Antonio Gramsci |
Antonio Francesco Gramsci
(1891-1937) è stato un politico, filosofo, giornalista, linguista e
critico letterario italiano. Gli antenati paterni di Antonio Gramsci
erano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero
essere giunti in Italia fin dal XV secolo, durante la diaspora
albanese causata dall'invasione turca. Le lontane origini albanesi
erano conosciute dallo stesso Antonio Gramsci, che tuttavia le
immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht
dal carcere di Turi, il 12 ottobre del 1931: «[...] io stesso non ho
alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò
dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma si italianizzò
rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente
questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato
tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco
perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.».
A due anni, Antonio si ammalò del morbo di Pott, una tubercolosi
ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli
impedì una normale crescita: adulto, Gramsci non supererà il metro
e mezzo di altezza. Nel 1898 suo padre Francesco, impiegato
all'Ufficio del registro di Ghilarza, in Sardegna, è condannato al
carcere con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti.
Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia Gramsci
trascorse anni di estrema miseria. Per le sue delicate condizioni di
salute, Antonio cominciò a frequentare la scuola elementare soltanto
a sette anni: la concluse nel 1903 con il massimo dei voti, e con
grandi sacrifici riuscì a prendere la licenza ginnasiale a Oristano
nell'estate del 1908 e ad iscriversi al Liceo Dettori di Cagliari. Di
quel periodo scriverà sua sorella: «in cima alle sue
raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di
custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini». Alla
fine della seconda, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì
il professor Raffa Garzia, radicale e anticlericale, direttore de
“L'Unione Sarda” e grazie alla collaborazione al giornale che
Gaza gli propose, Antonio ricevette nell'estate del 1910 la tessera
di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico
interesse».
Il 25 luglio Gramsci ebbe la soddisfazione di veder stampato il suo primo articolo, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, Gramsci scriveva: «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà [...] la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». Nell'autunno del 1911, il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, per poter avvedere ad una borsa di studio per frequentare l'Università di Torino; Gramsci fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino che supererà classificandosi nono, mentre al secondo posto si classifica uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. L'Università di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille Loria, Gioele Solari e il giovane linguista Matteo Bartoli, che si legò in amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Umberto Cosmo. Ricordando quegli anni, Antonio scriverà: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani». Gramsci si ritrovò a casa per le elezioni politiche del 26 ottobre 1913, dopo la fine della guerra italo-turca, dove votavano per la prima volta anche gli analfabeti e per contro dilagavano sia la corruzione che le intimidazioni. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti, favorì l'insieme delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere, mettendo d'accordo gli indipendentisti e "non-sardisti". Gramsci scrisse di quelle elezioni al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino ai primi di novembre del 1913, dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese lezioni private di filosofia dal professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». Sull'Italia neutralista della Prima guerra mondiale scrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese “Il Grido del popolo” del 31 ottobre 1914, l'articolo “Neutralità attiva e operante” in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'”Avanti!” di Mussolini “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Il 13 aprile 1915 sostenne quello che fu, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università, essendo cresciuto il suo impegno politico con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'”Avanti!”. Dal 1916 Gramsci trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni del “Grido del popolo” e del foglio piemontese dell'”Avanti!”, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, “Sotto la Mole”, dove pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Su richiesta di alcuni giovani compagni, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti “La Città futura”, uscito l'11 febbraio 1917, dove scriveva:
Il 25 luglio Gramsci ebbe la soddisfazione di veder stampato il suo primo articolo, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, Gramsci scriveva: «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà [...] la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». Nell'autunno del 1911, il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, per poter avvedere ad una borsa di studio per frequentare l'Università di Torino; Gramsci fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino che supererà classificandosi nono, mentre al secondo posto si classifica uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. L'Università di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille Loria, Gioele Solari e il giovane linguista Matteo Bartoli, che si legò in amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Umberto Cosmo. Ricordando quegli anni, Antonio scriverà: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani». Gramsci si ritrovò a casa per le elezioni politiche del 26 ottobre 1913, dopo la fine della guerra italo-turca, dove votavano per la prima volta anche gli analfabeti e per contro dilagavano sia la corruzione che le intimidazioni. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti, favorì l'insieme delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere, mettendo d'accordo gli indipendentisti e "non-sardisti". Gramsci scrisse di quelle elezioni al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino ai primi di novembre del 1913, dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese lezioni private di filosofia dal professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». Sull'Italia neutralista della Prima guerra mondiale scrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese “Il Grido del popolo” del 31 ottobre 1914, l'articolo “Neutralità attiva e operante” in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'”Avanti!” di Mussolini “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Il 13 aprile 1915 sostenne quello che fu, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università, essendo cresciuto il suo impegno politico con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'”Avanti!”. Dal 1916 Gramsci trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni del “Grido del popolo” e del foglio piemontese dell'”Avanti!”, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, “Sotto la Mole”, dove pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Su richiesta di alcuni giovani compagni, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti “La Città futura”, uscito l'11 febbraio 1917, dove scriveva:
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere
partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e
partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è
vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della
storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera
passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può
contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani
meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la
massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le
leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere
uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra
l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da
alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa
ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità
a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un
enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale
rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi
sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma
nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio
dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe
successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo:
perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la
vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e
specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere
inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover
spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle
coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città
futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale
non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al
caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è
in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si
sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non
parteggia, odio gli indifferenti”.
Qui mostra la sua
intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la
sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di
Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» -
scriverà - «il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia
e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano».
La sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione
russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono, il 23 agosto
1917, in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal
governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città
dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge
marziale.
I bolscevichi avevano preso il potere
in Russia il 7 novembre 1917 ma per settimane in Europa giunsero solo
notizie confuse, finché il 24 novembre l'edizione nazionale
dell'”Avanti!” uscì con un editoriale dal titolo “La
rivoluzione contro il Capitale”, firmato da Gramsci: «La
rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di
fatti [...] essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx.
Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che
dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità
che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era
capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima
che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle
sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno
superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi
critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi
secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi
rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il
pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco
tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina
esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione
del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era
contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche».
Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918 Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'”Avanti!”, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Il 1º maggio 1919 uscì il primo numero dell'”Ordine nuovo” con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto, Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i Consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo [...] perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.
Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918 Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'”Avanti!”, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Il 1º maggio 1919 uscì il primo numero dell'”Ordine nuovo” con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto, Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i Consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo [...] perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.
Lo sciopero fallì per la resistenza
degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del
Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista
lasciarono i lavoratori torinesi. L'8 maggio Gramsci pubblicò
sull'”Ordine Nuovo” una sua relazione, approvata dalla
Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del
Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo
ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il
potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli
industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci
rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento
e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi
del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere
assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e
internazionale attraversa nell'attuale periodo [...] il Partito
socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha
mai un'opinione sua da esprimere [...] non lancia parole d'ordine che
possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale,
unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria [...] il Partito
socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero
partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti
della democrazia borghese... ». La risoluzione dell'Internazionale
comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei
riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti,
a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti
da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale,
alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto
nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano
riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel
dopoguerra. Nell'ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole
alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi
Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco
Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio
della frazione comunista del Partito Socialista.
Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia.
Il 26 gennaio 1925, dopo l'omicidio Matteotti, nel suo primo e unico intervento da deputato, Gramsci denuncia il carattere di regime piccolo-borghese del fascismo, alleato e sponsorizzato dai grandi proprietari terrieri e industriali ed ironizza pesantemente su Mussolini, ex alleato di partito, rievocando il suo passato socialista.
Nel 1926 venne ristretto, dal regime fascista, nel carcere di Turi.
Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita.
Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia.
Il 26 gennaio 1925, dopo l'omicidio Matteotti, nel suo primo e unico intervento da deputato, Gramsci denuncia il carattere di regime piccolo-borghese del fascismo, alleato e sponsorizzato dai grandi proprietari terrieri e industriali ed ironizza pesantemente su Mussolini, ex alleato di partito, rievocando il suo passato socialista.
Nel 1926 venne ristretto, dal regime fascista, nel carcere di Turi.
Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita.
Antonio Gramsci |
Antonio Gramsci è considerato uno dei più importanti
pensatori del XX secolo. Nei suoi scritti, tra i più originali della
tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura
culturale e politica della società. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti
impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la
società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un
senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle
subalterne. “L'egemonia culturale è un concetto che indica
le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione
intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che
sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche
quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla
loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso
sistema di controllo.” Antonio Gramsci
L'analisi dell'egemonia culturale,
anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la
prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni
comuniste predette da Karl Marx nei paesi industrializzati non si
fossero verificate. Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il
capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe
operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre
contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la
stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare
delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè sindacati
e partiti politici riformisti. L'inevitabile successione delle crisi
economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad
abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le
istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo
scientifico e a cominciare la transizione verso una società
comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle
strutture economiche implicava una trasformazione delle
sovrastrutture culturali e politiche.
L'egemonia - Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che
le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono
la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che
a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.
Vi è distinzione fra direzione –
egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della
forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi
avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza
armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo
sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare
il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per
la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed
anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve
continuare ad essere anche dirigente».
La crisi dell'egemonia si manifesta
quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali
politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte
le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta
la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel
punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare concrete
soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può
diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo
anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco
sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo
egemone. Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento
rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della
sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, culturale,
ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso
investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco
storico», termine che in Gramsci indica l'insieme della struttura e
della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro
riflessi ideologici.
L'egemonia
nel Risorgimento italiano - Analizzando la storia del Risorgimento, Gramsci rileva che la classe popolare
non trovò un proprio spazio politico e una propria identità, poiché
la politica dei liberali di Cavour concepì «l'unità nazionale come
allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia,
non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia».
Gramsci ritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere
un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste
masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la
maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione
borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un
partito giacobino, (assertore di idee radicalmente democratiche
ed egualitarie) come in Francia, dove le campagne, appoggiando la
Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della
reazione aristocratica.
Gramsci sulla mancata egemonia dei democratici risorgimentali - Una nuova fase di dibattito sui moti insurrezionali risorgimentali italiani si è aperta dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto per merito di Antonio
Granisci e delle felici elaborazioni contenute nei famosi "Quaderni",
compilati durante la lunga carcerazione impostagli dai tribunali
fascisti, che la riflessione critica sul Risorgimento ha fatto un
notevole salto di qualità, esplorando nuovi territori e
confrontandosi con nuove e più ampie problematiche. Analizzando la
vittoria dei moderati, Gramsci la spiegava con il fatto che essi
erano un gruppo di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo
con le classi e i ceti, la grande e la media borghesia, sia urbana
sia rurale, che di fatto alimentarono ed egemonizzarono il processo
unitario. I democratici al contrario non erano l'espressione politica
di classi omogenee; per esserlo avrebbero dovuto trasformare il loro
programma in senso sociale, come indicavano Pisacane e Ferrari,
diventando il partito dei lavoratori poveri e delle masse contadine
diseredate, prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa
conversione del programma e rimasero stritolati politicamente tra
l'egemonia moderata della borghesia e l'immobilismo popolare. Il
Risorgimento era quindi una "rivoluzione fallita" perché
non aveva saputo raccogliere, attraverso una decisa riforma agraria,
l'adesione delle masse contadine, che rappresentavano la stragrande
maggioranza della popolazione, allargando così le basi dello stato e
garantendo il superamento dell'arretratezza economica di tanta parte
del paese. Gramsci intende anche come “rivoluzione
passiva” quella in cui i liberali moderati hanno avuto
strategicamente la meglio sui repubblicani democratici mantenendo
l’ordine feudale esistente causando la permanente spaccatura tra
Stato e società civile. Il fascismo è la diretta conseguenza di
questa situazione, cioè un tentativo della borghesia debole di
ridefinire un sistema politico che stava crollando.
Gramsci sulla fallita rivoluzione del "biennio rosso" - Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista "L'Ordine Nuovo", ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista. » (1.926, Antonio Gramsci)
Gramsci sulla fallita rivoluzione del "biennio rosso" - Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista "L'Ordine Nuovo", ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1.920. La scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso una occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Fu indetto uno sciopero da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie e infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.
Le occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e della sua incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare. Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche: « Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni. » (Giovanni Giolitti)
Livorno, 15 gennaio 1921, il teatro Goldoni in cui venne fondato, durante il 17° congresso socialista, il Partito Comunista d'Italia. |
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