fascista Benito Mussolini a governare, fino al 1943.

Giacomo Matteotti
Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, dopo aver pronunciato un vibrante atto d'accusa contro il metodo violento fascista durante la competizione elettorale, viene rapito sul lungotevere da uomini di fiducia del dittatore, tra i quali Dumini, Volpi e Malacria, e assassinato.

Il 27 luglio, i deputati dell'opposizione, guidati da Giovanni Amendola, tranne i membri del PCI, si ritirano dalla Camera nella speranza che questo "Aventino" mandi in crisi il governo. Il fascismo accusa il colpo, ma proprio la divisione tra comunisti e "aventiniani" permette al governo di promulgare numerose leggi a proprio favore.
Il 27 dicembre scoppia la bomba del memoriale Rossi. L'ex capo dell'ufficio stampa del Duce accusa Mussolini di essere il mandante dell'omicidio Matteotti.
In Russia, a seguito delle ferite riportate in un attentato anni prima, muore Lenin.

Durante il 1924, il Centro Nazionale Italiano di Paolo Mattei-Gentili ed Egilberto Martire, provocano ulteriori scissioni nel Partito Popolare Italiano.

Il 3 gennaio 1925 Mussolini, con un discorso alla camera dei deputati, si accolla tutte le responsabilità delle violenze fasciste. Si instaura così il regime dittatura fascista con le sue caratteristiche violente ed antidemocratiche. « Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi. »
Questo discorso prelude all'avvento della dittatura.

Il 26 gennaio 1925, nel suo primo e unico intervento da deputato, Gramsci denuncia il carattere di regime piccolo-borghese del fascismo, alleato e sponsorizzato dai grandi proprietari terrieri e industriali ed ironizza pesantemente su Mussolini, ex alleato di partito, rievocando il suo passato socialista.

Il 4 novembre 1925 Tito Zaniboni, ex deputato socialista, attenta alla vita di Mussolini, ma il suo gesto viene sventato dall'intervento della polizia.

Nel biennio 1925-1926 vengono emanati una serie di provvedimenti liberticidi: sono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, venne soppressa ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata la pena di morte e venne creato un Tribunale speciale con amplissimi poteri, in grado di mandare al confino, con un semplice provvedimento amministrativo, le persone sgradite al regime.

Il 24 dicembre 1925 una legge cambia le caratteristiche dello stato liberale: Benito Mussolini cessa di essere presidente del Consiglio, cioè primus inter pares tra i ministri e diventa primo ministro segretario di Stato, nominato dal re e responsabile di fronte a lui e non più al Parlamento; a loro volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà essere discusso dal Parlamento senza l'approvazione del primo ministro. Il 4 febbraio 1926 i sindaci elettivi vengono sostituiti da podestà nominati con decreto reale, mentre gli organi elettivi quali consigli e giunte vengono sostituiti da consulte comunali di nomina prefettizia. Il 16 marzo 1928 la Camera dei deputati è chiamata a votare il criterio per il rinnovo della rappresentanza nazionale. Il criterio prevede una lista unica di 400 candidati scelti dal Gran Consiglio del Fascismo su proposta dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro nonché da altre associazioni riconosciute. Gli elettori approveranno o meno tale lista. La riforma passa, quasi senza discussioni, con 216 sì e 15 no. Giolitti è uno dei pochi a protestare, ma viene messo subito a tacere da Mussolini con la frase: «Verremo da lei a imparare come si fanno le elezioni». Al Senato del Regno le proteste sono leggermente più animate, ma la legge passa con 161 favorevoli e 46 contrari. L'8 dicembre si chiude così la 28ma legislatura.

Inizialmente benvisti da Mussolini, i clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti Lateranensi del 1929.

L'11 febbraio 1929 si stipulano i “Patti Lateranensi” (nome che deriva dal palazzo di San Giovanni in Laterano, in cui avvenne la firma dei patti), gli accordi di mutuo riconoscimento tra il Regno d'Italia e la Santa Sede, grazie ai quali per la prima volta dall'Unità d'Italia, sono stabilite regolari relazioni bilaterali tra Italia e Santa Sede. I Patti furono negoziati tra il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per conto della Santa Sede e il presidente del Consiglio dei ministri nonché Duce d'Italia Benito Mussolini per conto del Regno d'Italia. Il rapporto tra Stato e Chiesa era precedentemente disciplinato unilateralmente dalla cosiddetta «legge delle Guarentigie», approvata dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871 dopo la presa di Roma ma mai riconosciuta dai Pontefici, da Pio IX in poi, per cui la somma stanziata anno per anno dal governo italiano veniva conservata in un apposito conto, in attesa di concludere un accordo con la Santa Sede.
I Patti Lateranensi constano di tre distinti documenti:
- il primo riconosce l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede ed è l'atto fondativo dello Stato della Città del Vaticano;
- il secondo, la "Convenzione Finanziaria", prevede un risarcimento di 750 milioni di lire a beneficio della Chiesa. Regola quindi le questioni sorte dopo le spoliazioni degli enti ecclesiastici a causa delle leggi eversive,
- terzo, il Concordato che definisce le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa e il Governo, mentre fino a quel momento, dalla nascita del Regno d'Italia, le relazioni fra i due enti erano sintetizzate nel motto: «libera Chiesa in libero Stato». È inoltre prevista l'esenzione, per il nuovo Stato denominato «Città del Vaticano», dalle tasse e dai dazi sulle merci importate e il risarcimento di "1 miliardo e 750 milioni di lire e di ulteriori titoli di Stato consolidati al 5 per cento al portatore, per un valore nominale di un miliardo di lire" per i danni finanziari subiti dallo Stato pontificio in seguito alla fine del potere temporale.

Il governo italiano acconsentì inoltre a rendere le proprie leggi sul matrimonio e il divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica di Roma (Mussolini si pronuncia contro il divorzio e dovettero passare 34 anni prima che la legge sul divorzio venisse rimessa in discussione) e di rendere il clero esente dal servizio militare. I Patti garantirono alla Chiesa il riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato in Italia, con importanti conseguenze sul sistema scolastico pubblico, come l'istituzione dell'insegnamento della religione cattolica, già presente dal 1923 e tuttora esistente seppure con modalità diverse. Con i Patti Lateranensi sembra acquietarsi lo scontro tra la Chiesa e lo Stato fascista, che raccoglie un vasto consenso popolare dalla pacificazione con il papa e le gerarchie ecclesiali, anche se l'imprevedibilità e il populismo insiti in Mussolini rendevano poco affidabile quella politica di «buon vicinato» che i cattolici si auguravano.

Fronte della scheda
elettorale del sì
Il 24 marzo 1929 si sarebbero dovute svolgere le ventunesime elezioni politiche del Regno d'Italia, ma la dittatura fascista, oltre a limitare il diritto di voto, le trasforma in un plebiscito. Il diritto al voto viene ristretto ai soli cittadini maschi iscritti a un sindacato o a una associazione di categoria, in servizio permanente nei corpi armati dello Stato, oltre ai religiosi. Per questo motivo, gli aventi diritto al voto sono poco meno di 9,5 milioni, contro i 12,1 milioni del 1924 e gli 11,5 milioni del 1921. Inoltre la votazione si svolge in forma plebiscitaria.
Gli elettori potevano votare SÌ o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. L'elettore veniva fornito di due schede di uguali dimensioni, bianche all'esterno, recanti all'interno la formula: "Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?"; nella scheda con il SI l'interno era anche corredato da due bande tricolore, in quella con il NO la scheda si presentava bianca.
L'elettore doveva al momento del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la scheda scartata per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la scheda prescelta affinché si assicurassero che essa fosse "accuratamente sigillata".
Retro della scheda
elettorale del sì, con i colori
che traspaiono.
Questo farraginoso sistema aveva di fatto un effetto inibitorio verso l'elettore che non poteva avere una certezza assoluta sulla segretezza del voto, proprio a causa di quest'ultimo passaggio, anche se formalmente la legge sembrava garantire la riservatezza. In caso di vittoria dei NO si sarebbero dovute ripetere le elezioni con l'ammissione di altre liste proposte da enti o associazioni autorizzati dalla legge, con almeno 5000 firmatari aventi diritto al voto (Regio decreto nº 1993 del 2 settembre 1928, in particolare l'art. 57). Su una popolazione stimata in 40.700.000 residenti (39.396.757 censiti nel 1921 e 41.043.489 censiti nel 1931), hanno diritto di voto 9.460.737 uomini, pari al 23,24% della popolazione, di cui votano in 8.661.820, il 91,5% degli aventi diritto... Un record!
                     voti           % voti
SÌ           8.517.838       98,33
NO            135.773         1,56
Nulle             8.209          0,11
Totale     8.661.820         100
Dal 31 ottobre 1922, sarà il dittatore fascista Benito Mussolini a governare, fino al 25 luglio 1943.

Nel 1931 emergono nuovi dissapori fra Stato e Chiesa, quando il fascismo chiede la chiusura dell'Azione Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di presenza nella società.

Il 25 marzo 1934 si sarebbero dovute svolgere le ventiduesime elezioni politiche del Regno d'Italia ma, come nel 1929, la dittatura fascista impone un plebiscito. Il Suffragio universale maschile vigente dal 1912 (il diritto al voto) continua ad essere ristretto ai soli cittadini maschi iscritti a un sindacato o a una associazione di categoria, in servizio permanente nei corpi armati dello Stato, oltre ai religiosi e la votazione si svolge di nuovo in forma plebiscitaria. Gli elettori potevano votare SÌ o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. L'elettore veniva fornito di due schede di uguali dimensioni, bianche all'esterno, recanti all'interno la formula: "Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?"; nella scheda con il SI l'interno era anche corredato da due bande tricolore, in quella con il NO la scheda si presentava bianca. L'elettore doveva al momento del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la scheda scartata per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la scheda prescelta affinché si assicurassero che essa fosse "accuratamente sigillata". Questo farraginoso sistema aveva di fatto un effetto inibitorio verso l'elettore che non poteva avere una certezza assoluta sulla segretezza del voto, proprio a causa di quest'ultimo passaggio, anche se formalmente la legge sembrava garantire la riservatezza. In caso di vittoria dei NO si sarebbero dovute ripetere le elezioni con l'ammissione di altre liste proposte da enti o associazioni autorizzati dalla legge, con almeno 5000 firmatari aventi diritto al voto (Regio decreto nº 1993 del 2 settembre 1928, in particolare l'art. 57). Su una popolazione stimata in 41.855.000 residenti (41.043.489 censiti nel 1931 e 42.398.489 nel 1936), hanno diritto di voto 10.433.536 uomini, pari al 24,92% della popolazione, di cui votano in 10.041.997, il 96,2%... Un ulteriore record!
                   voti             % voti
SÌ         10.026.513       99,84
NO              15.265         0,15
Nulle                 219         0,01
Totale    10.041.997        100

Le colonie italiane intorno al corno
d'Africa con indicate le località
di rilievo nelle guerre coloniali.
Il 3 ottobre 1935 scoppia la guerra d'Etiopia o seconda guerra italo-etiopica (talvolta nota anche come guerra d'Abissinia o campagna d'Etiopia), condotta dal Regno d'Italia contro l'Impero d'Etiopia.
Il 9 maggio 1936 si conclude il conflitto, dopo sette mesi di combattimenti, l'invasione totale del territorio etiope e con l'assunzione della corona imperiale da parte di Vittorio Emanuele III (la cosiddetta "Proclamazione dell'Impero"),. La guerra fu caratterizzata dall'utilizzo di armi chimiche, su richiesta del maresciallo Pietro Badoglio, per casi estremi e difensivi ed accolta da Mussolini. Peraltro le ostilità non cessarono con la fine delle operazioni di guerra convenzionali, ma si prolungarono con la crescente attività della guerriglia etiope dei cosiddetti arbegnuoc ("patrioti") e con le dure misure repressive attuate dall'Italia.
Gli effettivi impiegati nel conflitto furono: 464.000 soldati italiani, 60.000 ascari eritrei, 25.000 dubat somali, 7.800 ascari libici da parte del il Regno d'Italia e 300.000 uomini gli etiopici.
Le perdite fino al 31 dicembre 1936 furono: 3.731 soldati e 619 civili italiani morti (totale 4.350), tra i 3.000 e i 4.500 ascari morti e circa 9.000 feriti per il Regno d'Italia e circa 275.000 soldati morti con circa 500.000 feriti per l'impero d'Etiopia.

L'aggressione dell'Italia contro l'impero d'Etiopia, all'epoca uno dei due soli stati (assieme alla Liberia) indipendenti dell'Africa, ebbe delle conseguenze anche da parte della comunità internazionale che si espresse con delle sanzioni economiche all'Italia fascista, che reagirà, vista l'impossibilità ad importare merci, con l'autarchia, la produzione in proprio di tutto quello che prima si importava.

Nel 1936, durante la Guerra civile spagnola i clericali di tutta Europa si schierano apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain.
1938, Mussolini ed Hitler in parata a
Monaco il giorno prima della firma del
Patto di Monaco, da Wikipedia.
Il 18 settembre 1938, a Trieste, Benito Mussolini, annuncia ed elenca dal balcone del Municipio, in occasione della sua visita alla città, le leggi razziali fasciste, un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari, ecc.) rivolti prevalentemente - ma non solo - contro le persone di religione ebraica, applicati inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Saranno abrogate con i regi decreti-legge nn. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emessi durante il Regno del Sud. La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico - come banche e assicurazioni - di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei - che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non vivessero in zone in cui i ragazzi ebrei erano troppo pochi per istituire scuole ebraiche - nelle scuole pubbliche, il divieto per le scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la creazione di scuole - a cura delle comunità ebraiche - specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole. Infine vi fu una serie di limitazioni da cui erano esclusi i cosiddetti arianizzati: il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l'annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.

Il 22 maggio 1939 si sigla il Patto d'Acciaio (in tedesco Stahlpakt), un accordo tra i governi del Regno d'Italia e della Germania nazista, firmato dai rispettivi ministri degli Esteri, Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop. Viene stipulato a Berlino nella Cancelleria del Reich, alla presenza di Hitler e dello Stato Maggiore tedesco. Il patto stringe un'alleanza sia "difensiva" sia "offensiva" fra i due Paesi. Nello specifico le parti sono obbligate a fornire reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettano a rischio i propri "interessi vitali". Questo aiuto sarebbe stato esteso al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra. Inoltre i due Paesi si impegnano a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di guerra, a non firmare eventuali trattati di pace separatamente. La durata del trattato fu inizialmente fissata in dieci anni. Nell'ampio preambolo veniva garantita l'inviolabilità della frontiera tra Reich e Regno d'Italia del Passo del Brennero e si riconosceva l'esistenza di uno "spazio vitale" dell'Italia che la Germania si impegnava a non infrangere. Il patto propriamente detto, che fu subito reso pubblico, era completato da un protocollo segreto nel quale si rimarcava l'alleanza politica fra le due dittature e si dava accenno ai metodi attraverso cui la collaborazione economica, militare e culturale già prevista dal patto avrebbe dovuto implementarsi. Il fatto che l'accordo avesse sia carattere difensivo che offensivo costituiva una sostanziale novità nella storia delle relazioni internazionali, in quanto la durata inusitata (dieci anni) e lo sbilanciamento della potenza bellica delle due nazioni forniva alla Germania il potere di iniziativa, che comportò la definitiva soppressione dell'autonomia italiana circa la propria politica estera. Alcuni membri del governo italiano, compreso il firmatario Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, si erano opposti al patto, ma invano.
Galeazzo Ciano
Al riguardo lo stesso Ciano, nel dicembre 1943, mentre era detenuto in vista del processo di Verona che lo avrebbe condannato a morte, scrisse nelle note introduttive al suo diario: « L'alleanza era stata firmata nel maggio. Io l'avevo sempre avversata ed avevo fatto in modo che le persistenti offerte tedesche fossero per lungo tempo rimaste senza seguito. Non vi era - a mio avviso - nessuna ragione per legarci - vita e morte - alla sorte della Germania nazista. Ero stato invece favorevole ad una politica di collaborazione perché, nella nostra posizione geografica, si può e si deve detestare la massa di ottanta milioni di tedeschi, brutalmente piantata nel cuore dell'Europa, ma non si può ignorarla. La decisione di stringere l'alleanza fu presa da Mussolini, all'improvviso, mentre io mi trovavo a Milano con Ribbentrop. Alcuni giornali americani avevano stampato che la metropoli lombarda aveva accolto con ostilità il ministro tedesco e che questa era la prova del diminuito prestigio personale di Mussolini. Inde ira [da ciò l'ira]. Per telefono ricevetti l'ordine, il più perentorio, di aderire alle richieste tedesche di alleanza, che da più di un anno avevo lasciato in sospeso e che pensavo di lasciarcele per molto tempo ancora. Così nacque il Patto d'acciaio. E una decisione che ha avuto influenze tanto sinistre sulla vita e sul domani dell'intero popolo italiano è dovuta, esclusivamente, alla reazione dispettosa di un dittatore contro la prosa, del tutto irresponsabile e senza valore, di alcuni giornalisti stranieri... »
Secondo un'altra versione, meno nota della prima, di Edda Ciano (figlia di Mussolini e moglie di Galeazzo Ciano) nemmeno il Duce, Benito Mussolini, intendeva allearsi con la Germania di Hitler, nonostante il governo tedesco insistesse, nella speranza di un'alleanza con Regno Unito e Francia. Così Mussolini decise di proporre un'alleanza a Hitler con accordi talmente svantaggiosi per i tedeschi da costringerlo a rifiutare. Il delicatissimo compito fu affidato a Galeazzo Ciano. In questo modo Mussolini sperava di ottenere altri tre o quattro anni durante i quali l'Italia si sarebbe preparata militarmente ad un eventuale conflitto in Europa, egli sperava inoltre che le democrazie europee cambiassero idea riguardo la loro decisione nel 1935 ( dopo la Guerra d'Etiopia) di rompere i rapporti diplomatici con l'Italia Fascista. Pur non essendo stabilita la data dell'inizio dei conflitti, cosa che appariva ormai inevitabile, Benito Mussolini si assicurò di comunicare più volte a Adolf Hitler che l'Italia non sarebbe stata pronta alla guerra prima di due o tre anni, e ribadendolo nell'agosto dello stesso anno, attraverso una lettera conosciuta comunemente come "memoriale Cavallero", dal nome dell'ufficiale incaricato di consegnare il messaggio.
Il 23 maggio, tuttavia, il giorno dopo la firma del Patto d'Acciaio Hitler tenne un consiglio di guerra segreto: all'ordine del giorno c'era l'attacco alla Polonia. Per i tedeschi, il compito degli italiani doveva essere quello di contenere la reazione di Francia e Inghilterra nel Mediterraneo.

L'emanazione delle leggi razziali e l'alleanza di Mussolini con la Germania nazista e pagana, rendono sempre più tesi i rapporti fra chiesa e regime fascista.

Nel 1939, per la XXX legislatura non ci sono state elezioni politiche, che avrebbero dovute essere le ventitreesime del Regno d'Italia, neppure plebiscitarie, e i membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni sono tutti nominati.

Nel 1939, a pochi mesi dallo scoppio della seconda guerra mondiale, è eletto papa Pio XII (1939-1958), che passa da una dichiarata neutralità ad una adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia.
1 settembre 1939.
- Il 1° settembre inizia la seconda guerra mondiale, dopo l'invasione della Polonia da parte della  Germania.
- L'Italia proclama la propria non belligeranza, mentre Francia e Gran Bretagna (definite poi gli Alleati) si schierano contro i tedeschi.  
- Durante la seconda guerra mondiale, il clericalismo supporta i regimi di Jozef Tiso in Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.

11 giugno 1940.
Nel 1940, il 10 giugno,  l'Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Il duce comunica la decisione dal balcone di palazzo Venezia: "Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria".
- 28 giugno: Italo Balbo, camicia nera della prima ora, attuale governatore della Libia, viene abbattuto per errore dalla contraerea italiana nei cieli di Tobruk.
- 28 settembre: Italia, Germania e Giappone firmano il Patto Tripartito, e verranno definite le potenze dell'Asse.
- 15 ottobre: Mussolini inizia la disastrosa campagna contro la Grecia.
- Viene pubblicato Per chi suona la campana” di H. Hemingway.

Nel 1941, il 27 novembre, dopo la resa del duca Amedeo d'Aosta sull'Amba Alagi cadono le ultime forze italiane a Gondar, nell'Africa Orientale, segnando la fine dell'Impero. In pochi mesi l'esercito britannico, con la collaborazione della resistenza etiopica, libera il territorio etiopico dopo 5 anni di occupazione italo-fascista. La Germania invade l'Unione Sovietica.

Nel 1942, per la prima volta dall'inizio del conflitto, Mussolini fa un resoconto dei costi umani pagati fino a quel momento dall'Italia: 42.000 morti e 232.000 prigionieri.
L'inizio della disfatta della Germania nazista e dei suoi alleati è segnata dalla battaglia di Stalingrado, svoltasi tra l'estate del 1942 ed il 2 febbraio 1943, che oppose i soldati dell'Armata Rossa sovietica alle forze tedesche, italiane, rumene ed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd), sul fronte orientale. 
Ubicazione di Stalingrado, oggi
chiamata Volgograd, nel cerchietto
rosso.
La battaglia, iniziata nell'estate 1942 con l'avanzata delle truppe dell'Asse (tedeschi, italiani, rumeni ed ungheresi) fino al Don e al Volga, ebbe termine nell'inverno 1943, dopo una serie di fasi drammatiche e sanguinose, con l'annientamento della 6ª Armata tedesca rimasta circondata a Stalingrado e con la distruzione di gran parte delle altre forze germaniche e dell'Asse impegnate nell'area strategica meridionale del fronte orientale. Le truppe italiane furono massacrate e i pochi che tornarono, dovettero farlo a piedi, fra i ghiacci della steppa russa. Questa lunga e gigantesca battaglia, definita da alcuni storici come "la più importante di tutta la Seconda guerra mondiale", segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l'inizio dell'avanzata sovietica verso ovest che sarebbe terminata due anni dopo con la conquista del palazzo del Reichstag e il suicidio di Hitler nel bunker della Cancelleria durante la battaglia di Berlino. Quindi furono i sovietici i primi a vincere decisamente sui tedeschi e furono loro a prendere Berlino.

Nel 1943, il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo, con 19 voti a favore su 28, vota la mozione di sfiducia a Mussolini, che è invitato a rinunciare a tutte le sue cariche. Dino Grandi fu l'estensore dell'ordine del giorno che provocò la caduta di Mussolini. Fu decisivo infatti, il suo voto e fu essenziale la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo.
Da tempo, condiviso da Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, Grandi riteneva che una via d'uscita per evitare la disfatta militare dell'Italia avrebbe potuto sortire soltanto dalla sostituzione (ovvero dalla deposizione) del duce, che nell'identificazione personale con il Regime (Fascismo = Mussolini, e viceversa) aveva condotto, a loro vedere, l'idea fascista originaria ad essere condizionata e compromessa dai suoi errori. Ciano, invece, pragmaticamente vedeva davanti a sé una soluzione "all'italiana": Mussolini, disse al suo interlocutore, «se ne andrà e noi in qualche modo ci aggiusteremo». E previde anche le prossime attribuzioni di alcuni ministeri.
23 luglio 1943
- Il 26 luglio Mussolini viene arrestato e i pieni poteri vengono conferiti al maresciallo Pietro Badoglio. 
Pietro Badoglio nel '34
- L'8 settembre viene annunciato l'armistizio tra il governo Badoglio e gli alleati. Pochi giorni dopo Mussolini viene liberato dai paracadutisti tedeschi e crea la Repubblica Sociale, con sede a Salò.
È l'inizio della guerra civile tra partigiani antifascisti e "repubblichini" filo-nazisti. 
Dopo accordi presi con gli Alleati (Inghilterra, Stati Uniti e Francia) alla fine di luglio, Badoglio, nuovo capo del governo e dello stato maggiore militare, annuncia la resa dell'Italia, l'arresto di Mussolini e la nuova alleanza con gli Alleati. Nell'Italia centrale e settentrionale è stanziato l'esercito tedesco, ora nemico, e non vengono dati nuovi ordini alle truppe italiane, ormai allo sbando in Russia, Africa, Grecia e Albania.

Formazione di partigiani in
movimento durante la Resistenza.
La Resistenza nasce a Roma, in un alloggio al quartiere Salario, nel pomeriggio del 9 settembre 1943, il giorno seguente alla dichiarazione di armistizio, con la costituzione del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) durante una riunione cui partecipavano esponenti di tutte le forze di opposizione al fascismo, componenti di quello che fin allora si era definito “Comitato delle Opposizioni”. Erano presenti l’indipendente Ivanoe Bonomi, il democristiano Alcide De Gasperi, il liberale Alessandro Casati, il socialista Pietro Nenni, il comunista Mauro Scoccimarro e Ugo La Malfa per il partito d’azione. Fu approvata una risoluzione che diceva: “Nel momento il cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”. Al Comitato aderì in seguito Meuccio Ruini, del partito della Democrazia del Lavoro. L’Italia in quel momento si trovava completamente prostrata e senza guida. La mattina di quello stesso 9 settembre il recon la famiglia e con un largo seguito di generali e alti ufficialiaveva lasciato Roma alla volta di Pescara, dove poi si sarebbe imbarcato per Brindisi. La disfatta sul piano militare si presentava a quel punto totale e definitiva. I tedeschi, secondo i dati forniti dai loro comandanti sul campo, avevano disarmato “sicuramente” 51 divisioni italiane e “probabilmente” altre 29, avevano fatto 547.000 prigionieri, fra cui 34.744 ufficiali, e si erano impossessati di un enorme bottino di armi leggere e pesanti, cannoni e mezzi corazzati, oltre ad aerei di prima linea e di altro tipo e diverse unità navali. Per tutto il mese di agosto si assistette al passaggio di treni diretti al nord, carichi di uomini allo sbando, senza alcun ordine o disciplina, in condizioni pietose di vestiario, alla ricerca affannosa di cibo e di acqua da bere: una vicenda dalla quale io sono rimasto provato per tutta la vita.
Il sentimento diffuso, come conseguenza prima di questa penosa situazione, fu l’odio contro i tedeschi che già nel corso del tempo era venuto maturando fra le gente: il tedesco, sia pure nei pochi giorni di totale dominio, era stato un padrone brutale, ed era ora anche un padrone sconfitto, che fuggiva. Al sud, dopo l’armistizio, la popolazione era insorta contro i tedeschi. A Napoli la guerriglia esplose disordinata, improvvisata, ma insistente e spavalda: dal 27 al 30 settembre alcune centinaia di persone, tra cui molti scugnizzi irridenti e speso intrepidi, tennero sotto scacco le truppe tedesche in ritirata costringendo il loro comandante a firmare un accordo per cui gli insorti consentivano a lasciar partire senza molestie un reparto asserragliato al Vomero in cambio della restituzione dei civili catturati. E tuttavia, nelle quattro giornate di Napoli si contarono 66 vittime civili. Episodi analoghi di resistenza spontanea della popolazione si registrarono in varie altre località della Campania e della Basilicata: di particolare rilievo fu la sollevazione di Matera, ove undici ostaggi perdettero la vita, fatti saltare in aria con la caserma dove erano stati rinchiusi. Lo storico Roberto Battaglia attribuisce a queste azioni un alto contenuto sociale: non c’era solo la collera contro l’occupante, ma “un improvviso e quasi brusco risveglio ad un clima durissimo di combattimento e di sacrificio, già preannunciato e anticipato dagli episodi di rivolta contadina … verificatisi nelle stesse regioni durante l’ultima fase del regime fascista”. La Resistenza fu una sollevazione popolare, una reazione di massa nel momento in cui le sofferenze della guerra, i disagi gravissimi per la popolazione, le distruzioni delle città e le perdite di vite umane diedero agli italiani la tragica misura della brutale follia del fascismo e della profondità del baratro in cui esso aveva precipitato il Paese. Da quella ormai chiara percezione dell’immane catastrofe nacque la Resistenza, con il rinnovato bisogno di libertà, con il ritorno appassionato ai valori della democrazia, infine con il recupero di una dignità nazionale che sarà poi il motore della ricostruzione. Al diffuso sentimento e allo sforzo coraggioso, spesso eroico, della popolazione civile si affiancò l’impegno patriottico di quei corpi militari che, ricostituitisi dopo l’armistizio, andarono a combattere contro i tedeschi per la liberazione del paese. Questo profondo cambiamento dell’anima del popolo italiano, per più di venti anni smarritosi in larga maggioranza nell’adesione acritica ad una nefasta ideologia nazionalistica che lo ha aveva privato della libertà e dei diritti fondamentali di cittadinanza riconosciuti in tutti i paesi civili, fu pagato a caro prezzo.

Il 23 settembre, col nome di Stato Nazionale Repubblicano, fu costituita la Repubblica Sociale Italiana (o RSI, o Repubblica di Salò). Creata da Benito Mussolini, per espressa volontà di Adolf Hitler, dopo che il Regno d'Italia, nel contesto della Seconda guerra mondiale, aveva concluso il 3 settembre 1943 l'armistizio di Cassibile con le forze anglo-americane. Il suo primo consiglio dei ministri si tenne il 28 settembre 1943, alla Rocca delle Caminate, presso Forlì, per nominare i responsabili del nuovo governo repubblicano fascista ed è informalmente nota come Repubblica di Salò; tuttavia, la cittadina lombarda sulle rive del Garda non era né la capitale de facto, né la città sede del Capo di Stato e del governo, ma a Salò avvenivano gli incontri di relazione estera, essendo anche sede del Ministero della Cultura Popolare e degli Esteri e la maggior parte dei dispacci ufficiali recavano l'intestazione "Salò comunica...". Considerata uno "Stato fantoccio" della Germania nazista (lo stesso Mussolini ne era consapevole), la Repubblica Sociale Italiana non fu riconosciuta dalla comunità internazionale. Fu considerata erede del Regime fascista italiano dalla Germania, che la riconobbe ma esercitò su di essa un protettorato de facto. Fu riconosciuta anche dall'Impero giapponese e dalla maggioranza degli altri Stati dell'Asse: la Slovacchia, l'Ungheria, la Romania, la Croazia, la Bulgaria, la Francia di Vichy e il Manciukuò. Fondamenti ideologico-giuridico-economici della Repubblica Sociale Italiana furono il fascismo, il socialismo nazionale, il repubblicanesimo, la socializzazione, la cogestione, il corporativismo e l'antisemitismo. La Repubblica Sociale Italiana, proclamata il 23 settembre 1943, rivendicava la propria sovranità su tutto il territorio del Regno d'Italia, ma per gli sviluppi bellici poté esercitarla solo sulle province non soggette all'avanzata alleata. Inizialmente la sua attività amministrativa si estendeva nominalmente fino alle province settentrionali della Campania, ritirandosi progressivamente sempre più a nord, in concomitanza con l'avanzata degli eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i tedeschi istituirono due "Zone d'operazioni" comprendenti rispettivamente: le province di Trento, Bolzano e Belluno (Zona d'operazioni delle Prealpi), e le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d'operazioni del Litorale adriatico), che furono sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia, anche se non formalmente annesse al Terzo Reich. A nord l'exclave di Campione d'Italia rimase sotto la sovranità del Regno. Venuta meno de facto negli ultimi giorni dell'aprile 1945, la RSI cessò ufficialmente di esistere con la resa di Caserta del 29 aprile 1945 (operativa dal 2 maggio). La RSI fu in realtà un protettorato tedesco, sfruttato dai nazisti per legalizzare alcune loro annessioni e per ottenere mano d'opera a basso costo. Voluto dal Terzo Reich come apparato per amministrare i territori occupati del Nord e Centro Italia, lo Stato della RSI era infatti una struttura burocratica non dotata di potere autonomo effettivo, che in realtà era detenuto dai tedeschi. Con il funzionamento di uno Stato fantoccio i tedeschi potevano così riscuotere le spese di occupazione, stabilite nell'ottobre 1943 a 7 miliardi di lire, passate successivamente a 10 miliardi (17 dicembre 1943) e infine a 17 miliardi. L'intero apparato della Repubblica di Salò era infatti controllato dai militari tedeschi, memori del "tradimento" che gli italiani avevano consumato con l'armistizio dell'8 settembre. Il controllo non veniva esercitato solo sulla direzione della guerra e degli affari militari ma spesso anche sull'Amministrazione della Repubblica. Le stesse autorità militari potevano avere infatti anche funzioni civili. In tal modo «...una vasta rete di autorità avente competenze militari ma anche civili fu stesa dai tedeschi nell'Italia da essi controllata...». Alla Repubblica Sociale non fu consentito di poter riportare in patria i militari internati dai tedeschi in seguito all'8 settembre, ma solo di poter reclutare volontari fra di essi per la costituzione di divisioni dell'Esercito da addestrarsi in Germania. In Italia il volontariato fascista e la militarizzazione di organizzazioni esistenti dotarono la RSI di forze armate numericamente consistenti (complessivamente fra i 500 e gli 800.000 uomini e donne sotto le armi), ma queste furono impiegate, a volte anche contro il loro desiderio, soprattutto in operazioni di repressione, sterminio e rappresaglia contro i partigiani e le popolazioni accusate di offrirgli sostegno. Unità della Xª Mas, comandata dal principe Junio Valerio Borghese, parteciparono comunque ai combattimenti contro gli Alleati ad Anzio, in Toscana, sul fronte carsico e sul Senio; le divisioni addestrate in Germania si batterono sul fronte della Garfagnana (Monterosa e Italia) e su quello francese (Littorio e Monterosa). Reparti singoli furono incorporati in grandi unità tedesche, mentre nelle retrovie battaglioni del Genio italiani furono utilizzati dai comandi germanici per la costruzione di opere difensive, per le opere di riattamento delle vie di comunicazione danneggiate dall'offensiva aerea nemica e dai sabotaggi e come salmerie da combattimento. Contributi marginali alle operazioni militari contro gli Alleati furono compiuti dal naviglio sottile della Marina Nazionale Repubblicana e dai reparti di volo dell'Aeronautica Nazionale Repubblicana; più intenso fu l'impiego dei reparti contraerei, inquadrati nella FlaK tedesca, e paracadutisti, sul fronte francese e laziale. Il grosso delle forze armate repubblicane fu impiegato soprattutto come presidio territoriale e guardia costiera. La creazione della Repubblica Sociale Italiana sotto diretta tutela della Germania fu l'inizio della caccia all'ebreo anche in territorio italiano, cui contribuirono attivamente reparti e bande armate della RSI. Talvolta il movente era costituito da ricompense in denaro «...essendo a conoscenza che i tedeschi pagavano una certa somma per ogni ebreo consegnato nelle loro mani, vi furono elementi delle Brigate Nere, delle SS italiane, delle varie polizie che infestavano il Nord, pronti a dedicarsi a questa caccia con tutto lo slancio possibile...». Secondo Liliana Picciotto Fargion, risulta che del totale degli ebrei italiani deportati, il 35,49%, venne catturato da funzionari o militari italiani della Repubblica Sociale Italiana, il 4,44% da tedeschi ed italiani insieme e il 35,49% solo da tedeschi (il dato è ignoto per il 32,99% degli arrestati). Fra le retate completamente organizzate ed eseguite da italiani della RSI assume particolare rilievo il rastrellamento di Venezia effettuato tra il 5 ed il 6 dicembre 1943: 150 ebrei furono arrestati in una sola notte. La stessa triste vicenda del rastrellamento e della deportazione degli ebrei romani (effettuata dai tedeschi sotto il comando di Herbert Kappler) vide l'attiva collaborazione delle autorità della Repubblica Sociale Italiana e in particolare del commissario Gennaro Cappa, responsabile del Servizio Razza della Questura di Roma. Il 30 novembre 1943 fu emanato da Buffarini Guidi l'Ordine di polizia n°5 secondo il quale gli ebrei dovevano essere inviati in appositi campi di concentramento. Il 4 gennaio 1944 gli ebrei vennero privati del diritto al possesso. Subito dopo iniziarono ad essere emessi i primi decreti di confisca che già il 12 marzo successivo ammontavano a 6.768 (fra terreni, fabbricati, aziende, ecc.); agli ebrei venivano sequestrati anche arti ortopedici, medicine, spazzole da scarpe e calzini usati. Nel frattempo iniziarono le deportazioni, effettuate dai nazisti con l'aiuto e la complicità della R.S.I. come si è già avuto modo di segnalare. Guido Buffarini Guidi concesse ai tedeschi l'uso del Campo di Fossoli, nei pressi di Carpi, nel modenese, attivo fin dal 1942 e preferì ignorare l'apertura del Campo di concentramento della Risiera di San Sabba che, sebbene situato nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico, faceva ancora parte de iure della R.S.I. Le cifre degli italiani di religione ebraica deportati fino alla caduta della R.S. I., se rapportate alla consistenza complessiva della comunità israelita presente in Italia (costituita da 47.825 unità nel 1931, di cui 8.713 ebrei stranieri), sono elevate e rappresentano la quarta o la quinta parte del totale. Secondo fonti affidabili, i deportati furono 8.451 di cui solo 980 fecero ritorno; agli scomparsi nei campi di concentramento e di sterminio vanno aggiunti tuttavia 292 ebrei uccisi in Italia. In totale vennero assassinati dai nazifascisti 7.763 ebrei italiani. Le Brigate Nere furono l'ultima creazione armata della Repubblica Sociale. L'idea di un «esercito fascista», politicizzato, di partito, era sempre stata uno dei cavalli di battaglia del segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini, che aveva proposto l'istituzione di un corpo con queste caratteristiche sin dai primi del '44, ma aveva ottenuto ben poco: il suo «centro di arruolamento volontario», nel quale si sarebbero dovuti presentare in massa i fascisti non ancora sotto le armi, rimase deserto: in circa tre mesi, solo il 10% degli iscritti, circa 47.000 su 480.000, rispose alla chiamata. La Guardia Nazionale Repubblicana fu sempre a corto sia di uomini che di mezzi. Pavolini riuscì però a sfruttare due opportunità che gli si offrirono una di seguito all'altra: l'occupazione di Roma da parte degli Alleati a giugno, e l'attentato a Hitler a luglio. Mussolini, scosso da questi avvenimenti, cedette ed emanò il decreto (pubblicato sulla Gazzetta il 3 agosto) per l'istituzione del Corpo ausiliario delle Camicie Nere. Il nuovo corpo, sottoposto a disciplina militare ed al Codice penale militare di guerra, fu costituito da tutti gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano di età compresa tra i diciotto e sessanta anni non appartenenti alle Forze Armate, organizzati in Squadre d'Azione; il segretario del Partito dovette trasformare la direzione del Partito in un ufficio di Stato maggiore del Corpo ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere, le Federazioni si trasformarono in Brigate del Corpo ausiliario, il cui comando fu affidato ai capi politici locali. Il decreto, in poche parole, come recitava il testo, faceva sì che «la struttura politico-militare del Partito si trasformasse in un organismo di tipo esclusivamente militare». Fu Pavolini a coniare la denominazione «Brigate Nere», con la quale voleva esprimere la loro contrapposizione alle formazioni partigiane della Resistenza legate ai partiti di sinistra, «Brigate Garibaldi», «Brigate Giustizia e Libertà», «Brigate Matteotti». Essendo segretario del Partito, e quindi comandante delle Brigate, spettò a lui compito di scegliere i suoi collaboratori: Puccio Pucci, funzionario del CONI, fu il suo più stretto aiutante, ed il primo capo di Stato maggiore fu il console Giovanni Battista Raggio. Il loro tentativo di riesumare lo squadrismo degli inizi (ma su scala più vasta) non si rivelò molto efficace: dei 100.000 uomini previsti da Pavolini se ne reperirono formalmente circa 20.000, e di questi solo 4.000 furono combattenti, militi cioè realmente operativi. Furono inquadrati nelle cosiddette Brigate Nere mobili, che sarebbero risultati gli unici reparti di questa milizia a combattere contro i partigiani.
Per le armi e i mezzi di trasporto le Brigate mobili dipendevano dai militari tedeschi, inizialmente più che contenti di poter contare sui fascisti repubblicani per le imprese antipartigiane, e specialmente per il "lavoro sporco". Le Brigate avrebbero composto un poco invidiabile e davvero poco onorevole curriculum: paesi incendiatidonne e bambini passati per le armi, deportazioni, sequestri, tortureesecuzioni sommarie. Ai crimini tipici delle azioni di contro-guerriglia, si aggiunsero quelli tipici di reparti che avevano arruolato ogni sorta di elemento, includendo anche più di un criminale: i rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana elencano numerosi casi di saccheggio, furto, rapina, arresto illegale, violenze a cose e persone. L'indisciplina e la violenza gratuita e scoordinata manifestate dalle Brigate sono dati accertati dagli stessi comandanti tedeschi, che persero il loro iniziale - seppur tiepido - entusiasmo verso la loro istituzione registrando come le Brigate fossero incapaci di coordinarsi con i reparti della Wehrmacht e non obbedissero agli ordini (che generalmente ignoravano); le loro violenze erano tali che, nelle zone in cui operavano, per reazione popolare, i partigiani aumentavano di numero. Il comandante in capo delle SS in Italia, generale Karl Wolff, forse per evitare un ulteriore aggravio del problema (ma anche perché stava per prendere iniziative di colloqui separati con gli Alleati e voleva operare un gesto di «distensione»), decise di mettere fuori combattimento le Brigate Nere mobili, prosciugando i loro canali di rifornimento.

Il piano Beveridge
nell'edizione
italiana.
Nel 1944 avviene lo sbarco in Normandia delle forze Alleate.
Quello stesso anno si stipulano gli Accordi di Bretton Woods. La conferenza di Bretton Woods si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell'omonima località nei pressi di Carroll (New Hampshire), per stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia del mondo di un ordine monetario totalmente concordato, pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Mentre ancora non si era spento il secondo conflitto mondiale, si preparò la ricostruzione del sistema monetario e finanziario, riunendo 730 delegati di 44 nazioni alleate per la conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite (United Nations Monetary and Financial Conference) al Mount Washington Hotel, nella città di Bretton Woods (New Hampshire). Dopo un acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono gli Accordi di Bretton Woods. Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò avvenne nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.

Churchill, Roosvelt e Stalin a Jalta.
Nel 1945, dal 4 all'11 febbraio, alla Conferenza di Jalta, in Crimea, Churchill, Roosevelt e Stalin definiscono il nuovo assetto europeo. L'alleanza in tempo di guerra tra Stati Uniti ed Unione Sovietica fu un'eccezione del normale tenore delle relazioni tra i due paesi. La rivalità strategica tra le due vaste nazioni, future superpotenze, risale al 1890 quando, dopo un secolo di amicizia, durante il quale, fra l'altro, la Russia vendette agli USA l'Alaska, americani e russi divennero rivali nello sviluppo della Manciuria.
La Russia zarista, incapace di competere industrialmente, cercò di chiudere e colonizzare parti dell'Asia Orientale, mentre gli americani richiedevano la competizione aperta per i mercati. Nel 1917, la rivalità divenne intensamente ideologica. Gli americani non dimenticarono mai che l'appena costituito governo sovietico, a causa della situazione interna, negoziò una pace separata con la Germania nella Prima guerra mondiale, lasciando gli Alleati soli a combattere le Potenze Centrali. D'altra parte la sfiducia sovietica nei confronti degli USA derivava dallo sbarco di truppe statunitensi in Russia nel 1918, le quali furono coinvolte, direttamente o indirettamente, nell'assistere i Bianchi zaristi anti-bolscevichi nella guerra civile russa. Da parte degli Alleati, la rottura da parte dell'URSS del Patto di Monaco del 1938 e la successiva firma del Patto Molotov-Ribbentrop con il terzo Reich del 1939, contribuirono ad alimentare un clima di sfiducia nei confronti dei sovietici.
Durante il secondo conflitto mondiale, i sovietici non dimenticarono le ripetute assicurazioni, a lungo disattese, di Franklin D. Roosevelt, che USA e Regno Unito avrebbero aperto un secondo fronte sul continente europeo. Infatti, mentre gli USA combattevano nel Mediterraneo e in Italia, prestavano aiuto ai sovietici solo bombardando pesantemente l'Europa Continentale e un'invasione Alleata su vasta scala del continente avvenne solo nel D-Day del giugno 1944, più di due anni dopo la richiesta dei sovietici e alla fine della guerra, l'URSS aveva sofferto perdite tremende, fino a venti milioni di morti.
Franklin Delano Roosvelt
Ma nonostante questi precedenti, a Jalta, Franklin Delano Roosevelt  doveva essere sinceramente convinto dell'esigenza di una pace duratura e probabilmente non pensava di aprire le ostilità contro Stalin, come invece avrebbe fatto Winston Churchill... ma morì il 12 Aprile 1945. Gli successe Harry S. Truman, che diventò presidente degli USA dall'aprile 1945, e che era determinato ad aprire i mercati mondiali al capitalismo e a modellare il mondo del dopoguerra secondo i principi stilati dalla Carta Atlantica: autodeterminazione, pari accesso economico, e un ricostruito capitalismo in Europa, che potesse servire nuovamente come centro degli affari mondiali. Ma non solo: Truman, e Eisenhower dopo di lui, si impegnarono soprattutto in una competizione internazionale con l'URSS e il blocco comunista. La lotta al comunismo ebbe risvolti anche all'interno degli USA, dando luogo ad una vera e propria “caccia al comunista”, il Maccartismo.

25 aprile 1945 in Italia.
Il 25 aprile 1945 è il giorno della liberazione dell'Italia dal nazifascismo.

L' 8 maggio 1945 la Germania si arrende mentre il Giappone si arrenderà in agosto, dopo lo sgancio di due bombe atomiche americane. Le truppe sovietiche e quelle degli  Alleati occidentali (USA, Regno Unito e Francia), erano dispiegate in determinate posizioni, essenzialmente lungo una linea al centro dell'Europa che venne chiamata Linea Oder-Neisse. Secondo lo spirito di Jalta, i vincitori potevano stare dove si trovavano e nessuno avrebbe usato la forza diretta per cacciar via gli altri. A parte alcuni aggiustamenti minori, questa sarebbe diventata la "Cortina di ferro" della Guerra Fredda. 
1945, truppe russe alla Porta di
Brandeburgo a Berlino.
La Germania fu suddivisa nella Repubblica Federale Tedesca (RFT) a ovest, con capitale Bonn e nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT) a est, in tedesco Deutsche Demokratische Republik, abbreviato in DDR. Tale prospettiva si applicava anche all'Asia, come evidenziato dall'occupazione statunitense del Giappone e dalla divisione della Corea.
Così Berlino, simbolo del nazismo e capitale della Germania hitleriana, venne a trovarsi nel territorio della Germania Est, ossia sotto l'influenza sovietica, venendo comunque suddivisa fra i vincitori del conflitto in 4 zone, tre delle quali, a Berlino ovest, controllate dagli Alleati democratici, con un corridoio via terra, all'interno della Germania dell'est, per poterla raggiungere. La quarta zona, Berlino est (la parte orientale della città) rimase appannaggio dell'Unione Sovietica, divenendo la capitale della Germania orientale,  la RDT.

Quando la guerra finì in Europa, l'8 maggio 1945, le truppe sovietiche e occidentali (USA, Regno Unito e Francia), erano dispiegate in determinate posizioni, essenzialmente lungo una linea al centro dell'Europa che venne chiamata Linea Oder-Neisse. A parte alcuni aggiustamenti minori, questa sarebbe diventata la "Cortina di ferro" della Guerra Fredda. In retrospettiva, Jalta significò l'accordo per cui entrambe le parti potevano stare dove si trovavano e nessuna avrebbe usato la forza diretta per cacciar via l'altra. Questo tacito accordo si applicava anche all'Asia, come evidenziato dall'occupazione statunitense del Giappone e dalla divisione della Corea.  

Nel 1946 Inizia il processo alla Germania nazista, a Norimberga.

Finita la guerra, per il referendum sulla scelta fra monarchia o repubblica, la Chiesa appoggia apertamente la causa monarchica trasformando l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra cristianesimo e comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolge un appello agli Italiani e senza accennare esplicitamente alla monarchia o alla repubblica, invita i votanti affinché scelgano tra il materialismo e il cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana. Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale.

La Repubblica italiana.
Nasce la Repubblica Italiana. La nascita della Repubblica Italiana avviene nel 1946, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno, indetto per determinare la forma di stato dopo il termine della seconda guerra mondiale. Si trattò di un passaggio di grande importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale ed un momento della storia nazionale assai ricco di eventi, cause, effetti e conseguenze, che è stato anche considerato una rivoluzione pacifica dalla quale si produsse l'attuale forma di Stato. La nascita della Repubblica fu accompagnata da polemiche circa la regolarità del referendum che la sancì. I presunti brogli elettorali ed altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, tuttavia, non sono stati mai accertati dagli storici, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica.
 Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello Stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta in una consultazione politica nazionale) elessero anche i componenti dell'Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale.
Su una popolazione stimata in 45 milioni di residenti (42.398.489 residenti censiti nel 1936 e 47.515.537 censiti nel 1951) votarono 12.998.131 donne e 11.949.056 uomini, per un totale di 24.947.187 votanti, il 55,438% della popolazione.
La Costituzione italiana da http://cmapspublic2.ihmc.
us/rid=1M51LJ77F-19Z5NRJ-1P5M/Costituzione%20
della%20Repubblica%20Italiana.cmap
12.717.923 (il 54,3% dei votanti) cittadini furono favorevoli alla repubblica e 10.719.284 (il 45,7% dei votanti) cittadini furono favorevoli alla monarchia
La notte fra il 12 e 13 giugno 1946, il Consiglio dei ministri conferì al presidente Alcide De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano mentre l'ex re Umberto II lasciò il paese il 13 giugno 1946. Alla sua prima seduta del 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio.

Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assunse per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948.

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