Pensando che esso sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici
solo a patto di rendere se stesso degno di venerazione per i segni
distintivi dell'autorità, diventò più maestoso sia nel resto della
persona sia soprattutto grazie ai dodici littori di cui
si circondò.
Alcuni ritengono che egli adottò il numero in base a
quello degli uccelli che, col loro augurio, gli avevano pronosticato
il regno.
A me non dispiace la tesi di quelli che sostengono
importati dalla confinante Etruria (donde furono introdotte la sedia
curule e la toga pretesta) tanto questo tipo di subalterni quanto il
loro stesso numero.
Nel frattempo la città cresceva in
fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi
spazi: si costruiva più nella speranza di un incremento demografico
negli anni a venire che per le proporzioni presenti della
popolazione. In seguito, perché l'ampliamento della città non fosse
fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo
l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno
a sè genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di
essere autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi
voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due boschi. Lì, dalle
popolazioni confinanti, andò a riparare una massa eterogenea di
individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose
nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto
di ampliamento. Ormai soddisfatto di tali forze, provvede a dotarli
di un'assemblea.
«9 Roma era ormai così potente che
poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei
dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a
durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di
avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora,
su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti
limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e
per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche le
città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in seguito,
grazie al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande
potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma
erano stati propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a
mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano
disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non
dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto
disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri
successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza.
Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati
chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo
di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla
pari). La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa
cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza.
Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando
il proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in
onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di
invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse
e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi
disponibili all'epoca. Arrivò moltissima gente, anche per il
desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più
vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi,
vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati
ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città,
le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si
meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando
arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano
concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un
tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a
correre all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle
mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle
altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano
trascinate nelle loro case da plebei cui era stato
affidato quel compito. Si racconta che una di esse, molto più carina
di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché
in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando,
gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le
mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido
nuziale. Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle
fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità
e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e
i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina.
Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa
se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava
tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza
dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di
contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro
spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa
di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque
frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già
dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue
l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto
migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo
il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della
patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti
(i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione),
attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole
femminile.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)
«10 Ormai l'ira delle ragazze rapite si
era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro
genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini
piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a
manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si
presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini,
perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. Quell'affronto
riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro
che Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò
questi tre popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a
giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure
Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così
i Ceninensi invadono da soli il territorio romano. Ma mentre stavano
devastando disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con
l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità
dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica,
la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si scontra in
duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. Dopo aver
eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città
al primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò
che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla
capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico
ucciso su una barella costruita all'occorrenza, salì sul
Campidoglio. Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai
pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove
e aggiunse un epiteto al nome del dio: “Io, Romolo, re vittorioso,
offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio
entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la mia volontà,
in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie opime che
quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui
dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia.”
Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così,
da quel giorno in poi, piacque agli dèi che fosse legge la parola
del fondatore del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto
portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse
svilita dal numero elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora
tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute. Ciò
nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così
rara fu la fortuna di quell'onore.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 10.)
«11 Mentre i Romani si stavano occupando
di queste cose, gli Antemnati, cogliendo al volo l'occasione offerta
dalla loro assenza, compiono un'incursione armata nel nostro
territorio. Ma le truppe romane, spinte a marce forzate anche in
quella direzione, piombano loro addosso trovandoli sparpagliati nei
campi. Fu così che bastò il primo urto accompagnato dall'urlo di
guerra per sbaragliarli e conquistarne la città. Mentre Romolo era
nel pieno dell'ovazione per il doppio trionfo, la moglie Ersilia,
cedendo alle preghiere incessanti delle donne rapite, lo prega di
perdonarne i genitori e di ammetterli all'interno della città (la
cui potenza sarebbe così aumentata proprio grazie alla concordia
interna). Egli acconsente facilmente. Quindi marcia contro i
Crustumini che erano in procinto di attaccare. Ma la loro resistenza
durò ancora meno di quella degli alleati: di fronte a disfatte del
genere, non era rimasto troppo coraggio. In entrambi i paesi
sottomessi furono inviati coloni. La maggior parte di essi, però, si
iscrissero per Crustumino a causa della fertilità della terra.
Dall'altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori e
parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L'ultimo
attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più
importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti,
non agirono sotto l'impulso del risentimento e dell'ambizione, né si
lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla
guerra. Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio
comandava la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene
corrotta con dell'oro da Tazio e costretta a fare entrare un
drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la
ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti
rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle
loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era
stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo,
sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse
contare sulla parola data. La leggenda riguardante questi fatti vuole
che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro
braccialetti d'oro massiccio e giravano con anelli tempestati di
gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del
suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al
posto dell'oro promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro
scudi. Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come
ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò
espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse
tradire, l'uccisero proprio col compenso che aveva richiesto.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11.)
«12 Comunque sia, i Sabini si
impossessarono della *cittadella.»
*Risulta
verosimile che la cittadella romulea fosse sul colle Palatino
(Palatium), e con Cermalus e Velia, l'area avesse un perimetro
trapezoidale, da cui il nome Roma quadrata. Secondo alcuni storici,
la prima civitas quadrata formata sul Palatino fu in seguito
allargata al Septimontium e poi alla città delle quattro regioni.
(N.d.R.)
Tito Livio prosegue: «Il giorno dopo, quando l'esercito
romano aveva gremito, col suo schieramento al completo, lo spazio
compreso tra il Palatino e il Campidoglio, i Sabini non calarono
subito in pianura ma rimasero ad aspettare che l'indignazione e il
desiderio di recuperare la rocca spingessero i Romani a risalire la
china e ad affrontarli su in alto. I capi di entrambi gli
schieramenti incitavano alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio
Ostilio per i Romani. Quest'ultimo, nonostante la posizione
svantaggiosa, teneva alto il morale con dimostrazioni di coraggio e
di audacia nelle prime file. Ma, caduto lui, subito i Romani
registrarono un netto cedimento e andarono a rifugiarsi presso la
vecchia porta del Palatino. Romolo stesso, trascinato dalla massa dei
soldati in ritirata, sollevando le armi al cielo, gridò: “O Giove,
è per obbedire al tuo volere che ho gettato le prime fondamenta di
Roma proprio qui sul Palatino. Ormai la cittadella è in mano ai
Sabini che l'hanno conquistata nella più turpe delle maniere. Di là,
attraverso la vallata, stanno avanzando armati verso di noi. Ma tu,
padre degli dèi e degli uomini, tieni lontani almeno da qui i
nemici, libera i Romani dal terrore e frena questa loro vergognosa
ritirata! Prometto che qui, o Giove Statore, io innalzerò un tempio
per ricordare ai posteri che è stato il tuo aiuto inesauribile a
salvare la città”. Al termine della preghiera, come se avesse
avuto la sensazione di essere stato esaudito, disse: “Qui, o
Romani, Giove ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di ricominciare
a combattere”. E i Romani si fermarono, proprio come se stessero
obbedendo a un ordine piovuto dal cielo. Romolo in persona si lancia
nelle prime file. Mezio Curzio, intanto, a capo dei Sabini, aveva
guidato la carica dall'alto della cittadella e fatto il vuoto in
mezzo alle fila romane, gettando lo scompiglio per tutto lo spazio
occupato dal foro.
E, ormai non lontano dalla porta del Palatino,
gridava: “Li abbiamo battuti, ospiti malvagi e nemici codardi che
non sono altro! Ora lo sanno che differenza passa tra rapire delle
ragazze inermi e combattere contro degli uomini veri.” Mentre così
si gloria, gli si avventa addosso, guidato da Romolo, un gruppo di
giovani pronti a tutto. Per caso in quel momento Mezio stava
combattendo a cavallo e fu così più facile respingerlo. Dopo averlo
messo in fuga, i Romani proseguono sullo slancio e il resto
dell'esercito, infiammato dall'audacia del re, riesce a sbaragliare i
Sabini.
Mezio fu trascinato in una
palude dal suo
cavallo, divenuto
ingovernabile per lo strepito degli inseguitori e la cosa attirò
l'attenzione anche dei Sabini che temevano di perdere una figura così
carismatica: urlando e facendogli ampi gesti, gli dimostrarono il
loro attaccamento ed egli riuscì a tirarsi fuori dalla melma. Romani
e Sabini riprendono così a combattere nella valle che si estende tra
le due colline. Ma i Romani continuavano ad avere la meglio.» (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 12.)
«13 Fu in quel momento che le donne
sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le
chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie
presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non
esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere
dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne
la collera.
Da una parte supplicavano i mariti e dall'altra i padri.
Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del
sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del
parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli
per gli uni e nipoti per gli altri. “Se il rapporto di parentela
che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la
vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra,
noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti
quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due,
o vedove od orfane.” L'episodio non tocca soltanto la massa dei
soldati ma anche i comandanti, e su tutti cala improvvisa una quiete
silenziosa. Poi vengono avanti i generali per stipulare un trattato e
non si accordano esclusivamente sulla pace, ma varano anche l'unione
dei due popoli. Associano i due regni, trasferendo però l'intero
potere decisionale a Roma che vede così raddoppiata la sua
popolazione. Tuttavia, per venire in qualche modo incontro ai Sabini,
i cittadini romani presero il nome di Quiriti dalla città di
Cures. E in memoria di quella battaglia chiamarono lago Curzio
lo specchio d'acqua dove il cavallo di Curzio emerse dal profondo
della melma e portò in salvo il suo cavaliere. A una guerra
così catastrofica seguì improvvisamente un felice periodo di pace
che rese le donne sabine più gradite ai loro mariti e ai loro
genitori, ma, sopra tutti, a Romolo stesso. Così, quando questi
divise la popolazione in trenta curie, diede a esse il nome delle
donne. Senza dubbio il loro numero era in qualche modo superiore: la
tradizione non ci informa se fu l'età, la loro classe sociale o
quella dei mariti, oppure un'estrazione a sorte il criterio
utilizzato per stabilire quali dovessero dare il nome alle curie.
Nello stesso periodo vennero formate tre
centurie di cavalieri. Ramnensi e Tiziensi
devono i loro nomi a Romolo e a Tito Tazio. Quanto invece ai Luceri,
nome e origine sono poco chiari. Di lì in poi, i due sovrani
regnarono non solo in comune, ma anche in perfetto accordo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.)
«14 Alcuni anni dopo, certi parenti di
Tito Tazio maltrattano gli ambasciatori dei Laurenti e, nonostante il
loro appellarsi al diritto delle genti, Tito mostra di avere orecchie
soltanto per le preghiere dei suoi. Così facendo, assume su di sé
la responsabilità della loro mancanza. E infatti, un giorno che era
andato a Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto
di piazza. Si narra che la cosa addolorò Romolo meno del dovuto, sia
per la dubbia affidabilità di una simile divisione del potere, sia
perché credeva che quella morte non fosse del tutto immeritata. Per
questo evitò di far ricorso alla guerra. Tuttavia, per garantire
l'espiazione della morte del re e dell'offesa ai danni degli
ambasciatori, fece rinnovare il trattato tra Roma e Lavinio. Questa
pace, a dir la verità, fu un evento al di sopra di ogni aspettativa.
Invece scoppiò un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi alle
porte di Roma. Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro
una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse
forte come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il
conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a devastare le
campagne tra Roma e Fidene. Di là piegano verso sinistra (a destra
niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono atti
di vandalismo terrorizzando i contadini. L'improvviso trambusto
creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima
avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da
perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente alla testa
dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene. Dopo avervi
lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle
truppe. Una parte di queste ordinò che si piazzasse, pronta a
lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno riparata da fitti
cespugli. Poi, con il blocco più consistente dell'esercito e con
tutta la cavalleria, si mise in marcia e, proprio come si era
prefissato, riuscì ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di
tattica spericolata e minacciosa, con i cavalieri
che scorrazzavano fin quasi sotto le porte.
D'altra parte, per la fuga che doveva esser simulata, questo assalto
a cavallo forniva un pretesto più verisimile. E quando non solo la
cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire,
ma anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si
spalancarono le porte e le linee romane furono travolte dallo
straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento,
furono trascinati nel punto dell'imboscata. Là i Romani saltano
fuori a sorpresa e attaccano sul fianco la schiera dei nemici. Allo
stupore si aggiunge la paura: dall'accampamento si vedono avanzare
gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione. Così i Fidenati,
in preda al panico più totale, fanno dietro-front quasi prima ancora
che Romolo e i suoi uomini riuscissero a girare i loro cavalli. E
visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnavano la città in
maniera di gran lunga più disordinata di quelli che, poco prima,
essi avevano inseguito ingannati dalla loro simulazione di fuga. Però
non riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li incalzavano da
dietro e, prima che le porte della città venissero chiuse, irruppero
all'interno, quando ormai i due eserciti sembravano uno solo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 14.)
Fin dalla sua mitica fondazione, le
guerre di Roma contro la città etrusca di Veio
sono state una costante, per motivazioni di tipo economico. Veio
era ricca, posta a 20 km a nord di Roma su un altopiano facilmente
difendibile, dominava il territorio sulla riva destra del Tevere, il
confine naturale fra il territorio etrusco e quello delle popolazioni
latine e la principale via di traffico dalle saline, sulla stessa
sponda destra del fiume, dal mare verso l'interno; il miglior
collegamento fra il sud dell'area etrusca tradizionale e Capua, il
primo avamposto etrusco nel meridione italiano, incuneato fra i
Latini e l'incombente marea colonizzatrice dei coloni Greci.
Per i Veienti, Roma era una pericolosa
potenziale concorrente, posta in posizione dominante sul lato
sinistro del Tevere, a controllo della navigazione e dei commerci che
avvenivano su di esso, per cui lo
scontro fra le due città
era
inevitabile,
poiché la potenza e la ricchezza di una avrebbe significato la
decadenza e la povertà dell'altra.
Fondamentale era quindi il controllo
dei septem pagi, i sette villaggi che sorgevano di fronte a
Roma ma dall'altra parte del Tevere, sulla via del commercio del sale
che, dalle saline poste alla foce del fiume, portava verso l'interno
e che i romani chiameranno infatti via Salaria. Roma quindi poteva
ostacolare i traffici fra Veio e il mare e d'altra parte, per Roma,
la città etrusca era il primo grosso ostacolo per la propria
espansione commerciale e militare verso l'Etruria, ed era inoltre
strettamente alleata alle città di Capena (fondata, secondo la
tradizione, da Veienti guidati dal leggendario re Properzio), Falerii
e Fidene.
A quanto raccontano Tito Livio e
Plutarco, fu Veio a iniziare le ostilità, reclamando Fidene, poiché
riteneva che le appartenesse. Secondo Plutarco: «Era una pretesa non
solo ingiusta ma anche ridicola, perché quando i Fidenati stavano
combattendo ed erano in grave pericolo, a quel tempo non solo non li
avevano aiutati, ma avevano permesso che molti uomini morissero, ed
ora pretendevano di avere diritti su città e territorio, quando essi
già appartenevano ai Romani.». (Plutarco, Vita di Romolo, 25, 2.).
Livio scrisse come Romolo, nei confronti di Veio, volesse una
dimicatio ultima, una battaglia risolutiva: «La guerra
fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità
per la comune appartenenza al popolo estrusco [...] Persero parte del
territorio, ma ottennero una
tregua di ben
cento anni.».
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)
Plutarco racconta che i Veienti
divisero il loro esercito in due schiere e con l'una assalirono
l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e con l'altra si
scontrarono con Romolo. A Fidene ottennero una vittoria parziale in
cui riuscirono ad uccidere 2.000 Romani, ma nel secondo scontro
persero la vita ben 8.000 Veienti e Romolo ebbe la meglio. Il
successivo e decisivo scontro vide i due eserciti combattere sempre
nel territorio di Fidene, dove Romolo dimostrò il maggior merito
della vittoria per la sua grande abilità tattica e per il coraggio.
Al termine della terza ed ultima battaglia, c'erano sul campo di
battaglia ben 14.000 caduti. E Romolo,
dopo aver sbaragliato l'esercito nemico, inseguì i Veienti fin sotto
le mura della loro città, e poté sottrarre a Veio i
territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e
quelli delle Saline, alla foce del Tevere, in cambio di una
tregua della durata di cento anni,
tregua contrassegnata da continue frizioni
fra le due città, tali da sfociare, con una certa continuità,
in combattimenti serrati e saccheggi nei rispettivi territori.
Il distanziamento temporale fra gli
scontri, poteva essere dovuto all'osservanza di tregue (come quella
della durata di cento anni) o all'impegno sostenuto nel combattere
altri nemici. Roma era sempre impegnata con i vari vicini Sabini,
Latini, Ernici, Rutuli, Volsci ecc. e anche Veio aveva dei
vicini turbolenti, ed essendo ripetutamente sconfitta dai Romani,
certamente doveva pagare anche le relative riparazioni economiche, in
genere con perdite di territorio e di conseguenza andava via via
impoverendosi.
I plebei (singolare "plebeo")
nell'antica Roma erano i cittadini romani appartenenti alla classe
della plebe (in latino: plebs, plebis), i popolani, distinti dai
patrizi, gli aristocratici. Secondo Dionigi di Alicarnasso, Romolo,
dopo aver creato le Tribù e le curia, suddivise il popolo romano in
Patrizi e Plebei, contando tra i primi quelli notabili per nascita,
virtù e danaro e tra i secondi gli altri. Lo storico Tito Livio
afferma che Romolo nominò cento senatori, detti "patres"
(e patrizi i loro discendenti), sulla base della loro posizione
gerarchica all'interno delle famiglie che componevano le gentes delle
tribù.
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Gustave Boulanger (1824-1888) - "Il concerto di flauto", dove un patronus romano riceve dei clientes, |
Romolo assegnò inizialmente ai
patrizi tutte le
magistrature
romane, mentre destinò i plebei al lavoro dei campi, all'allevamento
e al commercio.
Romolo avrebbe quindi anche creato il rapporto di
patronato tra il Cliens e il Patrono, ponendo i plebei in posizione
giuridicamente dipendente dai
patrizi.
Ecco quindi che, con l'andare del
tempo, i plebei saranno coinvolti nella leva militare a discapito
della sussistenza delle loro famiglie, mentre i patrizi, con le
guerre di conquista, si arricchivano. Tutto ciò porterà,
dall'istituzione della Res Publica romana (509 a.C.) al lungo
"conflitto degli ordini" fra plebei e patrizi, prodromo
delle guerre civili fra "populares" e "optimati"
aristocratici, che porteranno al principato di Augusto e al dominato
da Settimio Severo in poi.
Tito Livio poi prosegue: «15 La guerra scatenata dai Fidenati fu
come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i
quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che
condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il
pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse
rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si
riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una
regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni
alla rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito
nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato
nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico
nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare
un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici
si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città,
andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto
piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura.
Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di
supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie
alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì
fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in
quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa
posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per
desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da
questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in
battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace.
Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della
cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i
principali avvenimenti politici e militari durante il regno di
Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua
origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né
al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla
saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie
alle guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di
quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe
quarant'anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più amato
dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi
soldati come da nessun altro. Tenne per sè, e non solo in tempo di
guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15.)
Secondo la tradizione quindi, Romolo creò il primo esercito della città di Roma, costituito da un'unica legione (dal latino legio, derivato del verbo legere, "raccogliere o legare insieme"), cosicché esercito e legione erano concetti sinonimi. La legione unica era composta da 3.000 fanti (pedites) schierati in battaglia sull'esempio della falange greca e da 300 cavalieri (equites), tutti arruolati di leva fra i cittadini delle tre tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma, i Tities, i Ramnes e i Luceres.
Nella disposizione tattica della legione, la fanteria si disponeva su tre file, nella tipica formazione a falange, con la cavalleria ai lati, le alae, i cui squadroni erano alle dipendenze di un tribunus celerum, sotto il diretto comando dello stesso Rex, il comandante supremo, a cui spettava anche il compito di sciogliere l'esercito al termine della campagna militare dell'anno, per permettere ai cittadini l'accudimento ai propri mestieri. A lui erano subordinati anche tre tribuni militum (i generali) della fanteria, ciascuno dei quali era a capo dei 1.000 fanti di ognuna delle tre tribù.
La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva quindi compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, azioni di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia o veniva infine utilizzata per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti e non era quindi ipotizzabile a quei tempi una cavalleria "d'urto". A Roma, in epoca monarchica e repubblicana, la sella (ephippia) dei rari cavalieri romani e dei più numerosi cavalieri alleati Italici, era probabilmente costituita da una semplice coperta o gualdrappa (tapetum) o da una protezione in cuoio (ephippium) di derivazione greca. Pare comunque che, secondo la considerazione comune, la gualdrappa, più o meno imbottita, fosse inappropriata per un uomo armato.
Tutti i militari appartenenti all'esercito dovevano sostenere le spese per i loro armamenti, visto che combattevano sia per tutelare gli interessi comuni che quelli personali. Nella ripartizione degli incarichi e delle gerarchie della fanteria si privilegiava la nobiltà di nascita mentre la cavalleria era sostanzialmente appannaggio della sola aristocrazia.
Romolo costituì inoltre una guardia privata del re costituita da ulteriori trecento cavalieri chiamati Celeres (eliminata poi da Numa Pompilio ma reintrodotta e raddoppiata da Tarquinio Prisco), similmente a quanto fece oltre settecento anni più tardi Augusto, con la creazione della guardia pretoriana, designata alla tutela del Princeps.
I cosiddetti Celeres (cioè i veloci) le guardie preposte alla tutela del re, furono in seguito impiegate per mantenere l'ordine pubblico urbano, ottenendo così che il loro cavallo, chiamato equus publicus, (cavallo pubblico), fosse acquistato e mantenuto dallo Stato ed i Celeres stessi venivano indicati come gli Equites Romani Equo Publico.
Fra i cavalieri c'erano quindi gli "Equites Romani Equo Publico" e i semplici "Equites". Solo un numero ristretto di cavalieri, un quarto circa del totale, riusciva ad entrare nell'arruolamento di ordine pubblico, col privilegio del cavallo fornito e mantenuto dallo Stato, mentre i semplici Equites dovevano comprarlo e mantenerlo a proprie spese; ma soprattutto gli "Equites Romani Equo Publico" avevano il vantaggio di poter ottenere delle cariche pubbliche, sia giuridiche che senatoriali, che agli equites ordinari erano precluse.
Fin dai tempi degli Equites Romani Equo Publico quindi, con l'espressione "cavaliere" ci si poteva riferire sia ad una qualifica militare che ad una appartenenza politico-sociale.
Per rendere pubblico il casato di appartenenza degli Equites Romani Equo Publico (e in seguito, di tutti gli altri cittadini), venne istituito il nomen della gens di appartenenza da far seguire al prenomen, il nome proprio.
Il nomen era il nome gentilizio e indicava i componenti di una gens, cioè i discendenti dagli stessi antenati. Era espresso con un aggettivo terminante in -ius, che indicava l’appartenenza a una stirpe, per cui Marcus Iulius significava “Marco degli Iulii” (discendenti da Iulo, leggendario figlio di Enea). Il nomen individuava quindi la stirpe di appartenenza ed era portato anche dalle famiglie plebee.
Il cognomen invece era aggiunto al nomen gentilizio; inizialmente era individuale e poteva essere un nomignolo popolare come Lentulus (da lenticchia), Cicerone (da cece), Lepidus (da scherzoso) ma in seguito divenne ereditario per distinguere la familia di appartenenza nel contesto della stessa gens, come ad esempio i Cornelii Cathegi distinti dai Cornelii Scipiones, distinti dai Cornelii Balbi, distinti dai Cornelii Lentuli.
Infine c’erano i cognomina trionfali, conferiti ai vincitori, per cui Scipione divenne "Africanus" dopo la vittoria su Cartagine, così come Nerone Claudio Druso (conosciuto come Druso maggiore) e i suoi discendenti portavano come cognome "Germanicus" per le vittorie di questi sui Germani. Gli schiavi avevano soltanto il nomen ma se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il cognomen e spesso anche il praenomen del loro ex padrone.
- l’anello d’oro,
- le borchie d’argento del cavallo,
- la trabea o mantello da cavaliere col bordo rosso,
- la scarpa rossa detta calceus patricius
- e il bordo rosso (clavus) alla toga e alla tunica: tutti distintivi che adotteranno poi i patrizi romani.
La la più antica nobiltà di Roma derivava infatti i propri costumi dalla cavalleria d'età regia, per cui si desume che a Roma la cavalleria fosse appannaggio della sola aristocrazia, così come nell'antica Grecia.
Prosegue Tito Livio: «16 Portati a termine questi atti
destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna
l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo
Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran
fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che
scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo
non riapparve più sulla terra. I giovani romani, appena rividero la
luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta,
alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che
la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti
accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto
dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in
un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti
orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro
osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di
Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua
protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in
segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a
pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si
diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota
l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile
figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad
aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo
personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la città era
in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità
nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato
testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini
all'assemblea: “Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba,
Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed
è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e
rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in
faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la
volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale
del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e
tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di
resistere alle armi romane." Detto questo,” egli concluse, “è
scomparso in cielo.” È
incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto
giovò a placare lo sconforto della plebe e
dell'esercito per la perdita di Romolo, l'assicurazione della
sua immortalità.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.)
La reale esistenza di
Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico
Theodor Mommsen sarebbe comprovata dalla presenza tra le
gentes originarie di Roma (di cui parla Tito Livio) della gens
Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il
clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il
proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha
conferma da una glossa di Festo (la 331 nell'epitome di Paolo
Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una
tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una creazione artificiale,
fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura
"leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici
e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili
oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro
di Remoria nei pressi della Roma quadrata (sull'Aventino).
Secondo il linguista Carlo De Simone, i
nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero
da un termine ricostruito in ruma,
al quale la tradizione romana assegnava il significato di "mammella".
Il termine sarebbe di origine etrusca, perché non ne è
stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua non-indoeuropea
della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato come
prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma
(più tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus),
dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na, divenuto
in latino Romilius. Il Villar, invece, sostiene che il nome Roma
fosse, molto probabilmente, il nome preindoeuropeo del Tevere
trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva frequentemente
a quel tempo.
Secondo altre ipotesi (sempre più
smentite dalle campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma
sarebbero figure principalmente simboliche (in particolare sembrano
complementari i primi due, Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero
introdotto le massime istituzioni politico-militari e religiose dello
stato).
La reale esistenza della figura di
Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è
stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini (vedi su You Tube un suo video sulla fondazione di Roma: https://www.youtube.com/watch?v=mfxvEHr842Q&t=3019s&ab_channel=Fabius2721), sulla base di
moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero
portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di
Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati
rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in
tufo (derubricato come «muro di Romolo»)
databili con certezza al secolo VIII a.C., circostanza che darebbe
conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche
latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del
suo rito di fondazione.
Inoltre, sulla base di una fonte
letteraria, la scoperta del sito del lapis niger nel
1899 fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba
di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato.
Il Lapis niger
("pietra nera" in latino) è un'area lastrica con
antiche pietre nere sul luogo dei comizi, sotto la quale si trovano i
resti di un'antica area sacra, nel Foro Romano. Il nome deriva dal
fatto che il luogo era segnalato da lastre di marmo circondate da una
specie di cornice di marmi bianchi il che lo distingueva nettamente
dal resto del comizio, che presentava invece una pavimentazione in
travertino. L'area venne sepolta e recintata nella tarda età
repubblicana, coperta da un pavimento di marmo nero (da cui il nome
Lapis niger) e considerata un luogo inviolabile.
All'epoca di Varrone esistevano ancora
due leoni accovacciati, figure tipiche, in Italia come in Grecia, di
guardiani dei sepolcri. Il Lapis niger fu riscoperto il 10
gennaio 1899 da Giacomo Boni: il ritrovamento venne presto associato
ad una serie di passi di antichi scrittori, tra i quali Sesto Pompeo
Festo e Verrio Flacco, che raccontavano della presenza di un sepolcro
nel Foro Romano. Non c'era però concordia sul personaggio che vi
fosse stato sepolto; alternativamente si pensava a Romolo, Faustolo o
Tullo Ostilio.
Durante gli scavi legati alla sua
scoperta l'area fu scavata e, a circa 1,5 metri sotto il piano del
Lapis niger, fu ritrovato un altare con un cippo che
presentava un'iscrizione con una delle più antiche testimonianze
scritte della lingua latina, databile intorno al 575-550 a.C. L'altare ha una tipologia canonica, con
la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto (della quale si
conserva però solo lo scalino inferiore). Il tutto era situato
all'aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto
ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti.
L'attribuzione esatta dell'altare e dei basamenti adiacenti è
discussa, e oscilla tra la fine dell'età regia e l'inizio di quella
repubblicana (VI secolo a.C.). Dionigi d'Alicarnasso, in visita alla
città all'epoca di Augusto, ricordò la presenza di una statua di
Romolo nel Volcanale accanto ad un'iscrizione in caratteri
"greci": in effetti l'iscrizione è in caratteri simili
a quelli greci, ma non in greco: la vicinanza di questo luogo
al sito del Lapis niger ha fatto pensare a una ricostruzione più
tarda dell'iscrizione e della statua. Santuari dedicati ai fondatori
delle città esistevano anche in altre zone: a Lavinio esisteva un
sacello dedicato a Enea divinizzato, ed anche le città greche
avevano spesso un heroon nell'agorà, dedicato ai fondatori veri o
presunti.
Il
cippo aveva forse in passato
una grossolana forma piramidale, e doveva essere posto in prossimità
dell'ingresso dell'area. Esso reca un'iscrizione in alfabeto latino
arcaico, con caratteri di derivazione greco-etrusca e andamento
bustrofedico (alternativamente, da sinistra a destra e da destra a
sinistra, come si muovono i buoi quando arano il campo), di cui una delle possibili trascrizioni è:
«QUOI HON [...] / [...] SAKROS ES / ED
SORD [...]
[...] OKA FHAS / RECEI IO [...] / [...]
EVAM / QUOS RE[...]
[...]KALATO / REM HAB[...] / [...]TOD
IOUXMEN / TA KAPIAD OTAV[...]
[...]M ITER PE[...] / [...]M QUOI HA /
VELOD NEQV[...] /[...]IOD IOUESTOD
LOVQVIOD QO[...]»
Si tratta di una prescrizione di
carattere religioso, forse un divieto di passaggio sul luogo, pena
altrimenti la consacrazione agli dèi inferi (SAKROS ESED, vi si
legge, ovvero SACER SIT in latino classico); probabilmente esisteva
nel sito un antico sepolcro incluso ormai nell'abitato,
che non doveva essere profanato per nessun motivo.
Fino alla dimostrazione
dell'autenticità della Fibula prenestina, questa è sembrata essere
la più antica iscrizione latina mai rinvenuta, risultando di ardua
comprensione. È utile riportare la sua versione in latino classico,
da cui risaltano le notevoli differenze in particolare per la
morfologia e la fonetica:
«QUI HUNC […] SACER SIT […] REGI CALATOREM […] IUMENTA CAPIAT […] IUSTO»
che si ritiene possa essere
(parzialmente) completata nel seguente modo: «QUI HUNC [LOCUM VIOLAVERIT] SACER SIT
[…] REGI CALATOREM […] IUMENTA CAPIAT […]
IUSTO [?]»
Che tradotto potrebbe significare: «Chi violerà questo luogo sia
maledetto […] al re l'araldo […] prenda il bestiame […]
giusto [?]»
In definitiva l'iscrizione consacrava
alle divinità infernali, ovvero malediceva, chi violasse quel luogo.
La dedica al re (RECEI, un dativo) sembra riferirsi a un vero e
proprio monarca, e non al successivo rex sacrorum che dopo il 509
a.C. ne prese in consegna le funzioni religiose.
L'iscrizione è di fondamentale
importanza per lo studio dell'evoluzione della lingua latina: gli
studiosi (tra di loro il più importante commentatore del Lapis niger
fu Luigi Ceci) catalogano il Lapis Niger come CIL I, 1, dove la sigla
è l'abbreviazione di Corpus Inscriptionum Latinarum, la monumentale
raccolta di tutte le iscrizioni romane, ordinate cronologicamente per
luogo di ritrovamento. Il tutto viene datato al VI secolo a.C.
Il cippo è stato rinvenuto mutilo,
poiché in epoca imprecisata fu reimpiegato come sostegno per le
lastre in marmo dell'impiantito. Il manufatto si trova ancora in
loco, ma ne sono state realizzate varie copie (Museo nazionale romano
delle Terme di Diocleziano. Antiquarium Forense, Museo della civiltà
romana).
A possibile conferma di quanto sopra, nel febbraio 2020 nella zona sottostante alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo databile al VI secolo a.c. dedicato al culto di Romolo, contenente un sarcofago della lunghezza di circa 1,50 metri, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere stata la sua tomba, mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti.
Dopo la morte di Romolo, prosegue Tito Livio in "Ab Urbe condita libri", I, 17: «17 Nel frattempo, tra i senatori,
era in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione
del potere. Non si era però ancora giunti a candidature
individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura
particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse
fazioni all'interno delle classi. I cittadini di origine sabina, dopo
la morte di Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re. Così, nel
timore di dover rinunciare alla spartizione del potere pur
continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che
venisse eletto un re della loro etnia. Ma i Romani di vecchia data
rifiutavano l'idea di avere un re forestiero. Pur nella pluralità di
vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità di
un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere
della libertà. Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi
seriamente, pensando che la città priva di un governo e l'esercito
privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco da
fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini
particolarmente maldisposti nei loro confronti. Erano quindi tutti
d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva
in animo di rinunciare a favore dell'altro. Così i cento senatori
decidono di governare collegialmente: creano dieci decurie e da
ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a gestire
l'amministrazione dello stato. Governavano, quindi, in dieci, anche
se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori. Il potere
di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a
tutti gli altri. Si trattò di un intervallo di un anno. Siccome
intercorse tra due regni, fu chiamato interregno, termine
ancor oggi in uso. Ma allora la plebe cominciò a lamentare
l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al
posto di un padrone adesso gliene toccavano cento. Era chiaro che
avrebbero al massimo sopportato un re e questo eletto
secondo le loro preferenze. Quando i senatori si resero
conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire
spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso. E così si
guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo, senza
però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sè.
Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina
sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica. Ancor oggi, quando
si votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato
questo diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i
senatori hanno la loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e
quando non si conosce ancora l'esito del voto. In quell'occasione, il
sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: “La fortuna, la
prosperità e la felicità possano assisterci! Quiriti, sceglietevi
un re, questo è il volere dei senatori. E se chi eleggerete sarà
degno di esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano
confermare la vostra scelta.” La proposta fu talmente gradita al
popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a
decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva
regnare a Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 17.)
«18 In quel periodo Numa Pompilio
godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di
religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più
di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto
divino e di quello umano. C'è chi sostiene, in assenza di altri
nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di
Samo. La tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu
durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e
nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e
Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di
conoscere a fondo le sue dottrine. E da quei lontani paesi, pur
ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua
fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune
avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto
la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio
attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? Per tutti
questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente
portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua
cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri,
ma dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini,
il popolo moralmente più puro dell'antichità. Non appena i senatori
romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re
proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si
sarebbe spostato verso i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno
avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria
fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono
all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. Convocato a Roma,
egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici
aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo
stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli dèi.
Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi,
questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue
attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto
sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L'augure, a
capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di
nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua sinistra. Quindi,
dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne
intorno, invocò gli dèi e divise la volta del cielo, da oriente a
occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra
erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. Poi
fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di
riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo.
Quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la
destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: “O Giove
padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e
del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche
segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.” Poi
specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi
apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina
augurale.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 18.)
Numa Pompilio (Cures Sabini, 754 a.C. - 673 a.C.) è stato il secondo re di Roma, e il suo regno, dal 715 a.C. al 673 a.C., è durato 42 anni. Di origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci da Tito Livio e da Plutarco, era noto per la sua pietà religiosa. Pare che abbia regnato dal 715 a.C. fino alla sua morte nel 673 a.C., avvenuta da ottantenne, dopo quarantatré anni di regno. Numa era un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di Numa non avvenne subito dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo i Senatori governarono la città a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia.
Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno i Senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori Romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori Sabini che proponevano il senatore Velesio.
Per trovare un accordo si decise di procedere in questo modo: i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abitava nella città sabina di Cures ed era sposato con Tazia, l'unica figlia di Tito Tazio, anche lui di quella cittadina. Sembra che Numa fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma (21 aprile) ed era noto a Roma come uomo di provata rettitudine, oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di Pius. I senatori Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome.
Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio (i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini) per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, Numa vi acconsentì solo dopo aver preso gli auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli; Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo.
Da Tito Livio, "Ab Urbe condita libri", I, 19: «19 Roma era una città di recente
fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa,
divenutone re nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un
sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a
quel momento era stata priva). Ma rendendosi conto che chi passa la
vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a
queste cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri,
pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo
disabituandolo all'uso delle armi. Per questo motivo fece costruire
ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a
simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la
città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso
tutti i popoli dei dintorni. Dal regno di Numa in poi fu chiuso
soltanto due volte: la prima al termine della prima guerra punica,
durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli dèi hanno
concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo
la battaglia di Azio, quando cioè l'imperatore Cesare Augusto
ristabilì la pace per mare e per terra. Numa lo chiuse dopo essersi
assicurato con trattati di alleanza la buona disposizione di tutte le
popolazioni limitrofe ed eliminando le preoccupazioni di pericoli
provenienti dall'esterno. Così facendo, però, si correva il rischio
che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua
paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. Per
evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in
essi il timore reverenziale per gli dèi, espediente efficacissimo
nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi
anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far
ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli
incontri notturni con la dea Egeria e riferì che quest'ultima lo
aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi
agli dèi, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti
specifici. Prima di tutto, basandosi sul corso della luna, divide
l'anno in dodici mesi. Ma dato che i singoli mesi lunari non si
compongono di trenta giorni e che ce ne sono “undici” di
differenza rispetto a un intero anno calcolato in base alla
rivoluzione del sole, egli aggiunse dei mesi intercalari in maniera
tale che il ventesimo anno si trovassero rispetto al sole nella
stessa posizione dalla quale erano partiti e che così la durata di
tutti gli anni tornasse perfettamente. Stabilì anche i giorni fasti
e quelli nefasti, poiché sarebbe stato utile, di quando in quando,
sospendere ogni attività Pubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 19.)
«20 Quindi rivolse la sua attenzione ai
sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto
a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza
del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re
del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e
sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero
in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. Quindi designò
un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una
veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale. A
lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino.
Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta,
sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la
famiglia del fondatore. Per permettere loro di dedicarsi
esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno
stipendio dallo stato e, a causa della verginità e di altre
cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche dodici
Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di
distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca
di bronzo sul petto. Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti
dal cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città
cantando inni accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi.
Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui
fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre:
i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i
vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese.
Subordinò all'autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie
di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse
un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera
religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze
dei riti nazionali o all'adozione di culti di importazione. Inoltre
il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non
solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle
pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e
dell'interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre
manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei
numi, innalzò sull'Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece
consultare il dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi
si dovesse tener conto.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 20.)
La leggenda afferma che il progetto di
riforma politica e religiosa di Roma attuato da Numa fu a lui dettato
dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei
boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A
Numa viene attribuito il merito di aver creato una serie di riforme
tese a consolidare le istituzioni della nuova città, prime tra tutte
quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii Numae o libri
Numae, che andarono perduti nel sacco gallico di Roma
(387 a. C. circa).
Sulla base di queste norme di carattere
religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini
religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i
Salii, i Feziali e i Pontefici.
Numa stabilì di unificare ed
armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani e dei Sabini
residenti a Roma per eliminare le divisioni e le tensioni fra questi
due popoli, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove
associazioni basate sui mestieri.
Appena divenuto re nominò, a fianco
del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto
di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, che
rappresentava prima il corpo civico romano, poi Romolo deificato.
Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che
fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed
istruzioni.
Proibì ai Romani di venerare
immagini divine a forma umana e animale
perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini e,
durante il suo regno non furono costruite statue
raffiguranti gli dèi. Istituì il collegio sacerdotale
dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa
ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestali,
sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le
prescrizioni di carattere sacro.
Istituì poi il collegio delle vergini
Vestali, assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in
cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono
Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia (erano dunque quattro, Anco
Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei).
Istituì anche il collegio dei Feziali
(i guardiani della pace) che erano magistrati-sacerdoti con il
compito di tentare di appianare i conflitti con i popoli vicini e di
proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici.
Nell'ottavo anno del suo regno istituì
il collegio dei Salii, sacerdoti che avevano il compito di separare
il tempo di pace e di guerra (per gli antichi romani il periodo per
le guerre andava da marzo ad ottobre). Era, questa funzione, molto
importante per gli abitanti dell'antica Roma, perché sanciva, nel
corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives (cittadini
soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività
produttive) a milites (militari soggetti alle leggi ed
all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari) e
viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Migliorò
anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo
loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia,
assieme ai loro padroni.
La tradizione romana rimanda a Numa
Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e
tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu
sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e
l'istituzione della festività dei Terminalia.
Nel Foro, fece costruire il tempio di
Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via
Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere
chiuse solo in tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i
quarantatré anni del suo regno).
Secondo l'enciclopedista Marco Verrio
Flacco (secc. I a.C. - I d.C.), riportato dal lessicografo Sesto
Pompeo Festo, il re, ordinando la costruzione del tempio di Vesta,
volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem),
cioè della stessa forma del mondo, in quanto egli era un convinto
sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque
evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Già nel 280 a.C., Aristarco di Samo
(310 - 230 a.C. circa) aveva elaborato l'ipotesi di un sistema solare
eliocentrico. Si suppone che la teoria di Aristarco fosse stata
accettata nei primi secoli successivi alla sua esistenza, dato che
Plinio il Vecchio e Seneca si riferiscono al moto retrogrado dei
pianeti come a un fenomeno ottico e non reale, concezione più in
linea con l'eliocentrismo che con il geocentrismo.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, Numa
poi incluse nella città il Quirinale, anche se
questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura.
A lui viene ascritta anche una riforma
del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi
per un totale di di 355 giorni (secondo Livio invece lo divise in 10
mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo), con
l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti
alla fine dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di
marzo; da notare la persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno
che usiamo ancora oggi, con i numeri: settembre, ottobre, novembre,
dicembre).
Il calendario conteneva anche
l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, durante i quali non era
lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come
per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re
seguì i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il
carattere sacrale di queste decisioni.
«Anzitutto divise l'anno in dodici
mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non
arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni
per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel
calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti
anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita
solare donde era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli
fissò pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo cosa utile che in
qualche giorno non si potessero discutere le questioni politiche
davanti al popolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I,
19.)
L'anno così suddiviso da Numa, non
coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva
aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni,
togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a
decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di
convenienze politiche.
Come sopra scritto, Floro racconta che
Numa insegnò i sacrifici, le cerimonie ed il culto degli Dèi
immortali, ai Romani. Creò anche i pontefici, gli auguri ed i Salii.
La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la
Festa di Quirino e la Festa di Marte. La prima festa si celebrava a
febbraio, mentre la festa dedicata a Marte si celebrava a marzo, e
veniva officiata dai Salii. Numa partecipava di persona a tutte le
feste religiose, durante le quali era proibito lavorare.
Secondo la tradizione, durante il suo regno cadde dal
cielo lo scudo di Marte con sopra scritto il destino di Roma. Numa
ordinò che ne fossero fatte 11 copie, che divennero oggetti sacri e
di venerazione per i Romani.
A queste riforme di carattere religioso
corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permise a
Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il suo regno
le porte del tempio di Giano non furono mai aperte.
Morì ottantenne e non di morte
improvvisa, ma consunto dagli anni (per malattia secondo Livio),
quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, aveva solo
cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il
lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla
processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei
popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme
ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo.
Dopo la bellicosa esperienza del regno
di Romolo, Numa Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo
equilibrio alla nascente città.
Durante il consolato di Marco Bebio
Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, nel 181 a.C., due contadini
ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente
sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti in greco
di filosofia. Per decreto del senato i primi furono conservati con
cura, mentre i secondi furono pubblicamente bruciati.
Alla morte di Numa, il senatore sabino
Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candidò
alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e questi si
lasciò morire di fame per la delusione. Dal matrimonio
fra Pompilia e Marcio era nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo
Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di Numa
Pompilio con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli:
Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le
casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci.
Per la critica storico-archeologica, la
reale esistenza di Numa Pompilio, così come quella di Romolo, è molto discussa. Per alcuni studiosi la sua
figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà
filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento
religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente
opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa
del nome (secondo alcuni Numa viene da Nómos = "legge" e
Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe
l'idealizzazione della sua figura.
Tullo Ostilio (in carica dal 673
a.C. al 641 a.C.) è stato il terzo Re di Roma, appartenente alla
Gens Hostilia, che dovrebbe essere ricompresa
tra le
cento
gentes originarie ricordate da Tito Livio. Fu il
successore di Numa Pompilio con un regno di 32 anni. Tullo Ostilio,
che abitava una
domus sulla sommità della Velia, fu scelto
dai senatori perché era un romano e perché suo nonno Osto Ostilio
aveva combattuto con Romolo contro i Sabini. Dopo la morte di Numa
Pompilio lo
spirito di
pace sembrò
indebolirsi.
I suoi primi provvedimenti, cioè
suddividere le terre appartenute a Romolo tra i
romani nullatenenti e permettere, a chi fra questi non
avesse neppure una casa, di costruirne una sul Celio,
gli valsero l'appoggio del popolo.
Le sue guerre vittoriose con Alba Longa
(distante 12 miglia da Roma), Fidene (18 miglia) e Veio (6 miglia)
inaugureranno le conquiste del territorio latino e il primo
allargamento del dominio di Roma oltre le sue mura. Si racconta che
morì colpito da un fulmine come punizione per il suo orgoglio.
Floro disse di lui che istituì
tutto quanto riguardava la disciplina militare e l'arte
della guerra, tanto che, dopo aver formato i giovani romani,
osò provocare gli Albani, i cittadini di Alba Longa, popolo vicino e
potente; e l'evento distintivo del suo regno fu proprio la
distruzione di Alba Longa, evento confermato dagli storici.
Secondo la tradizione, i rapporti
amichevoli fra i Romani e la popolazione di Alba Longa, situata sui
colli vicino a Roma, si erano guastati ed erano sorte continue
controversie. La risposta del re romano alle lamentele degli Albani
fu che l'inizio della lite era stato opera loro. E poiché entrambi i
popoli avevano eguale forza, e continuavano ad indebolirsi con
frequenti combattimenti, per abbreviare la guerra si decise di
risolvere la disputa con una sfida fra tre fratelli gemelli che
rappresentassero da una parte i Romani (gli
Orazi) e
dall'altra gli Albani (i
Curiazi).
«Incerto e glorioso fu lo scontro e
mirabile il suo esito finale. Poiché da una parte tre erano stati
feriti [Curiazi], dall'altra due uccisi [Orazi], l'Orazio che era
rimasto vivo aggiunse al valore l'inganno e per separare i nemici
finse la fuga e li vinse, battendoli separatamente, nell'ordine in
cui lo raggiungevano. Così si ebbe una vittoria per mano di uno
solo, cosa assai rara, il quale però si macchiò di un assassinio
contro il proprio sangue: aveva visto la sorella piangere sulle
spoglie del fidanzato nemico [Curiazio]; vendicò questo amore di una
vergine con la spada. Le leggi romane lo accusarono per il
delitto, ma il valore [della sua vittoria] lo sottrassero alla pena e
il delitto fu inferiore alla gloria.» (Floro, Epitoma de Tito Livio
bellorum omnium annorum DCC, I, 3.4-6.)
Alba Longa fu sconfitta e assoggettata
allo stato romano. Quando però si rifiutò di aiutare Roma in un
successivo conflitto contro la città di Fidenae, addirittura
schierandosi contro, Ostilio fece dilaniare il dittatore degli Albani, Mezio
Fufezio: «[...] vinto il nemico [di Fidene], Mezio Fufezio, che
aveva rotto il patto [con i Romani], legato tra due carri, fu
squartato da veloci cavalli, e la stessa Alba Longa, sebbene fosse
"madre" di Roma, fu distrutta come una [comune] rivale.».
(Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 3.8.). Ma prima di distruggere la città, mai
più ricostruita, ne trasferì tutte le ricchezze e ne
deportò tutti gli abitanti sul Celio, ampliando così
Roma.
Narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita Libri" I: «22 Alla morte di Numa si
tornò a un interregno. Poi il popolo elesse re
- e il senato ratificò l'elezione - Tullo
Ostilio, nipote di quell'Ostilio (cap. 12, N.d.R.) che
si era distinto nella battaglia contro i Sabini ai piedi della
cittadella. Il nuovo re non solo fu diversissimo rispetto al suo
predecessore, ma fu anche più bellicoso di Romolo.
La giovane età e la forza, unite all'aspirazione alla gloria
ereditata dal nonno, erano un incentivo al suo ardore. Così,
pensando che l'inattività prolungata avrebbe irreparabilmente
sfiancato Roma, cercava dovunque pretesti per scatenare la
guerra. Per puro caso successe che dei contadini romani
andarono a fare razzia di bestiame in territorio albano e quelli
della campagna di Alba gli restituirono subito il favore
compiendo la stessa prodezza. In quell'epoca Alba era governata da
Gaio Cluilio. Entrambe le parti in causa mandarono contemporaneamente
degli inviati per riavere il maltolto. Tullo aveva ordinato ai suoi
di compiere prima di tutto la loro missione. Era convinto che avrebbe
ottenuto un rifiuto. In tal caso sarebbe stato suo diritto dichiarare
guerra. I rappresentanti di Alba agirono invece con maggiore flemma.
Ricevuti con amabile cortesia da Tullo, onorano con simpatia il
banchetto offerto dal re. Nel frattempo quelli di parte romana li
avevano presi sul tempo: la richiesta di risarcimento era già stata
presentata. Di fronte a un secco rifiuto da parte albana avevano
quindi avanzato una dichiarazione di guerra con
decorrenza di lì a trenta giorni. Di ritorno a Roma ne riferiscono a
Tullo. Questi allora invita i delegati albani a chiarire il motivo
della loro missione. Ed essi, non essendo al corrente di nulla,
cominciano perdendo tempo in formalità. Si scusarono di dover
pronunciare parole probabilmente spiacevoli alle orecchie di Tullo,
ma dissero che gli ordini erano ordini. Sostennero di esser venuti a
rivendicare il maltolto e che gli era stato ingiunto di dichiarare
guerra in caso di rifiuto. A queste parole Tullo replicò: “Andate
dal vostro re e ditegli che il re di Roma chiama in causa gli dèi a
testimoniare quale dei due popoli abbia per primo sdegnosamente
congedato gli ambasciatori inviati a rivendicare quanto razziato, in
modo tale che facciano ricadere su di lui tutti i disastri di questa
guerra.”» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 22.)
«23 I rappresentanti di Alba se ne
tornano indietro a riferire questa risposta. Entrambi i popoli si
preparano con grandissimo ardore alla guerra, che si presentava come
una vera e propria guerra civile, addirittura quasi uno
scontro tra padri e figli: gli uni e gli altri erano di origine
troiana in quanto Lavinio era stata fondata da Troia, Alba da Lavinio
e i Romani discendevano dai re albani. Tuttavia l'esito della guerra
rese lo scontro meno deplorevole: infatti non si combatterono
battaglie e, quando le abitazioni di una sola delle due città
furono distrutte, i due popoli si fusero in uno.
Gli Albani scesero in campo per primi e invasero il territorio romano
con un massiccio schieramento di forze. Pongono l'accampamento a non
più di cinque miglia da Roma e lo circondano con un fossato (cui,
per alcuni secoli, rimase il nome di fossa di Cluilio da quello del
comandante, finché, col passare del tempo, scomparvero fossato e
nome). In questo accampamento muore il re albano Cluilio e i suoi
soldati eleggono dittatore Mezio Fufezio. Nel
frattempo, il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla morte del re,
sostenendo che l'onnipotenza divina si sarebbe vendicata del nome
albano (e il re stesso era solo l'inizio) per la guerra criminale da
lui scatenata, evitato nottetempo l'accampamento nemico, andò a
riversarsi in territorio albano. Questa manovra costrinse Mezio a
uscire dalle sue posizioni. Guidando l'esercito il più velocemente
possibile in direzione del nemico, manda avanti un inviato a dire a
Tullo che prima dello scontro egli ritiene necessario un colloquio
tra i due comandanti in capo. Nel caso l'altro avesse accettato, era
sicuro di poter avanzare delle proposte non meno interessanti per i
Romani che per gli Albani. Tullo non rifiutò, anche se fece
schierare le sue truppe in ordine di battaglia nel caso in cui le
proposte si fossero dimostrate prive di interesse. Gli Albani vanno a
disporsi dall'altra parte. Finite le manovre di schieramento dei due
eserciti, i rispetivi comandanti, scortati da pochi maggiorenti,
avanzano verso il centro del campo di battaglia. Il primo a parlare è
l'albano: “Le razzie e il bottino non restituito nonostante le
esplicite richieste in base al trattato mi sembra siano i pretesti
che il nostro re Cluilio indicava come cause di questa guerra, né
dubito Tullo che i tuoi siano tanto diversi. Ma se vogliamo dire la
verità e non fare tanti giri di parole, è la sete di potere che
spinge alle armi due popoli vicini e provenienti dalla stessa stirpe.
Non sto a sbilanciarmi se con ragione o torto: la questione riguarda
chi ha suscitato la guerra. Io sono soltanto un generale scelto dagli
Albani per portare avanti le operazioni. Ma ecco, o Tullo, quello su
cui vorrei attirare la tua attenzione: le proporzioni della
potenza etrusca, che circonda noi ma soprattutto voi,
le conosci meglio tu perché vivi più vicino a loro. Per terra
dominano, ma per mare non hanno avversari.
Quindi, nel momento in cui darai il segnale di battaglia, ricordati
che gli Etruschi staranno a guardare i nostri due eserciti e, non
appena saremo allo stremo delle forze, ne approfitteranno per
assalire vincitori e vinti. Per questo, agli dèi piacendo, visto che
non ci basta la sicurezza della libertà ma preferiamo abbandonarci
all'incertezza tra il potere e la schiavitù, vediamo di stabilire
quale dei due popoli governerà sull'altro senza
grandi disastri e inutili spargimenti di sangue.” La proposta non
dispiacque a Tullo, nonostante fosse più incline allo scontro sia
per motivi di carattere che per la speranza di vittoria. Mentre
entrambe le parti stavano cercando di risolvere la questione, la
sorte stessa fornì loro una soluzione.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 23.)
«24 Per puro caso in entrambi gli
eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né
per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi,
ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei
tempi antichi. Pur essendo però un fatto così celebre, permangono
ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di Orazi
e Curiazi. Gli storici sono divisi, anche se vedo che la maggior
parte di essi chiama romani gli Orazi e anch'io propendo per questa
tesi. I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel
quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte
vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Nessuna
obiezione. Si stabiliscono tempo e luogo. Prima però di dare il via
allo scontro, Albani e Romani stipulano un trattato secondo il quale
il popolo i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato
un potere incondizionato sull'altro. Ogni trattato ha le sue clausole
particolari, ma le procedure sono sempre le stesse. Nella circostanza
presente sappiamo che fu strutturato in questi termini (ed è il più
antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale
rivolse a Tullo questa domanda: “Mi ordini, o re, di stipulare un
trattato col pater patratus del popolo albano?” Poiché il re
rispose affermativamente, egli proseguì: “Io ti chiedo l'erba
sacra.” Il re rispose: “Prendi dell'erba pura.” Allora il
feziale andò a raccogliere l'erba pura sulla cittadella. Quindi
rivolse al re questa domanda: “Re, mi nomini tu plenipotenziario
reale del popolo romano dei Quiriti ed estendi questo carattere
sacrale ai miei paramenti e ai miei assistenti?” Il re risponde:
“Te lo concedo, purché non debba danneggiare né me né il popolo
romano dei Quiriti.” Il feziale, Marco Valerio, nominò pater
patratus Spurio Fusio toccandogli la testa e i capelli con un
ramoscello sacro. Il compito del pater patratus è quello di
pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il
trattato. A questo fine egli pronuncia una specie di ampollosa
formula liturgica che non vale la pena riportare. Quindi, dopo aver
letto le clausole, il feziale dice: “Ascolta, o Giove;
ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo
di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla
cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e
senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi
perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà
il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con
qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpsci il popolo
romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in
questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più
grande e forte è la tua potenza.” Detto questo, colpì il maiale
con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro
comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali
e il giuramento che li riguardavano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 24.)
«25 Concluso il trattato, i gemelli,
come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le
parti i soldati incitavano i loro campioni. Gli ricordavano che gli
dèi nazionali, la patria e i genitori, nonché tutti i concittadini
rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi
puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i fratelli, pronti
allo scontro non già solo per il tipo di carattere che avevano ma
esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzano nello spazio in
mezzo alle due schiere. Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano
intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non
tanto per qualche pericolo imminente, quanto perché era in ballo la
supremazia legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro.
Così, sul chi vive e col fiato sospeso, si concentrano sullo
spettacolo non certo rilassante. Viene dato il segnale e i sei
giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo
sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli
altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente
alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti
future della patria che loro soli possono condizionare. Al primo
contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il
sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle
due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. Ma
quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo
più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria ma
cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani,
colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre
Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia
si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai
ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione
circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto
indenne, non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era
pronto a dare battaglia contro uno per volta. Quindi,
per separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero
inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero
permesso. Si era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto
luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo
piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si fermò
aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano
ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso
l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato
di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i
Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre
presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse
sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. Ora lo
scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio
risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria.
L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco
per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa,
si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle
vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena
caduti. Non fu un combattimento. Il Romano gridò esultando: “Ho
già offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la
voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su
Alba.” L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi.
Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso,
gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I
Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era
tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due
eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con
sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la
supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe
esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane
nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione
di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 25.)
«26 Prima di allontanarsi, Mezio, in
base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e
Tullo gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe
avuto bisogno delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio.
Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa
dei Romani marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte
alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora
nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi.
Appena
riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del
fidanzato che lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli e
in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto. Il suo pianto,
proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria, irrita
l'animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafigge
la ragazza rivolgendole nel contempo queste parole di biasimo:
“Vattene con la tua bambinesca infatuazione, vattene dal tuo
fidanzato, tu che riesci a dimenticare i tuoi fratelli morti e quello
vivo e addirittura la patria. Possa così morire ogni romana che
piangerà il nemico.” L'atroce delitto sembrò orribile ai senatori
e alla plebe, ma a ciò si contrapponeva la prodezza di poche ore
prima. Fu comunque preso e portato di fronte al re per essere
processato. Questi, non volendosi assumere l'intera responsabilità
di una sentenza così penosa e impopolare nonché della condanna a
morte che ne sarebbe seguita, convocò l'assemblea del popolo e
disse: “Secondo quanto è prescritto dalla legge, nomino una
commissione di duumviri e gli affido il compito di processare Orazio
per lesa maestà.” Il testo della legge era spaventoso: “I
delitti di lesa maestà siano giudicati dai duumviri. Se l'imputato
ricorre in appello che l'appello dia luogo a una discussione. Nel
caso prevalgano i duumviri, si proceda a coprirne il capo; quindi se
ne leghi il corpo a un albero stecchito e lo si fustighi sia dentro
sia fuori il pomerio.” In virtù di questa disposizione, vengono
nominati i duumviri. Con una legge del genere sembrava loro
impossibile assolvere anche un innocente. Così, dopo averlo
giudicato colpevole, uno di essi disse: “Publio Orazio,ti condanno
per lesa maestà. Vai littore, legagli le mani.” Il littore gli si
era avvicinato e stava per mettergli il laccio, quando Orazio, su
consiglio di Tullo, più clemente nell'interpretare la legge, disse:
“Ricorro in appello.” Il dibattito si tenne così di fronte al
popolo e la gente fu particolarmente influenzata dalla testimonianza
del padre di Orazio il quale sostenne che la morte della figlia era
stata giusta e aggiunse che in caso contrario egli avrebbe fatto
ricorso alla sua autorità di padre e punito il figlio Orazio con le
sue stesse mani. Poi implorò il popolo di non orbare anche
dell'ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima la gente aveva
visto circondato da una notevole prole. Dicendo questo, il vecchio
andò ad abbracciare il giovane e, indicando le spoglie dei Curiazi
appese nel punto che ancor oggi si chiama Trofeo di Orazio, esclamò:
“Quest'uomo che poco fa avete ammirato incedere nell'ovazione
trionfale della vittoria, o Quiriti, ce la farete a vederlo legato e
fustigato sotto una forca? Uno spettacolo così ingrato che a
malapena gli Albani riuscirebbero a tollerarne la vista. Vai littore,
incatena queste mani che poco fa hanno dato al popolo romano la
supremazia. Vai, incappuccia la testa al liberatore di questa città
e legalo a un albero stecchito. Fustigalo sia dentro il pomerio - e
quindi tra i trofei e le spoglie nemiche -, sia fuori di esso - e
quindi tra le tombe dei Curiazi. Dove potreste portarlo questo
giovane senza che la sua gloria gridi vendetta per l'onta di un
simile verdetto?” Il popolo, incapace di resistere alle lacrime del
padre e alla fermezza incrollabile del figlio di fronte a ogni
pericolo, assolse Orazio più per l'ammirazione suscitata dalla sua
prodezza che per la bontà della sua causa. E così, per purificare
malgrado tutto il delitto flagrante con una qualche espiazione, al
padre venne ordinato di compiere l'espiazione per il figlio a
pubbliche spese. Per questo motivo egli offrì dei sacrifici
espiatori che da quel momento divennero una tradizione peculiare
della famiglia Orazia. Quindi eresse nella pubblica via una struttura
di travi e, come se si fosse trattato di un giogo vero e proprio, vi
fece passare sotto il figlio a capo coperto. La cosa esiste ncora e
di tanto in tanto viene rimessa in sesto a spese dello stato: si
chiama trave sororia. Quanto all'Orazia, le fu
innalzato un sepolcro di pietre squadrate nel punto in cui era caduta
sotto i colpi del fratello.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 26.)
«27 Ma la pace con Alba non durò a
lungo. La gente era scontenta perch le sorti del paese erano state
affidate a tre soli soldati. Questo influenzò l'indole volubile del
dittatore. Così, visto che la saggezza non aveva avuto troppo
successo, per riconquistare la popolarità perduta, egli adottò il
metodo della malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva
cercato la pace, così adesso in tempo di pace si mise a cercare la
guerra. Rendendosi però conto che la sua gente aveva sì coraggio ma
ben poca forza, spinse altri popoli a dichiarare guerra apertamente e
con tutti i crismi, e riservò ai suoi uomini la possibilità di
tradire i Romani mostrando invece di voler essere al loro fianco. Gli
abitanti di Fidene, colonia romana, e quelli di Veio (che erano stati
messi a parte dei loro piani) vengono spinti a dare il via alle
ostilità con la promessa di poter contare sull'appoggio di Alba
durante il conflitto. Quando Fidene si ribellò senza mezzi termini,
Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e mosse contro il
nemico. Attraversato l'Aniene, si accampa alla confluenza dei due
fiumi. Invece l'esercito dei Veienti aveva guadato il Tevere in un
punto tra quella zona e Fidene. Lo schieramento per la battaglia era
questo: all'ala destra, lungo il fiume, i Veienti, mentre alla
sinistra, verso le montagne, i Fidenati. Tullo dirige i suoi contro
quelli di Veio e piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il
coraggio e la lealtà non erano il punto
forte del generale albano. Non osando quindi né tenere
la posizione né disertare apertamente, prese ad avvicinarsi a poco a
poco alla montagna. Quando ritenne di esservisi avvicinato a
sufficienza, ancora incerto sul da farsi, fece spiegare le sue forze
per guadagnare un po' di tempo. Il suo piano era questo: scendere in
campo dalla parte di chi stava avendo la meglio. I Romani che si
trovavano più vicini, quando si resero conto di avere i fianchi
scoperti per la ritirata degli alleati, rimasero annichiliti. Allora
un cavaliere partì al galoppo e andò a riferire al re
dell ritirata albana in corso. Tullo, nel pieno della crisi, fa voto
di creare dodici Salii e di innalzare dei santuari al Pallore e al
Panico. Interpellando il cavaliere ad alta voce, in maniera da poter
essere sentito dal nemico, gli ingiunge di tornare in prima linea.
Non c'era motivo di panico. Lui stesso aveva ordinato alle truppe di
Alba quella manovra di accerchiamento per prendere da dietro i
fianchi scoperti dei Fidenati. Fa inoltre ordinare alla cavalleria di
alzare le lance. Con questa mossa riuscì a nascondere a parte della
fanteria romana la manovra di ripiegamento delle truppe albane. Chi
se n'era reso conto si fidò di quel che aveva sentito dal re e si
buttò con più foga nella mischia. Il terrore passò così
dalla parte dei nemici, sia perché avevano sentito la frase
pronunciata ad alta voce dal re, sia perchè gran parte dei Fidenati,
avendo avuto tra di loro dei Romani come coloni, sapevano il latino.
Quindi, per evitare che un'improvvisa calata degli Albani dal fianco
del monte chiudesse loro la strada in direzione della città,
tornarono indietro. Tullo li insegue e, sbaragliata l'ala dei
Fidenati, rinviene con più impeto su quella dei Veienti,
demoralizzati dal panico degli alleati. Anch'essi evitarono lo
scontro ma non riuscirono a fuggire alla spicciolata perché si
trovarono l'ostacolo del fiume alle spalle. Quando arrivarono lì,
alcuni, gettando ignominiosamente le armi, si buttavano in acqua alla
cieca, altri, attardatisi sulla riva, nell'indecisione tra il fuggire
e il combattere, si facevano uccidere. In nessuna battaglia
precedente i Romani versarono così tanto sangue.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 27.)
«28 Fu allora che l'esercito albano,
spettatore dello scontro, riguadagnò la piana. Mezio si congratula
con Tullo della vittoria sui nemici e Tullo gli risponde
cortesemente. Quindi ordina agli Albani (e possa la cosa avere buon
fine!) di unire il loro accampamento a quello dei Romani e poi
prepara un sacrificio di purificazione per il giorno successivo.
Quando all'alba tutto era pronto, convoca in assemblea i due
eserciti. Gli araldi, avendo iniziato dal fondo del campo, chiamarono
per primi gli Albani che, colpiti dall'assoluta novità della cosa,
si andarono a piazzare vicino al re per non perderne il discorso. La
legione romana, armata secondo quanto convenuto, li circonda. I
centurioni avevano l'ordine tassativo di portare a termine senza
indugi quello che gli era stato comandato. Allora Tullo prese la
parola e disse: “O Romani, se mai prima di questa volta, in tutte
le guerre da voi combattute, avete avuto ragione di rendere grazie
prima agli dèi immortali e poi al vostro stesso valore, questo è
successo nella battaglia di ieri. Infatti non avete combattuto solo
col nemico, ma - e in questo sta la maggiore pericolosità della cosa
- avete anche dovuto affrontare il subdolo tradimento degli alleati.
Sia dunque chiaro: non è su mio ordine che gli Albani si sono
spostati verso la montagna. Quello che avete sentito da me non è
stato un mio comando ma una calcolata simulazione: volevo evitare
che, rendendovi conto di essere stati abbandonati, vi distraeste
dalla battaglia e nel contempo volevo scatenare panico e fuga tra i
nemici facendo credere loro di essere stati aggirati. E non tutti gli
Albani sono responsabili del crimine in questione: hanno seguito il
loro comandante, come avreste fatto anche voi se vi avessi ordinato
una qualche manovra sul campo. È
Mezio che ha guidato quella diversione. Lo stesso Mezio
che ha architettato questa guerra, lo stesso Mezio che ha infranto il
trattato tra Romani e Albani. Che qualcun altro possa di qui in poi
ripetere una simile prodezza, se io di costui non farò un clamoroso
esempio per l'intero genere umano.” Quindi i centurioni, armi alla
mano, circondano Mezio, mentre il re, con lo stesso tono con cui
aveva iniziato, riprese: “Che la prosperità e la buona sorte siano
col popolo romano, con me e anche con voi, o Albani. È
mia intenzione trasferire tutta la gente di Alba a
Roma, concedere la cittadinanza alle classi subalterne,
eleggere senatori i nobili e avere una sola città e un solo
stato. Come un tempo la civiltà albana fu divisa in due popoli,
possa oggi riacquistare la sua unità.” A queste parole, i giovani
albani, disarmati e circondati da armati, benché divisi nelle
reazioni individuali al discorso, erano tuttavia uniti nel silenzio
dovuto alla paura unanime. Allora Tullo disse: “Mezio Fufezio, se
tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispeto dei trattati,
ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la
tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo
supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai
violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e
Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.” Quindi chiede due
quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel mezzo. Poi incita i
cavalli in direzioni diverse: ciascun carro si trascinò via pezzi
del corpo maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo
vincolavano da ambo le parti. Tutti distolsero lo sguardo da uno
spettacolo così orribile. Quella fu la prima e ultima volta che i
Romani ricorsero a un tipo di pena contraria a ogni umana legge. Per
il resto possiamo infatti vantarci di non essere secondi a nessun
popolo nella clemenza delle pene inflitte.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 28.)
«29 Frattanto, vennero mandati ad Alba
dei cavalieri per trasferire a Roma la popolazione.
A essi seguirono poi le legioni per distruggere la città.
Quando ne superarono le porte, non ci fu, a dire il vero, quel fuggi
fuggi terrorizzato che è classico delle città conquistate, quando
il nemico fa breccia negli ingressi, abbatte le mura a colpi
d'ariete, assalta la cittadella e poi dilaga per le strade mettendo
ogni cosa a ferro e fuoco in un boato di urla e di armi. Niente di
tutto questo: solo un lugubre silenzio e un dolore senza voce. Tutti
erano così depressi che, in balia della paura, non avevano più la
lucidità di decidere cosa abbandonare lì e cosa portarsi dietro e
si interpellavano a vicenda ora immobili di fronte alle porte, ora in
un abulico vagare dentro le case che avrebbero visto per l'ultima
volta. Poi, quando ormai i cavalieri gli urlavano di sbrigarsi a
uscire, quando già si iniziava a sentire il fragore delle prime case
demolite nei sobborghi e il polverone dei crolli nei quartieri
lontani aveva coperto ogni cosa come una nuvola bassa e diffusa,
allora ciascuno cercava di afferrare ciò che poteva uscendo dalla
casa in cui era nato e cresciuto e in cui doveva lasciare lari e
penati. Subito le strade si riempirono di una fila interminabile di
sfollati i quali, specchiandosi nello stato miserando dei propri
consanguinei, ricominciarono a piangere e urla strazianti di dolore
(erano soprattutto donne) si levarono quando passarono davanti ai
templi piantonati dai soldati armati in quanto sembrò loro di
lasciare le divinità in mano al nemico. I Romani fanno uscire
gli Albani dalla città e poi radono al suolo tutti gli
edifici, pubblici e privati, e in un'ora soltanto azzerano i
quattrocento anni di storia che Alba aveva alle spalle. L'unica cosa
risparmiata, secondo le disposizioni del re, furono i templi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 29.)
«30 Con la distruzione di Alba, Roma
si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle
Celio viene inserito nella città e, per
spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede
permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà
albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli)
ottenne nomine senatoriali, così che anche quella
parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede
consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato
di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di
Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché
tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo
popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò
i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre
attingendo esclusivamente alle forze alleate.
Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini
che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per
disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato
danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava
la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei
pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo
prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel
bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi
erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non
trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma
da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente
annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono
anch'essi a cercare aiuti dall'estero. Gli Etruschi erano vicini, ma
ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi,
essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo
alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad
assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti
soltanto dall'opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun
aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava
fedele al suo trattato concluso con Romolo. Mentre l'una e l'altra
parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che
avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo
anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno
scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la
meglio grazie sì alla forza d'urto della loro fanteria, ma
soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella
cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a
seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non
furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia,
né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30.)
«31 Dopo la disfatta inflitta ai Sabini,
e quando ormai il regno di Tullo e la potenza romana avevano
raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza,
ecco che venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano
stavano piovendo pietre. Siccome la cosa non era molto verisimile,
furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Essi riferirono
di aver visto coi loro occhi una spessa pioggia di pietre
che cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla
terra. Nel bosco che c'è in cima alla vetta era sembrato loro anche
di sentire una voce possente la quale ordinava agli Albani di
celebrare, secondo il rito tradizionale, i sacrifici che essi avevano
lasciato cadere nell'oblio quando, con la città, avevano abbandonato
anche i loro dèi e adottato culti romani o, come spesso succede,
rinnegato i propri per un risentimento nei confronti del destino.
Anche i Romani, a seguito di questo prodigio, proclamarono una novena
ufficiale, sia per la voce celeste emessa dal monte Albano (così
vuole la tradizione), sia su consiglio degli aruspici. In ogni modo,
rimase un'usanza abituale: ogni qual volta si fosse ripetuto un
fenomeno analogo, sarebbero seguiti nove giorni di festa. Non molto
tempo dopo Roma fu colpita da un'epidemia cui fece seguito una
riluttanza alle prestazioni militari. Ciò nonostante, il bellicoso
re Tullo non dava tregua ai suoi sudditi, persuaso com'era che
le esercitazioni militari fossero più salutari
ai fisici dei giovani che l'aria di casa. Finché lui stesso non fu
colpito da una malattia dal lungo decorso. E allora l'infermità ne
minò simultaneamente il corpo e l'indole bellicosa a tal punto che
uno come lui, in passato convintissimo che nulla fosse più indegno
per un re che occuparsi della sfera religiosa, improvvisamente
divenne vittima di ogni forma di piccola e grande superstizione e
prese a imbottire la sua gente di scrupoli religiosi. Tutti ormai
reclamavano un ritorno allo stato delle cose ai tempi di Numa,
pensando che l'unico rimedio alla deperibilità dei loro corpi
consistesse nella benevolenza e nel perdono degli dèi. Il re stesso,
così vuole la tradizione, poiché consultando le memorie di Numa
aveva trovato menzione di certi sacrifici occulti praticati in onore
di Giove Elicio, vi si dedicò in segreto. Il fatto è che commise
qualche errore nel preparare o nel celebrare il rito e
quindi, non solo non ebbe alcuna visione divina, ma suscitò anche
l'ira di Giove il quale, irritato dalla profanazione del
culto, incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo.
Comunque, il glorioso regno di questo re guerriero durò trentadue
anni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 31.)
Anche l'anno successivo a quello della
distruzione di Alba, i Fidenati scesero in battaglia contro Roma, ma
vennero ancora una volta sconfitti e i loro capi uccisi. Tullo
Ostilio si impegnò anche in una guerra contro i Sabini. Fu durante
il suo regno che, nell'area del Foro che in seguito sarebbe stata
utilizzata per i Comizi, fu costruita la Curia Hostilia, che
divenne il luogo deputato alle riunioni dei senatori,
che prima di allora si riunivano all'aperto.
In seguito i romani furono impegnati in
5 anni di combattimenti contro le città Latine, che si opponevano
alla pretesa di Roma di governare sopra di esse per aver sconfitto
Alba. In effetti non si trattò che di schermaglie, e l'unico fatto
davvero cruento fu la presa di Medullia, già colonia romana,
ribellatasi alla madrepatria.
Dopo gli anni di Romolo ed il pacifico regno di Numa Pompilio, che aveva iniziato a dare forma alla parte spirituale della città, con Tullo Ostilio la tregua con Veio, pur se a fatica, resse anche se, approfittando dei postumi della conquista e distruzione di Albalonga, la pressione dei Sabini su Roma favorì il radunarsi di una certa quantità di volontari etruschi a Veio, per poter approfittare della situazione, anche se «Ufficialmente non fu dato alcun aiuto perché era ancora valido presso i Veienti il patto di tregua stipulato con Romolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30, op. cit.)
La leggenda dice che Tullo era così
occupato in una guerra dopo un'altra che aveva trascurato ogni
servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté
sui Romani. Anche Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per
avere il suo favore ed il suo aiuto e la risposta del dio fu
un fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re
e ridusse la sua domus in cenere, dopo trentadue anni di regno.
Ciò fu visto dai Romani come
un'indicazione di scegliere meglio il nuovo re, un re che seguisse
l'esempio pacifico di Numa Pompilio e scelsero Anco
Marzio, il nipote di Numa Pompilio.
Tullo Ostilio va considerato
semplicemente come il duplicato di Romolo. Entrambi sono eletti fra i
pastori, continuano la guerra contro Fidene e Veio, aumentano il
numero dei cittadini, organizzano l'esercito e spariscono dalla terra
durante una tempesta.
Dionigi d'Alicarnasso in Antichità
romane invece ci racconta un'altra possibile morte di Tullo Ostilio;
infatti ci dice che Anco Marzio, prima al servizio di Tullo Ostilio,
anelasse diventare rex e con alcuni sicari fosse andato nella casa di
Tullo Ostilio e l'avesse ucciso e poi avesse raccontato alla gente la
storia del fulmine caduto nella Domus Hostilia, e in un primo tempo
il popolo non gli credette. Ma sottolinea anche il fatto che la
storiografia elogia Anco Marzio come buono e pacifico rex (in
contrasto con la tradizione che lo vorrebbe assassino e assetato di
potere per ottenere la posizione di rex), perciò ritiene possibile
anche la caduta accidentale di un fulmine in casa di Tullo Ostilio.
Poiché Romolo e Numa
Pompilio rappresentano le tribù dei Ramnes e dei Tities, così per completare la lista dei quattro elementi tradizionali della
nazione, Tullo è il rappresentante della tribù dei Luceres e Anco
Marzio è il fondatore della Plebe.
Nel
641 a.C. Anco Marzio, che ha regnato dal 641 al 616 a.C., succede al bellicoso Tullo Ostilio, diventando il nuovo
re di Roma, favorito all'ascesa al trono dal legame di parentela con Numa Pompilio, di cui era nipote per parte di madre, figlia di Numa. Pur essendo nipote di Numa Pompilio, di indole pacifica e spirituale, per estendere i territori e il prestigio di Roma, non disdegnò di battersi in numerose battaglie, e d'altra parte, dopo il regno di Tullo Ostilio, che aveva cancellato ogni
relazione tra il
potere monarchico-
militare, quello
politico-
religioso e il
senso del
sacro romano, il nuovo re collegò quei rapporti.
Con il regno di Anco
Marzio, i cent'anni di tregua fra Roma e Veio erano di certo scaduti.
Infatti si legge in Livio che uno dei metodi del re romano per
ingrandire lo Stato, oltre alla deportazione a Roma delle genti
latine sconfitte, fu l'acquisizione territoriale: «la Selva Mesia,
strappata ai Veienti, fece arrivare il dominio romano fino al
mare. Alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia
e tutt'intorno vennero create delle saline.» (Tito Livio, Ab
Urbe condita libri, I, 33, op. cit.). Si assistette così alla
graduale spoliazione del territorio veiente e ad un sovrapporsi di
Roma nella produzione e nel commercio del sale.
La creazione di Ostia alla foce del fiume mostrò come il controllo
del Tevere fosse determinante per la ricchezza delle città
etrusche dell'interno.
Anco Marzio riprende l'espansione
verso sud, a danno dei Latini, invasione già avviata
dal suo predecessore e conquista Politorium (nei pressi di Acqua
acetosa, XXIV Municipio Fonte Ostiense), i cui cittadini sono
deportati a Roma, così come lo erano stati quelli di Alba Longa.
Quindi, dopo quattro anni di combattimenti, conquista nuovamente la
colonia romana di Medullia, sulla riva destra dell'Aniene (forse nei
pressi del Comune di Sant'Angelo Romano), dopo che questa era
nuovamente passata ai Latini. La stessa sorte toccò agli abitati di
Tellenae (forse nei pressi di Medullia) e Ficana (nei pressi di
Acilia), garantendo così a Roma il controllo dei territori che si
estendevano dalla costa all'Urbe.
Quindi, dopo altri due anni di guerre
infruttuose con i Latini, i Romani conquistarono e saccheggiarono
Fidenae (attuale Fidene, III Municipio) e respinsero anche razziatori
Sabini, che avevano compiuto scorrerie nei possedimenti romani
lasciati sguarniti. Poi, qualche anno dopo, i Romani combatterono e
vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus
salinarum) contro la città di Veio, che pretendeva di
riottenere i possedimenti persi all'epoca di Romolo, e l'anno
seguente ebbero la meglio anche sui Volsci che, dopo aver razziato le
campagne romane, si erano ritirati dentro le mura di Velitrae
all'apparire dell'esercito romano.
Anco Marzio aggiunse così alla
città di Roma, oltre all'Aventino, che cinse
all'interno delle mura cittadine e popolò con le popolazioni
latine deportate a Roma
(tra le quali quelle di Tellenae e Politorium), anche il Gianicolo,
e probabilmente anche il Celio.
Durante il suo regno sono realizzate
numerose opere architettoniche tra cui la fortificazione del Gianicolo, la fondazione della prima colonia romana ad
Ostia alla foce del Tevere (a 16 miglia da Roma),
«evidentemente perché già allora aveva il presentimento che le
ricchezze ed i viveri di tutto il mondo sarebbero stati, un giorno,
ricevuti lì, come se fosse lo scalo marittimo di Roma»; la
costruzione della via Ostiense, dove per primo organizzò le saline e
costruì una prigione, la costruzione dello scalo portuale sul Tevere
chiamato Porto Tiberino e la costruzione del primo ponte di
legno sul Tevere, il Pons Sublicius.
Il
Porto tiberino (
portus Tiberinus) fu
il primo porto commerciale di Roma antica, collocato sul tratto
urbano del Tevere. Più precisamente fu costruito tra le pendici del
Palatino e quelle del Campidoglio, cioè nell'area tra il Foro Boario
e il Foro Olitorio, dove l'ansa del Tevere creava una propaggine
acquitrinosa nota come
palude del
Velabro. Giungevano al porto: da
monte, i prodotti dell'Italia centrale, dell'Umbria e dell'Etruria;
da valle, quelli transmarini che dal porto di Ostia venivano
trasbordati dalle grandi navi da carico ai battelli fluviali. In
quest'ultimo caso i battelli che risalivano il Tevere dovevano essere
trainati da animali.
Ristabilì le cerimonie religiose
istituite da Numa. A lui si fa discendere la definizione dei
riti che dovevano essere seguiti dai Feziali, affinché la guerra
dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere quindi
una "guerra giusta".
Racconta Tito Livio: «32 Alla morte di Tullo, il potere, in
conformità alla regola stabilita sin dall'inizio, era tornato ai
senatori i quali nominarono un interré. Questi convocò l'assemblea
e il popolo elesse re Anco Marzio, con la
ratifica del senato. Anco Marzio era nipote per parte di madre del re
Numa Pompilio. Quando salì al trono, ricordandosi della gloria
dell'avo, aveva la ferma convinzione che il regno precedente, tra le
tante cose positive, avesse mostrato un'unica debolezza: i riti
religiosi erano stati trascurati o praticati
male. Perciò ritenne che la prima cosa da farsi fosse
ristabilire le pubbliche cerimonie secondo il rituale
fissato da Numa e a questo proposito ordinò al pontefice
massimo di copiare tutte le prescrizioni cultuali dai taccuini del re
su una tavoletta bianca da esporre poi in pubblico. Questo primo
passo fece sperare ai Romani avidi di pace e ai popoli confinanti che
il re avrebbe seguito le orme dell'avo tanto nel carattere quanto nel
tipo di politica. Così i Latini, coi quali era stato firmato un
trattato durante il regno di Tullo, ripresero coraggio e fecero
un'incursione nel territorio romano. Quando i Romani gliene chiesero
riparazione, essi risposero in maniera sprezzante, convinti che un re
del genere avrebbe trascorso l'intera durata del suo regno dietro
altari e santuari. Ma il carattere di Anco era perfettamente
equilibrato, una via di mezzo tra Numa e Romolo.
Inoltre pensava che durante il regno dell'avo ci fosse maggiore
bisogno di pace perché il popolo era nuovo e indisciplinato, ma
anche che gli sarebbe stato difficile ottenere quella tranquillità
che l'avo era riuscito a ottenere senza eccessivi travagli. Adesso
che mettevano alla prova la sua pazienza e poi la disprezzavano, per
i tempi in corso, sul trono era meglio un Tullo
che un Numa. Ma come Numa in tempo di pace aveva
fornito un regolamento per le pratiche religiose, allo stesso modo
egli adesso voleva istituire un cerimoniale di guerra,
così che non ci si limitasse soltanto a fare le guerre ma le si
dichiarasse anche secondo un qualche formulario
fisso. E per approntarlo ricorse a una regola dell'antica tribù
degli Equicoli, cui ancor oggi i feziali si attengono per presentare
un reclamo. Quando l'inviato arriva alle frontiere del paese cui
viene rivolto il reclamo, con il capo coperto da un berretto (dotato
di un velo di lana), dice: “Ascolta, Giove; ascoltate, o
frontiere,” e qui specifica del tale e del talaltro paese, “e mi
ascolti anche il sacro diritto. Io sono il rappresentante ufficiale
del popolo romano. Vengo per una missione giusta e santa: abbiate per
questo fiducia nelle mie parole.” Quindi elenca i reclami e chiama
a testimone Giove: “Se io non mi attengo a ciò che è santo e
giusto nel reclamare che mi vengano consegnati questi uomini e queste
cose, possa non ritrovare più la mia terra.” Ripete questa formula
quando attraversa il confine; la ripete al primo uomo che incontra,
la ripete quando entra in città, la ripete facendo ingresso nel
foro, con solo qualche piccola modifica nella forma e
nell'invocazione del giuramento. Se l'oggetto del suo reclamo non
viene restituito entro il trentatreesimo giorno (si tratta del
termine convenzionale), dichiara guerra con questa formula: “Ascolta,
Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino, e voi tutte divinità del
cielo, della terra e degli inferi, ascoltatemi. Io vi chiamo a
testimoni che questo popolo,” e ne fa il nome, “è ingiusto e non
ripara quanto deve. A questo proposito, chiederemo consiglio in
patria, ai più anziani tra i nostri concittadini, su come ottenere
quanto ci spetta di diritto.” Poi il messaggero torna a Roma per la
decisione definitiva. E subito il re si consulta coi senatori grosso
modo in questi termini: “A proposito degli oggetti, delle
controversie e delle cause di cui il pater patratus del popolo romano
ha discusso con il pater patratus dei Latini Prischi e con alcuni dei
Latini Prischi, a proposito di ciò che non è stato consegnato,
restituito e fatto di quello che doveva essere consegnato, restituito
e fatto, dimmi,” rivolgendosi al primo che lo aveva consultato,
“che cosa ne pensi?” E l'altro replica: “Penso sia giusto e
sacrosanto riottenere il dovuto con la guerra: questi sono il mio
pensiero e il mio voto.” Poi a turno vengono consultati gli altri.
E una volta ottenuto il consenso della maggioranza, tutti si trovano
d'accordo sulla guerra. Di solito il feziale porta ai confini con
l'altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco
e, di fronte ad almeno tre adulti, dice: “Poiché i popoli dei
Latini Prischi e alcuni dei Latini Prischi si sono resi responsabili
di atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il
popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prischi e il
senato del popolo romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il
suo consenso a questa guerra coi Latini Prischi, per i suddetti
motivi, io - e quindi il popolo romano dei Quiriti - dichiaro guerra
ai popoli dei Latini Prischi e ai cittadini dei Latini Prschi e la
metto in pratica.” Detto ciò, scaglia la lancia nel loro
territorio. Ecco dunque in che termini fu esposto il reclamo ai
Latini e come fu loro dichiarata guerra: l'usanza è passata ai
posteri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 32.)
«33 Anco, dopo aver lasciato ai Flamini
e ad altri sacerdoti l'incarico di provvedere ai sacrifici, si mise
in marcia con un esercito di recente formazione e conquistò di forza
Politorio, città dei
Latini. Quindi, seguendo l'usanza
dei suoi predecessori sul trono, i quali avevano ingrandito Roma
integrandovi i nemici fatti prigionieri, vi
trasferì l'
intera
popolazione. E visto che i
primi Romani avevano
occupato il
Palatino, i
Sabini il
Campidoglio e
la
cittadella, e gli
Albani il monte
Celio, al
nuovo nucleo di stranieri fu assegnato l'
Aventino, sul quale,
non molto tempo dopo, vennero trasferiti gli abitanti anche di altre
due città conquistate,
Tellene e
Ficana. In seguito
Politorio fu attaccata una seconda volta perché i Latini Prischi
l'avevano rioccupata dopo l'evacuazione. Ciò fornì ai Romani il
pretesto per raderla al suolo: non avrebbe così più offerto rifugio
ai nemici. Alla fine la guerra coi Latini si concentrò integralmente
su Medullia, dove, per un po' di tempo, si combatté con un certo
equilibrio e non era facile prevedere chi avrebbe avuto la meglio.
Infatti la città era dotata di solide fortificazioni e difesa da una
guarnigione piuttosto tenace. Inoltre, l'armata latina, accampata in
aperta pianura, non perdeva occasione di venirsi a scontrare coi
Romani. Alla fine, impegnando tutti gli uomini a disposizione, Anco
ottenne la sua prima vittoria in battaglia e rientrò a Roma con un
immenso bottino. Migliaia di Latini li integrò in città e, per
unire Aventino e
Palatino, diede loro come sede
la zona intorno al tempio di Murcia. Integrò nella cerchia urbana
anche il
Gianicolo, non tanto per bisogno di spazio, quanto
piuttosto per evitare che quella roccaforte potesse un giorno cadere
in mano al nemico. Si decise non solo di munirlo di
fortificazioni,
ma anche di metterlo in comunicazione con il resto della città
mediante un
ponte di legno che ne avrebbe facilitato l'accesso
e che fu il
primo costruito
sul Tevere. Anche la
fossa dei Quiriti, difesa non trascurabile sul versante più esposto
a incursioni dalle pianure, è opera di Anco. Con questi possenti
incrementi umani, all'interno di una popolazione così numerosa era
divenuto difficile distinguere il bene dal male e di conseguenza il
crimine proliferava nell'ombra. Quindi, per
scoraggiare
la crescente
illegalità, venne costruito un
carcere in
pieno centro, a due passi dal foro. Il
regno di
Anco
non significò
espansione soltanto per la città, ma anche per
la campagna e i dintorni. Il bosco di Mesia, tolto ai Veienti, estese
il
dominio di
Roma fino al
mare, e alle foci del
Tevere venne fondata
Ostia, intorno alla quale furono create
delle
saline. Per celebrare invece i successi militari fece
ingrandire il tempio di Giove Feretrio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33.)
Anco Marzio sarebbe stato quindi, per alcuni, soltanto un
duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo
secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non
essendo niente altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come
sacerdote.
L'identificazione con Anco è indicata dalla leggenda che
indica quest'ultimo come costruttore di un ponte (pontifex = pontefice), il
costruttore del
primo ponte di legno sopra il Tevere. È
nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali che la somiglianza è
mostrata più chiaramente.
È sintomatico il fatto che proprio durante il regno di Anco
Marzio sia giunto a Roma il futuro re Tarquinio Prisco, la
personificazione dell'imminente influenza etrusca su
Roma. L'etrusco Lucumone, di padre greco che a Roma si faceva chiamare Lucio Tarquinio, in seguito distinto con Prisco per distinguerlo da
suo figlio Lucio Tarquinio detto il Superbo, proveniva dall'etrusca
Tarquinia, e divenne re proprio quando l'etrusca Veio subiva
una pesante crisi economica. Tanaquil (o Tanaquilla, o Gaia
Caecilia o Gaia Cyrilla), etrusca di nobile discendenza, una delle
donne più influenti nella storia politica romana, era la moglie
di Lucumone Lucio Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, che governò tra 616 a.C.
e il 579 a.C. Tanaquil incoraggiò il marito Lucumone a lasciare la
loro città, Tarquinia, per emigrare a Roma, vista l'ostilità di cui
era fatto oggetto Lucumone in patria. Fu sempre Tanaquil, profonda
conoscitrice delle cose religiose, ad interpretare l'evento di cui fu
protagonista Lucio Tarquinio al loro arrivo a Roma (un'aquila prima
rubò il berretto al marito poi tornò indietro e lo lasciò cadere
sulla sua testa) come segno del favore degli dèi verso il marito.
Racconta Tito Livio: «34 Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall'ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a seguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio (= partorito, gettato fuori N.d.R.) in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest'onta, mise da parte l'attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un'aquila planò su di loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi sparì nell'alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell'uccello, della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un dio. Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. E il re non lo apprezzò per quel che era finché la generosità e l'efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 34.)
«35 Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile. I suoi figli erano ormai quasi degli uomini fatti e per questo Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo dell'assemblea popolare per l'elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli mandò i ragazzi a una battuta di caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a impegnarsi in una campagna per il trono e che pronunciò un discorso puntato a conquistare il favore popolare. Disse che il suo caso non era privo di precedenti e, per evitare che qualcuno potesse stupirsi e indignarsi, che lui non sarebbe stato il primo bensì il terzo straniero a puntare al trono di Roma. Tazio, addirittura, non solo era un re forestiero, ma proveniva da un paese nemico e Numa, pur non conoscendo affatto Roma e non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. Quanto a se stesso, dal giorno in cui era diventato padrone della propria persona, era venuto a stabilirsi a Roma con la moglie e tutto quello che possedeva. E la parte di vita che di solito si dedica all'adempimento dei propri doveri di cittadini, lui l'aveva trascorsa a Roma e non nella sua città natale; quanto alla sfera civile e a quella militare, aveva appreso il diritto e i culti religiosi romani da un maestro assolutamente fuori del comune, cioè il re Anco in persona. Il suo ossequio e il suo rispetto per la persona del re non erano inferiori a quelli di nessuno; quanto poi a generosità verso il prossimo, solo il re stesso lo era stato più di lui. Il popolo romano, sentendo che non mentiva elencando questi aspetti, lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono, non tradì tutti i sani principi morali che aveva pubblicizzato quando si era autocandidato. Impegnandosi non meno a rinforzare il proprio regno che a consolidare la potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori, noti di lì in poi come di secondo ordine, i quali divennero incrollabili sostenitori del re al cui favore dovevano la loro nomina in senato. La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d'assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Divise tra senatori e cavalieri dei lotti di terra perché si costruissero dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli. Detti palchi ebbero il nome di fori e poggiavano su sostegni sollevati di dodici piedi dal livello del terreno. La manifestazione ruotò intorno a gare di equitazione e a incontri di pugilato con atleti per la maggior parte etruschi. Da quell'occasione i giochi rimasero uno spettacolo regolarmente allestito ogni anno e a seconda dei casi vennero chiamati Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre Tarquinio a dividere tra i privati cittadini appezzamenti di terreno edificabile intorno al foro, i quali vennero utilizzati per la costruzione di portici e negozi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 35.)
Come Numa Pompilio, Anco Marzio morì di morte naturale dopo ventiquattro anni di regno (nel 616 a.C.), di malattia secondo altri, lasciando due figli, uno dei quali ancora fanciullo, che non poterono succedere al padre come re, per come Tarquinio aveva orchestrato la propria candidatura al trono, e succedette infatti ad Anco.
Lucio Tarquinio detto
Prisco
ha regnato dal 616 al 579 a.C. L'aggettivo
prisco, secondo il vocabolario Treccani (
prisco agg. [dal lat.
priscus,
affine a
prior e
primus] (pl. m. -chi), poet. - Che
appartiene a età antichissima, che risale a tempi remoti) ha il significato di "
primo" ed è stato attribuito a re Lucio Tarquinio per distinguerlo dall'omonimo figlio, a cui invece è stato aggiunto l'aggettivo di "superbo". Secondo la tradizione Lucio
Tarquinio Prisco era nato a
Tarquinia da madre etrusca e da padre greco di nome Demarato,
originario di Corinto. Nonostante Tarquinio, che all'epoca si
chiamava Lucumone, fosse ricco e noto nella sua città, veniva
osteggiato dai suoi concittadini e non riusciva ad accedere alle
cariche pubbliche. Per questi motivi e su consiglio di sua
moglie, la nobile
Tanaquil, decise quindi di emigrare da Tarquinia a Roma, dove cambiò
nome, dall'etrusco Lucumone al più latino Lucio Tarquinio, detto poi
Prisco per distinguerlo da suo figlio, l'ultimo re di Roma Tarquinio
il Superbo. Delle sue qualità Floro dice: «[...] riuniva in sé il
genio greco con le qualità italiche.». (Floro, Epitoma de Tito
Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 5.1.)
In città Tarquinio si fece notare per
le sue qualità e la sua generosità, tanto che re Anco Marzio volle
conoscerlo e, una volta divenuto amico, prima lo fece entrare tra i
suoi consiglieri, poi decise di adottarlo, affidandogli il compito di
proteggere i suoi figli. Secondo alcuni studiosi come Giuseppe
Valditara, ricoprì anche la carica di magister populi. Alla
morte del re, Tarquinio riuscì a farsi eleggere re dal popolo romano abusando del prestigio che Anco Marzio gli aveva conferito, nominandolo tutore dei propri figli, che Tarquinio si assicurò di allontanare quando promosse la propria candidatura al trono.
L'abilità militare di Lucio Tarquinio Prisco fu messa alla prova fin dall'inizio del suo regno da un attacco sferrato dai Sabini; l'attacco fu respinto dopo sanguinosi combattimenti nelle strade della città, portando non pochi territori di queste genti vinte sotto il controllo di Roma. Fu in questa occasione che fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù (Ramnes, Tities e Luceri) doveva fornire all'esercito, portando così il totale dei cavalieri a 600.
Tarquinio combatté poi i Latini, distrusse Apiolae e conquistò Crustumerium, Nomentum e Collatia, che diventò una colonia romana governata dal nipote Egerio.
Quindi combatté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle e Vetulonia, corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica, con i Latini che ottennero la pace dietro il pagamento dei danni e la restituzione di quanto depredato.
Gli scontri continuarono anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che occuparono Fidenae con una propria guarnigione per poi continuare gli scontri. Gli scontri tra i Romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni e si risolsero con un grande scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinto dai romani. In seguito a questo scontro gli etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città, Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.
Tarquinio riformò lo stato raddoppiando il numero di senatori, dai 100 membri romulei a 200, e secondo alcuni aumentò il numero dei membri dell'assemblea centuriata a 1.800 componenti, anche se per la maggior parte delle fonti storiche, quell'assemblea sarà istituita da Servio Tullio.
Lucio Tarquinio Prisco attuò una riforma che riguardò la classe dei cavalieri, raddoppiandone il numero delle centurie (fino ad allora in numero di tre) a cui diede il nome di posteriores, non potendo dargli il suo nome a causa di Attio Navio, portando così il totale dei cavalieri a 600. Alcuni studiosi pensano che potessero essere le famose sex suffragia, anche se per altre fonti, con sex suffragia si indicavano le sei centurie di èquites equo publico, che aprivano la votazione nei comìtia centurìata introdotti con la riforma timocratica operata da Servio Tullio.
Ai danni di Tarquinio Prisco, è rimasta celebre l'interferenza di un certo Attio Navio ad aumentare, attribuendogli il suo nome, i contingenti di cavalleria nell'esercito.
Narra Tito Livio: «36 Stava anche preparandosi a dotare
Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra coi Sabini
si sovrappose ai suoi progetti. La cosa fu così improvvisa che i
nemici attraversarono l'Aniene prima che l'esercito romano potesse
mettersi in marcia e andargli a chiudere il passaggio. A Roma fu
subito il panico. Sulle prime l'esito dello scontro fu incerto ed
entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico rientrò
nell'accampamento, dando così ai Romani la possibilità di
riorganizzarsi da capo per la guerra. Tarquinio pensava che le
sue truppe avessero particolari carenze nei reparti di
cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei
Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli
stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il suo nome.
Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna consultazione
augurale e Atto Navio, famoso augure di quegli
anni, disse che non si potevano apportare modifiche o introdurre
innovazioni nella struttura dell'esercito senza l'approvazione degli
uccelli. Il re reagì stizzito e, per ridicolizzarne la
presunta scienza, disse: “Avanti, visto che sei un veggente, chiedi
un po' ai tuoi uccelli se si può mettere in pratica quello a cui sto
pensando in questo momento!” E quando Atto, dopo aver consultato il
volo degli uccelli, disse che la cosa si sarebbe avverata di sicuro,
il re ribatté: “Ben fatto! Il problema è che io stavo pensando
che tu riuscissi a tagliare in due una pietra con un rasoio. Prendi i
due oggetti e vedi di fare quello che secondo i tuoi uccelli è
possibile.” Pare che a quel punto l'augure, senza un attimo di
esitazione, tagliò in due la pietra. C'era una statua di Atto in
piedi a capo velato nel luogo del miracolo, in pieno comizio e
proprio sulle scale che portano alla parte sinistra della curia.
Dicono che anche la pietra fu collocata nello stesso punto per
ricordare il prodigio ai posteri. Sta di fatto che gli auguri e la
loro professione acquistarono in seguito un tale prestigio, che tanto
in pace quanto in guerra non si prese più nessuna iniziativa senza
prima aver tratto gli auspici: assemblee popolari, chiamate alle
armi, pratiche di estrema importanza, tutto veniva rimandato se non
si aveva l'approvazione degli uccelli. Così nemmeno Tarquinio
apportò delle modifiche alla procedura nel caso presente delle
centurie di cavalleria: raddoppiò il loro
numero di effettivi in maniera tale da avere milleottocento
cavalieri distribuiti in tre centurie (??? N.d.R.). Mantennero lo stesso
nome delle centurie dove erano stati arruolati, salvo assumere la
denominazione di Posteriori. Oggi, visto che ne sono state
aggiunte altre tre, si chiamano le sei centurie.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 36.)
«37 Una volta rinforzata questa parte
dell'esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini. Ma, oltre che
dall'incremento di effettivi, l'esercito romano fu aiutato anche da
un astuto espediente: alcuni uomini vennero inviati a raccogliere una
gran massa di fascine lungo la riva dell'Aniene e a gettarle nel
fiume dopo avervi dato fuoco. La legna incendiata, spinta dal vento a
favore, andò a finire per lo più sulle barche e sui supporti in
legno del ponte che prese fuoco. Lo stesso espediente seminò il
panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la
ritirata quando poi cominciò il fuggi fuggi. Molti riuscirono a
evitare il nemico ma morirono nel fiume. Parte delle loro armi,
galleggiando sull'acqua, furono riconosciute nel Tevere e diedero a
Roma la notizia della grande vittoria ancora prima che arrivassero i
messaggeri ad annunciarla. I protagonisti assoluti di questa
battaglia furono i cavalieri: collocati ai due fianchi dei
reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava
ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia
che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento
stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in
fuga. I Sabini si sparpagliarono disordinatamente verso le montagne,
ma solo pochi di essi le raggiunsero. La maggior parte, come già
detto prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri. Tarquinio, pensando
fosse opportuno insistere mentre gli avversari erano in preda al
panico, inviò a Roma bottino e prigionieri; quindi, per realizzare
un voto fatto a Vulcano, diede ordine di accatastare la grande
quantità di armi sottratte al nemico e di darvi fuoco. Poi, alla
testa dell'esercito, invase il territorio sabino. Nonostante la
brutta batosta e le poche speranze di ribaltare le sorti ormai
compromesse della battaglia, i Sabini, non avendo tempo a sufficienza
per ponderare una decisione, scesero in campo con i resti
raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti per una seconda volta e
allo stremo delle forze, chiesero la pace.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 37.)
«38 Ai Sabini furono tolti Collazia e il
territorio oltre Collazia. A governarla con una guarnigione rimase
Egerio, nipote di Tarquinio. A quanto ne so, ecco in che termini e
come avvenne la resa dei Collatini. Il re chiese: “Siete voi i
legati e i portavoce mandati dai Collatini con l'incarico di
consegnare voi stessi e il popolo collatino?” “Sì.” “Il
popolo collatino è padrone di se stesso?” “Sì.” “Consegnate
dunque voi stessi e il popolo collatino, la città, le campagne,
l'acqua, i confini, i templi, la mobilia, e tutti gli oggetti sacri e
profani all'autorità mia e del popolo romano?” “Sì.” “E io
accetto.” Conclusa così la guerra coi Sabini, Tarquinio rientra a
Roma in trionfo. In seguito combatté coi Latini Prischi,
da cui poi prese il nome. Ma durante questa guerra non
si arrivò mai a uno scontro veramente decisivo: accerchiando,
invece, di volta in volta le singole città, sottomise tutti i
Latini. Furono conquistate: Cornicolo, Ficulea Vecchia, Cameria,
Crustumeria, Ameriola, Medullia, Nomento, tutte città dei Latini
Prischi o passate dalla loro parte durante la guerra. Poi fu conclusa
la pace. In seguito il re si dedicò a massicce opere di pace con
maggiore impegno di quanto ne avesse profuso nell'organizzare le
guerre. Lo scopo era quello di evitare che la sua gente fosse meno
impegnata adesso che ai tempi delle campagne militari. Così si
ricomincia la fortificazione in pietra - abortita sul nascere per lo
scoppio della guerra coi Sabini - di quella parte di Roma che ne era
ancora priva. Poi, con un sistema di condotti in discesa verso il
Tevere, fa bonificare le parti basse della città, le zone intorno al
foro e le valli tra i colli, perché non era possibile far defluire
le acque per la natura eccessivamente pianeggiante del terreno.
Infine, già anticipando l'importanza che un giorno il luogo avrebbe
assunto, fa gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta di un tempio
che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in
onore di Giove.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 38.)
«39 In quel periodo il palazzo reale
assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le
conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio
stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta da
fiamme. Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la
famiglia reale. Un servitore portò dell'acqua per spegnere le
fiamme, ma la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso
intimando di non toccare il bambino finché non si fosse svegliato da
solo. Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si
estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli
disse: “Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così
spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più
bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi. Quindi vediamo
di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e
per noi stessi.” Da quel momento in poi essi presero a trattarlo
come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in
genere portano a concepire grandi ideali. La cosa non fu difficile
perché la volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò
qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un
genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero reggere al
confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia. Questo
grandissimo onore, per qualsivoglia natura conferitogli, impedisce di
credere che egli fosse figlio di una schiava e schiavo lui stesso
nella prima infanzia. Io sono più dalla parte di chi sostiene questa
tesi: caduta Cornicolo, la moglie incinta di Servio Tullio, ucciso
durante l'assedio e massima autorità cittadina, finì a Roma con le
altre prigioniere. Qui la regina ne riconobbe i segni inconfondibili
della nobiltà e non solo impedì che andasse a fare la schiava, ma
le permise anche di mettere al mondo il suo bambino nel palazzo di
Tarquinio Prisco. In seguito un simile gesto fece germogliare
l'amicizia tra le due donne, e il bambino, come se fosse nato e
cresciuto nella reggia, fu trattato con stima e affetto. È
probabile che la tesi della sua origine servile fu costruita sulla
sorte della madre, fatta prigioniera dal nemico dopo la rotta della
città d'origine.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 39.)
Fu Tarquinio che per primo
celebrò un trionfo su un cocchio dorato a quattro cavalli in
Roma, vestito con una toga ricamata d'oro ed una tunica palmata (con
disegni di foglie di palma), vale a dire con tutte le decorazioni e
le insegne per cui risplende l'autorità del comando. E sempre a lui
si deve l'introduzione in città di usanze tipicamente
etrusche, relative alla sua posizione regale, come i riti
sacrificali, la divinazione, la musica per le
pubbliche manifestazioni, le trombe (tubae), gli anelli,
lo scettro, il paludamentum, la trabea, la sella
curule, le falere, la toga pretesta,
i fasci littori e le asce. Grazie alle fortunate guerre
intraprese contro le vicine popolazioni, riuscì a rimpinguare le
casse statali con i ricchi bottini depredati alle città sconfitte. E
sembra che decise di dotare la città di Roma di nuove mura.
Si occupò anche dei giochi
della città, erigendo il Circo Massimo e destinandolo
come sede permanente delle corse dei cavalli,
istituendo i ludi Romani; prima di allora gli spettatori assistevano
alle gare, che qui si svolgevano, seduti da postazioni di fortuna.
In seguito a forti alluvioni, che
interessarono specialmente le zone dove sarebbe sorto il futuro Foro
Romano, fece poi iniziare la costruzione della Cloaca Massima.
A lui si deve poi l'inizio dei lavori per la costruzione del tempio
di Giove Capitolino sul colle del Campidoglio.
A Tarquinio Prisco si deve l'inizio della costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio, si realizza la bonifica delle zone paludose del territorio romano con la
costruzione delle cloache, canali per convogliare
l'acqua stagnante verso il Tevere e la scelta del Campidoglio come centro
religioso - e quindi politico - della città.
Durante il regno di Tarquinio Prisco, i principali centri etruschi dell'Etruria e della Campania vissero una stagione prospera per gli scambi commerciali con le popolazioni dell'Egeo (dalle coste fino all'entroterra dell'Asia minore) e con i Cartaginesi. L'elemento etrusco, già incorporato nel tessuto sociale di Capua, della quale occupava una zona residenziale detta "vicus Tuscus", impregnò politicamente la storia della stessa Roma con i suoi ultimi tre re.
I Romani, durante la dominazione degli ultimi loro tre re etruschi, dal 616 a.C. al 509 a.C., appresero le modalità e l'arte del combattimento tipiche degli Etruschi. Fu solo dopo la fine della monarchia e la cacciata dei re etruschi, e la successiva conquista dei territori dell'Italia meridionale (a cominciare dal Latium vetus), in seguito ad una serie interminabile di guerre contro Sabini, Volsci, Equi, Ernici, Latini e Sanniti, che la costante evoluzione di tecnica, tattica e strategia attinte da diversi avversari, permise ai Romani di superare i loro antichi maestri etruschi.
Il risultato finale fu la sottomissione degli antichi territori dell'Etruria. «[...] dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di
falange chiusa [...]» (Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, VI, 106.).
Considerata la loro organizzazione federale di città-stato, in caso di guerra gli eserciti etruschi erano reclutati richiamando alle armi i cittadini secondo la loro ricchezza e posizione sociale: di conseguenza composizione, equipaggiamento e aspetto degli eserciti doveva variare molto. Le formazioni armate comprendevano corpi di opliti, soldati in servizio permanente sottoposti a costante addestramento, che sostenevano il maggior peso del combattimento. Combattevano compatti ed erano armati di lancia, spada, difesi da scudo, elmo e corazza o un piccolo pettorale al centro del petto. Al loro fianco si trovavano reparti di truppe leggere, che comprendevano fanti armati alla leggera e tiratori scelti (arcieri o frombolieri), con il compito di provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. La cavalleria, sia quella etrusca che quella romana, si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia. I cavalieri romani furono comunque protagonisti assoluti nella battaglia contro i Sabini sul Tevere: collocati ai due fianchi dei reparti nemici, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga.
I monumenti mostrano che anche i cavalieri romani seguivano la generale tendenza delle cavallerie di tutti i popoli d'Italia ad adottare l'armamento greco: conservarono però l'ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo (parma). È attestato anche per Roma l'uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l'altro per lo scudiero; e forse dagli scudieri degli equites si era a un certo momento sviluppata quella cavalleria leggera dei ferentarii, armati di iacula, una piccola lancia, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall'esercito romano almeno prima dell'età di Polibio, forse già nel secolo III. L'opinione del Helbig, che gli antichissimi equites non fossero che una fanteria pesante montata, che si giovava dei cavalli per spostarsi più rapidamente e più agevolmente, è, se formulata troppo rigidamente, eccessiva.
Lucio
Tarquinio infine, fu
assassinato da sicari
assoldati dai figli
di Anco Marzio, che probabilmente, oltre che punirlo per come si era comportato con loro, ambivano a sedersi sul trono che era stato di loro padre. La moglie Tanaquil fece
in modo che fosse designato come successore il loro genero Servio, visto che il figlio Lucio Tarquinio (il Superbo) era
minorenne. Servio Tullio le promise che avrebbe lasciato il trono a loro
figlio quando questi avesse
raggiunto la maggiore età, cosa che non fece e che gli costò poi la
vita, visto che Lucio Tarquinio il Superbo e sua moglie Tullia, figlia di Servio, ne provocarono la morte.
Dopo l'ascesa al trono
di Servio Tullio del 578 a.C.,
i due figli di Anco
Marzio, che avevano assoldato i
sicari di Tarquinio Prisco, si ritirarono in esilio a
*Suessa
Pometia.
*Suessa
Pometia o Pometia è citata da numerosi autori antichi, ma
rimane priva di precisa localizzazione: probabile tra le moderne
Aprilia e città di Pomezia, fondate entrambi negli anni trenta del
XX secolo, quest'ultima ne riprende infatti solo il nome. Virgilio la
cita tra le colonie di Alba Longa, nel qual caso la si dovrebbe
annoverare tra le città latine, come anche per Diodoro. Tito Livio e
Strabone invece attestano che era volsca. Suessa fu poi conquistata da parte del
re di Roma Tarquinio il Superbo, e questo episodio segnò l'inizio di
oltre due secoli di scontri. Suessa Pometia doveva essere una città
ricca, se Tarquinio poté iniziare i lavori di costruzione del tempio
di Giove Ottimo Massimo al Campidoglio, grazie al bottino raccolto
dai Romani a seguito della sua conquista.
In seguito la città si consegnò agli
Aurunci e quindi nel 502 a.C. fu nuovamente presa dai Romani
guidati dal console Spurio Cassio Vecellino, il promulgatore
della riforma agraria per eccellenza, che la distrussero e
ridussero gli abitanti in schiavitù. Nonostante questa sconfitta, la città
riappare nel 495 a.C. in mano dei Volsci che, temendo la reazione di
Roma, lasciò a questa 300 figli di nobili come ostaggi a garanzia
della nuova tregua. I Romani però, non fidandosi più dei Volsci,
guidati da Publio Servilio Prisco Strutto ebbero la meglio,
distruggendo ancora Suessa, di cui non si ha più notizia nelle
cronache successive. La città scomparve senza lasciare
traccia. Riguardo a Suessa, Plinio il Vecchio racconta che in essa i
romani vi deportarono una neonata di nome Valeria, perché nata con i
denti, fatto questo considerato di malaugurio per la città di nascita
della bambina.
Nel 578 a.C. Servio Tullio diventa il sesto re di Roma e, secondo la tradizione, ha regnato dal 578 a.C. al 535 a.C., per 43 anni.
Secondo alcune fonti, Servio Tullio, come attesterebbe anche dal
nome, era di umili origini; nacque infatti da una prigioniera di
guerra (che si racconta fosse stata nobile nella sua città) ridotta
a servire il focolare domestico del re Tarquinio Prisco. Si narra
anche potesse essere il figlio della schiava Ocresia (che era moglie di Tullio, priceps latino di
Corniculum, l'attuale Montecelio), fatta prigioniera. Si racconta poi che, quando da bambino Servio
stava ancora nella culla, gli brillò una fiamma sulla testa (o un fallo brillò nel focolare), evento
che Tanaquil, la colta e lungimirante moglie di Tarquinio Prisco,
interpretò come destino di grandezza. Servio dovette quindi la sua fortuna
a Tanaquil, che indovinandone la futura grandezza gli diede in sposa
la figlia, e alla morte del marito fece in modo che Servio gli
succedesse come re di Roma al posto del fanciullo Lucio Tarquinio
(detto poi il superbo), il figlio primogenito del loro matrimonio a cui Servio aveva giurato di lasciare il trono una volta raggiunta l'età
adulta. Infatti, quando Tarquinio Prisco fu ucciso dalla congiura
messa in atto dai figli di Anco Marzio ai quali aveva sottratto
il trono, Tanaquil nascose la morte
del re, asserendo invece che era rimasto solo ferito e che nel
frattempo Servio Tullio sarebbe stato il reggente. Diede quindi
modo a quest'ultimo di presentarsi come il successore designato di Tarquinio, quando tre giorni dopo, e solo in seguito al
ristabilimento della calma dopo l'attentato al re, venne comunicata la morte del sovrano.
Il sesto re di Roma saliva così al trono senza alcuna espressione di
consenso da parte del popolo e grazie al patto stretto con Tanaquil, di cedere la carica al primogenito orfano di
Tarquinio non appena questi avesse raggiunto la maggiore età.
«[...] alla morte di Tarquinio Prisco,
grazie agli sforzi della regina [Tanaquil], Servio fu posto sul trono
al posto del re, come se fosse una misura non definitiva, ma conservò
il regno conquistato con l'inganno con tanta abilità, che sembrava
lo avesse ottenuto in modo legittimo.» (Floro, Epitoma de Tito Livio
bellorum omnium annorum DCC, I, 6.2.)
Racconta Tito Livio: «40 Dopo quasi trentotto anni dall'inizio del regno di Tarquinio, Servio Tullio aveva conquistato la stima totale non solo del re ma anche dei senatori e del popolo. I due figli di Anco avevano sempre considerato il colmo dell'infamia il tiro mancino con cui il loro tutore li aveva privati del regno paterno e il fatto che a Roma regnasse uno straniero le cui origini non erano nemmeno italiche. In quel tempo erano più indignati ancora dalla prospettiva che nemmeno dopo Tarquinio il regno sarebbe toccato a loro, ma, subendo un ulteriore degrado, sarebbe finito in mano a un ex-servo. E in quella stessa Roma, dove quasi cent'anni prima Romolo, figlio di un dio e dio lui stesso, aveva regnato durante la sua permanenza in terra, ora sarebbe salito al trono un servo figlio di una serva. Sarebbe stata un'onta tremenda per tutti i Romani in generale e per il loro casato in particolare se, nonostante l'esistenza di discendenti maschi del re Anco, non solo degli stranieri, ma addirittura degli schiavi potessero arrivare a regnare su Roma. Decidono pertanto di evitare con le armi un simile affronto. Il risentimento per i torti subiti li spingeva più contro Tarquinio che contro Servio: in primo luogo perché se avessero risparmiato il re la sua vendetta sarebbe stata più implacabile di quella di un suo subalterno, e in secondo luogo, uccidendo Servio, Tarquinio era probabile lo avrebbe rimpiazzato con un genero qualunque destinato a ereditare il trono al suo posto. Per tutti questi motivi il complotto viene ordito ai danni del re. Come esecutori diretti vennero scelti due pastori senza scrupoli che, armati degli attrezzi di lavoro di tutti i giorni, organizzarono una finta rissa nel vestibolo della reggia e, facendo il maggior rumore possibile, cercarono di attirare i domestici del re. Poi, dato che entrambi volevano appellarsi al sovrano e il frastuono del loro litigio era arrivato fin dentro la reggia, Tarquinio li fece convocare. Sulle prime si misero a urlare cercando di prevaricare l'uno la voce dell'altro e la smetterono soltanto dopo l'intervento di un littore che ordinò loro di esporre a turno le rispettive ragioni. Allora uno di essi comincia a mettere insieme quanto precedentemente convenuto. Mentre il re lo stava ascoltando con grande attenzione, l'altro solleva la scure e lo colpisce alla testa. Quindi, lasciata l'arma nella ferita, i due si precipitano di corsa fuori dalle porte.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 40.)
«41 Mentre quelli del seguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe. Poi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos'era successo. Tanaquil, nel pieno della calca, ordina di chiudere la reggia e fa uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procura il necessario per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente però, nel caso la speranza fosse venuta meno, prende altre precauzioni. Fa subito chiamare Servio, gli mostra il corpo quasi esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implora di non lasciare impunita la morte del suocero né di permettere che la suocera diventi lo zimbello dei nemici. “Se sei un uomo, Servio,” gli dice, “è a te che tocca il regno e non ai mandanti di questo atroce delitto. Animo, quindi, e affidati agli dèi che con quel fuoco intorno alla tua testa hanno già voluto preannunciare la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di trarre forza da quella fiamma! Adesso è ora di svegliarsi sul serio. Eravamo degli stranieri anche noi, eppure siamo arrivati a regnare: pensa a quello che sei, non a dove sei nato. Se per gli avvenimenti improvvisi non sai che decisione prendere, allora dai retta ai miei consigli.” Quando il frastuono e la ressa della gente toccarono il limite estremo della tollerabilità, Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in profondità. Inoltre la ferita era stata esaminata, l'emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto. Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re. Servio avanza con tanto di trabea e di littori, occupa la sedia del re ed emana verdetti a proposito di alcuni casi, fingendo invece di dover consultare il sovrano per altri. In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo già Tarquinio passato a miglior vita, egli ne nascose la morte facendosi passare per un mero sostituto, quando invece stava consolidando il suo potere. Dopo un po' di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu il primo a regnare senza il consenso popolare ma solo con l'autorizzazione del senato. I figli di Anco, quando dopo l'arresto dei sicari da loro prezzolati vennero a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto favore, si erano già ritirati in volontario esilio a Suessa Pomezia.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 41.)
«42 Servio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alla sua abilità nel muoversi all'interno della sfera privata. Così, onde evitare che l'odio nutrito dai figli di Anco nei confronti di Tarquinio divenisse lo stesso sentimento nei suoi rapporti con la prole di Tarquinio stesso, diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte Tarquinio. Ciò nonostante, con la sua dimostrazione di assennatezza, non riuscì a infrangere l'ineluttabilità del destino: l'invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri della casa reale. Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti (la tregua era ormai scaduta) e con altre popolazioni etrusche. In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritorna a Roma, conscio di essere ora in una posizione che non si prestava più a critiche né da parte dei senatori né da parte del popolo. Quindi si occupa di ciò che aveva la precedenza assoluta in campo civile: come Numa aveva codificato i regolamenti in materia di religione, così Servio è passato ai posteri per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. Stabilì, cioè, il censo, cosa utilissima per un regno destinato a enormi ampliamenti, col quale i carichi fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito. Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42.)
L'imperatore Claudio, che aveva avuto come prima moglie un'etrusca, aveva scritto un'opera, andata perduta, sugli Etruschi. Da
https://storieromane.altervista.org/biografie/eta-regia-753-509-a-c/servio-tullio/: Grazie ad un celebre discorso tenuto in senato dall’imperatore
Claudio riguardo la cittadinanza, sappiamo del nome etrusco di Servio
Tullio,
Mastarna, che potrebbe derivare dal latino
magister
più il suffisso -na, che indica un'appartenenza. Servio sarebbe
stato il servitore di Celio Vibenna, etrusco che aveva conquistato
Roma. Mastarna, in seguito alla morte di Celio (cui sarebbe stato
dedicato l’omonimo colle), si sarebbe sbarazzato di Aulio Vibenna,
fratello di Celio, restando unico padrone della città.
Servio Tullio ampliò il
pomerium ed annesse alla città di Roma i colli Quirinale, Viminale ed Esquilino. Avrebbe costruito, insieme ai Latini, il tempio di Diana sul colle Aventino. Scavò un ampio fossato intorno alle cosiddette "
mura serviane" (che sembra siano state iniziate dal predecessore, Tarquinio Prisco), che cingevano tutti i
sette colli.
Eresse numerosi templi mirando a rendere Roma il principale centro spirituale della regione. Fece quindi costruire sull'Aventino, insieme agli alleati latini, il tempio di Diana, dea che corrispondeva alla greca Artemide, il cui tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis. Come per i Greci, per i quali il tempio di Artemide rappresentava una federazione di città, con il tempio di Diana, costruito intorno al 540 a.C., i Romani miravano a porsi come centro politico-religioso delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale. A Servio si ascrive anche la decisione di costruire il tempio di
Mater Matuta ed il tempio della dea
Fortuna, entrambi al Foro Boario. Il primo nome dell'insediamento urbano di
Sanremo è stato "Villa Matuta", probabilmente dal nome della dea.
Nell'antica Roma, la tradizionale ripartizione dei cittadini in tribù stabilita da Romolo, faceva riferimento all'appartenenza gentilizia e raggruppava quindi nella stessa tribù, le nobili gentes della stessa etnia. La gens (pl. gentes) era un gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune e praticava culti comuni. Secondo la convenzione dei nomi romani, i membri di una gens condividevano lo stesso nomen gentilizio, mentre i suoi differenti "rami", le famiglie (familiae), portavano un differente cognomen (o soprannome) per distinguersi. Ad esempio la gens Cornelia comprendeva sia i Cornelii Scipiones che i Cornelii Balbi, i Cornelii Lentuli ecc. ecc.
Servio Tullio adeguò invece le tribù ai territori in cui erano stanziate, non distinguendole per discendenze gentilizie o etnie. Creò così quattro nuove tribù urbane: Palatina (nel territorio del colle
Palatino), Suburana (nel territorio del colle Celio), Esquilina (nel
territorio del colle Esquilino) e Collina (nel territorio del colle
Quirinale) e diciassette tribù rustiche (extra-urbane), dando così vita ai Comizi tributi (Comitia Populi Tributa), le
assemblee comprendenti sia i patrizi che i plebei di ogni tribù,
distribuite territorialmente, nelle quali i cittadini romani venivano
convocati per scopi elettorali e amministrativi. Come per i comizi
centuriati il voto era indiretto, con un voto assegnato ad ogni
tribù. I comizi tributi erano organizzati su base territoriale e si
riunivano presso la sorgente Comizia, nel Foro Romano, ed eleggevano
gli Edili (solo quelli curulis), i Questori e altri magisteri. La
composizione di questo comizio andò aumentando nel tempo, con
l'accrescersi del numero di tribù, dalle quattro dei primi comitia,
alle 35 definitive del 241 a.C.
Considerato il secondo fondatore di Roma, Servio Tullio modificò l'assetto politico-militare di Roma con la riforma timocratica (la timocrazia, dal greco timokratìa composto da timè = onore e kratìa = governo, è un tipo di governo in cui diritti e doveri del cittadino sono stabiliti secondo classi censitarie, cioè in base ai redditi e/o capitali posseduti). Il sesto re di Roma introdusse il principio del censo, suddividendo i Romani per patrimonio, dignità, età, mestiere e funzione, così da creare cinque classi economiche che avevano il dovere di servire militarmente la patria (la terra dei padri) assolvendo le leve militari e il diritto di voto nei comizi Centuriati. In questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutarne il patrimonio e quindi valutare il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato e stabilire inoltre, alla luce del censo posseduto, la classe di appartenenza sia nei comizi centuriati che nell'esercito.
La popolazione delle tribù (nella sistemazione definitiva della Repubblica si arriverà a 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche) si ritrovava quindi ad essere suddivisa in centurie, unità originariamente di 100 uomini, appartenenti a cinque classi, dalla prima dei più ricchi alla quinta dei meno abbienti, a seconda del loro censo.
Il "Census", il censimento della popolazione maschile si teneva ogni 5 anni e ripartiva i cittadini per patrimonio, dignità, età mestieri e funzioni al fine di individuare le relative classi militari di appartenenza, non più in relazione alla nobiltà di nascita ma al patrimonio posseduto, visto che erano i cittadini a provvedere alle spese per il proprio armamento. Tale occasione si inaugurava con il "Lustrum" che consisteva in una "Lustrazio": tre animali sacri, prima di essere sacrificati, giravano attorno all'esercito in armi schierato nel Campo Marzio, per rendere splendore e sacralità all'evento. Lustro è rimasto nel nostro linguaggio a indicare un periodo di 5 anni.
Il nuovo corpo civico era ora composto, oltre che dai comizi curiati, le assemblee dei maschi adulti delle nuove tribù territoriali e i recenti comizi tributi, dai nuovi comizi centuriati, le assemblee delle centurie che costituivano le cinque classi in cui erano suddivisi i cittadini, in base al loro censo.
Ai comizi centuriati partecipava l'esercito in armi, (il populus inteso come esercito, dal latino arcaico populare = devastare) e perciò non si potevano svolgere in città, in cui era proibito portare armi, ma nel Campo Marzio, al di là del Tevere; Tito Livio riporta, insieme alla testimonianza di Fabio Pittore, un altro storico romano, che il primo comizio centuriato fu convocato in armi al di fuori del pomerium, il confine sacro della città, nel Campo Marzio, luogo che resterà sede dei comizi centuriati anche per le successive convocazioni. Durante la prima convocazione, secondo Fabio Pittore erano presenti 80.000 uomini in armi, numero che crebbe poi nel tempo rendendo la convocazione sempre più difficoltosa.
Servio Tullio si era reso conto che, per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste, era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva, visto che l'esercito romuleo era costituito solo dalla nobiltà in un'unica legione, di circa 3.000 fanti e 300 cavalieri.
Con la riforma timocratica era favorito il reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma inizierà a chiamarsi plebe. L'inclusione della plebe nell'esercito portò ovviamente ad un aumento degli effettivi nell'esercito e inevitabilmente ad un primo contrasto con lo strato superiore della società romana, i patrizi, che vedevano minacciata la loro supremazia.
È opinione ormai diffusa che, identificandosi i patrizi con la cavalleria, le classi inferiori dei pedites fossero perlopiù composte da plebei. Con la riforma serviana vi fu anche l'importante novità che coloro che si distinguevano in battaglia divenissero centurioni, comandanti di una centuria di legionari. Probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la cavalleria romana era in servizio permanente, nel senso che lo stato corrispondeva a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il loro foraggio (aes hordiarium); si riconoscevano cioè le speciali esigenze di addestramento e allenamento che il servizio a cavallo richiedeva. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando non fossero stati sufficienti gli equites equo publico.
Le centurie ottemperavano a funzioni sia militari che politiche; avevano il dovere di costituire l'esercito con le legioni e il diritto di voto nei comizi centuriati, assemblea a cui, nel periodo della repubblica, saranno demandati i maggiori compiti di governo riservati al popolo.
L'affollamento della prima classe sembra dimostrare che vi partecipassero tutti i proprietari unici di intere unità fondiarie, e che alle classi inferiori fossero invece iscritti quelli che per ragioni ereditarie o di altro ordine, possedessero rispettivamente i tre quarti, la metà, un quarto, o una frazione minore di altre unità fondiarie.
Non si sa con esattezza quando, ma pare che occorressero 20 iugeri di terreno (lo iugum nell'antica Roma era l'unità di misura di superficie equivalente a 0,252 ha e indicava il terreno arabile in una giornata da una coppia di buoi attaccati allo stesso giogo) per l'appartenenza alla I classe; 15 alla II, 10 alla III, 5 alla IV, 2 alla V.
Il censo necessario per l'appartenenza a ciascuna classe viene riferito dagli antichi cronisti, in denaro (100.000 assi per la 1ª classe, 75.000 per la 2ª, 50.000 per la 3ª, 25.000 per la 4ª, 12.000 o 11.000 per la 5ª), ma è probabile che questo criterio sia stato introdotto dal console Appio Claudio Cieco (nel 310 a. C.), mentre in precedenza erano censiti nelle cinque classi solamente gli adsidui, coloro che prestavano assiduamente i servizi militari, cioè i proprietari di fondi iscritti come tali nelle tribù.
La monetazione a Roma venne introdotta verso la fine del IV secolo a.C., per cui i capitali, al tempo della monarchia e della prima repubblica, erano misurati in "pecunia" (nome della pecora in latino) non numerata e cioè metallo pesato (come gli assi in bronzo). Nella prima parte della storia di Roma, dalla sua fondazione (21 aprile 753 a.C.) a tutto il periodo monarchico (753-509 a.C.) e parte del periodo repubblicano, fino al III secolo a.C., il commercio non si basava sull'uso della moneta, ma su una forma di baratto che sfruttava come mezzo di scambio scarti di lavorazione di bronzo informi (l' aes rude) di valore intrinseco, ossia la quantità di bronzo. La prima moneta standardizzata da parte dello stato Romano è stata l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C. Nella Roma del I secolo d.C., con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa 2 €.
Il rapporto fra le centurie dell'esercito e quelle dei comizi centuriati rimane piuttosto oscuro. Secondo una dottrina ispirata alle dichiarazioni di Dionisio, sembra che ogni centuria dell'ordinamento serviano (o almeno ogni centuria di iuniores nelle classi dei pedites) dovesse fornire alle leve annuali un contingente di 100 uomini. Ma anche calcolando in 19 le campagne alle quali ogni iunior era tenuto a partecipare entro i 28 anni d'iscrizione, il continuo guerreggiare dei Romani e il calcolo dei morti in battaglia e d'invalidi, presupporrebbe negli iuniores della prima classe, centurie di 300 uomini (e di 100 nei seniores); sicché alla prima classe avrebbero dovuto appartenere 16.000 uomini validi. Quanto alle classi inferiori, anche a voler ammettere che l'addensamento non superasse da classe a classe il 33%, non avrebbero potuto aver meno di 40.000 uomini complessivamente: con la cavalleria e il proletariato, si sarebbero raggiunti 60.000 uomini validi, un numero di cui Roma non poteva disporre al tempo del re Servio e nemmeno per secoli a venire. Si aggiunga che non solo le operazioni del censimento, ma anche quelle della leva annuale si facevano, come concordemente rilevano gli antichi, fra le tribù in cui la popolazione era divisa (nella sistemazione definitiva le tribù erano 35, 4 urbane e 31 rustiche).
Pare quindi che le due iscrizioni di ogni cittadino fossero indipendenti, e si consideri poi che vista la maggioranza dei cavalieri e prima classe nelle votazioni dei comizi centuriati, devono essere state minime le occasioni di voto delle altre classi.
Si deve rilevare quindi che Livio e Dionisio abbiano descritto l'ordinamento centuriato con 193 centurie in una fase nella quale era già venuta meno l'eventuale originaria funzione delle centurie come distretti di leva e che la struttura primordiale fosse molto più semplice. Non è assurdo supporre che la distinzione fra seniores e iuniores non sia originaria (come ha sostenuto Beloch) e inoltre l'uso, corrente anche in età avanzata, di chiamare 'classici' i pedites della prima classe e 'infra classem' i rimanenti, può far pensare che nei primordi vigesse soltanto questa distinzione elementare, sicché 80 sole centurie (40 di classici e 40 infra classem) fornissero i contingenti alla fanteria. Se poi si pensa che prima della presa di Crustumerium (circa 450 a.C.) le tribù erano venti, la commensurabilità fra tribù e centurie sarebbe stata stabilita almeno per un periodo iniziale.
Ma una siffatta ipotesi urterebbe con il fatto che proprio l'ordinamento descritto dagli antichi è condotto in ogni particolare sulla falsariga di un esercito di due legioni. Le centurie di iuniores delle prime tre classi darebbero 6.000 uomini di armatura pesante (3.000 per legione): le classi quarta e quinta darebbero 2.500 uomini di armatura leggera, con una minima differenza in più rispetto ai 1.200 per legione. Solo i seicento cavalieri delle legioni disporrebbero di un numero triplo di unità comiziali: ma il punto di partenza dei 600 è evidente nella posizione privilegiata dei sex suffragia, i cavalieri di ordine pubblico. In quest'ordine di idee, preferiamo ritenere che l'ordinamento attribuito a Servio Tullio non abbia mai avuto rapporto con la leva, anzi abbia distribuito i partecipanti al comizio ad imitazione della distribuzione delle forze nell'esercito.
Secondo ogni probabilità, i comizi dell'epoca regia non ebbero mai competenza legislativa né elettorale e durante il passaggio (graduale) dalla monarchia alla repubblica, era mediante acclamazione che l'esercito eleggeva i suoi capi prima di muovere guerra. Era naturale che, trasformandosi l'acclamazione in elezione e trasferendola, dall'esercito in armi alla popolazione maschile atta alle armi, questa si ordinasse sull'esempio di quello.
Quanto alla data approssimativa dell'ordinamento centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.
Con Servio, Roma continuerà comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia, che non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio Prisco; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord. I Veienti videro Roma
tornare a farsi minacciosa. In effetti, anche se gli etruschi che
comandavano a Roma provenivano da Tarquinia, per Veio la situazione
non era certo migliorata, tutt'altro. Nonostante la comune
discendenza, Veio si trovò circondata da concorrenti: l'etrusca
Tarquinia a nord, e Roma a sud, guidata da etruschi ma padrona
dell'intera area latina. Può essere anche che l'influenza etrusca su
Roma cominciasse già a scemare e la figura di Servio Tullio
adombrasse i primi rivolgimenti politici (come l'eliminazione dalla successione al trono dei
figli di Tarquinio) che riporteranno la città fuori dall'orbita
etrusca. E infatti Servio Tullio, per mantenere il potere e volgere
verso l'esterno l'attenzione delle forze politiche e militari
dell'Urbe, riprese le ostilità con Veio e con gli
altri etruschi. «Molto accortamente mantenne tranquille le
vicende interne a Roma, affrontando la guerra contro i Veienti (con i
quali era già terminata la tregua) e con gli altri etruschi. Tullio
in quella guerra brillò per valore e fortuna.» (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, I, 42)
Dopo aver vinto gli etruschi, così come il predecessore Tarquinio Prisco, anche Servio si dedicò ad opere di pace e alla ristrutturazione fisica e organizzativa della
città.
Così narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita libri" I: «46 Servio, col tempo e con l'uso, era
ormai incontestabilmente padrone del potere. Ciò nonostante,
sentendo che il giovane Tarquinio continuava a mettere in
circolazione la voce che il suo regno non aveva avuto il beneplacito
del popolo, si conciliò prima il favore della plebe distribuendo a
ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il
coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei
suoi confronti. Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era
stato eletto con una simile unanimità di consensi. Nemmeno questo
episodio ridusse in Tarquinio la speranza di impadronirsi del
regno. Al contrario, essendosi reso conto che la distribuzione
di terre alla plebe aveva incontrato l'opposizione
dei senatori, capì di avere la possibilità di diffamare
Servio presso di loro e di acquistare credito in senato (lui era un
giovane impetuoso e di carattere inquieto e per di più, in casa, era
incitato dalla moglie Tullia). Così anche il palazzo
reale di Roma fu teatro di un tragico fatto di sangue che accelerò,
più della noia per la monarchia, l'avvento della libertà e fece sì
che l'ultimo regno fosse il prodotto di un delitto. Questo Lucio
Tarquinio - è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di
Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli storici propende
per la prima tesi - aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal
carattere piuttosto mite. Essi avevano sposato, come ho già detto,
le due Tullie, figlie del re, ugualmente diversissime per
temperamento. Caso volle che i due caratteri violenti non fossero
finiti insieme (immagino perché la buona stella del popolo romano
volle prolungare il regno di Servio e permettere che si
consolidassero i fondamenti morali della società). La più arrogante
delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non avesse
un briciolo di ambizione e intraprendenza. Di qui il suo essere tutta
occhi e parole di ammirazione per l'altro Tarquinio, da lei definito
un vero uomo e un autentico rampollo di re. Di qui pure il suo
disprezzo per la sorella, a sua detta responsabile di appiattire il
marito con una totale assenza di iniziativa femminile. Presto, come
sempre succede, l'affinità reciproca li avvicinò, dato che il male
può solo attirare il male, anche se però fu la donna la
responsabile prima di tutto l'intrigo. Quest'ultima cominciò
a vedersi in segreto col cognato e, durante questi incontri, non si
esimeva dall'insultare il proprio marito (con il fratello di lui) e
la propria sorella (con il marito di lei). Il punto su cui batteva di
più era questo: per lei sarebbe stato meglio essere senza marito e
per il cognato sarebbe stato meglio essere celibe piuttosto che stare
con persone di livello inferiore e vedersi costretti a languire per
loro ignavia. Se gli dèi le avessero fatto sposare l'uomo che
meritava, non ci avrebbe messo molto a vedere nella sua casa il
potere reale che ora vedeva in quella del padre. Si affretta così a
instillare nel cuore del giovane l'audacia del suo progetto. Grazie a
due decessi a catena ebbero via libera in casa
per celebrare un nuovo matrimonio. Servio non si oppose alle
nozze, ma non diede neppure il suo consenso.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 46.)
«47 Da quel momento in poi la vecchiaia
e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in
pericolo. Infatti, quella donna, dopo il primo delitto, non
vedeva l'ora di commetterne un se.condo e toglieva il fiato
al marito giorno e notte perché non voleva che i suoi
precedenti crimini rimanessero fini a se stessi. Non le era certo
mancato l'uomo di cui si potesse dire che lei era la moglie e la
rassegnata compagna di sottomissione. Le era mancato un uomo che si
ritenesse degno del trono, che si ricordasse di esser figlio di
Tarquinio Prisco e che preferisse avere il potere piuttosto che
sperare di averlo. “Se sei tu l'uomo che io credo di aver sposato,
allora ti chiamo marito e re. Se non lo sei, allora vuol dire che mi
è andata di male in peggio perché in te oltre all'ignavia c'è
anche la delinquenza. Perché non ti muovi? Non vieni mica da
Tarquinia o da Corinto, come tuo padre, né devi andarti a
conquistare un trono in terra straniera. Gli dèi di casa e della
patria, il ritratto di tuo padre, il palazzo reale e il trono che vi
si trova all'interno, il nome Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti
chiama re. E se poi non hai abbastanza fegato, perché mai inganni la
gente? Perché lasci che guardino a te come a un erede al trono?
Tornatene a Tarquinia o a Corinto, risali i rami del tuo albero
genealogico, visto che sei più della pasta di tuo fratello che non
di quella di tuo padre.” Questo più o meno il sarcasmo con cui
istigava il giovane. Una cosa invece non le dava pace: com'era
possibile che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a
brigare tanto da far salire al trono, uno dopo l'altro, prima il
marito e poi il genero, e invece lei che era figlia di un re contava
meno di zero negli stessi giochi di potere? Tarquinio, istigato dai
furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di
appoggio, specialmente presso i senatori del secondo ordine, ai
quali, ricordando il gesto generoso del padre, faceva presente che
era venuto il momento di ricambiarlo. Riempiva di regali i giovani.
Così, sia grazie alle grandi promesse, sia grazie alla pessima
pubblicità che faceva al re, la sua posizione acquistava credibilità
a tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di
agire, fece irruzione nel foro scortato da un drappello di armati.
Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte
alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si
presentassero in senato al cospetto del re Tarquinio. Essi arrivarono
subito: alcuni già preparati alla cosa, altri temendo di incappare
in spiacevoli conseguenze mancando all'appuntamento, tutti però
sconcertati dalla novità senza precedenti e convinti che Servio
fosse finito. Tarquinio allora, andando molto indietro nel tempo,
accusò Servio di essere uno schiavo figlio di una schiava il quale,
dopo la morte indegna di suo padre, era salito al trono grazie al
regalo di una donna e non aveva rispettato la tradizione (e cioè
l'interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la
ratifica dei senatori). Con un simile albero genealogico e con una
simile carriera politica alle spalle, aveva favorito le classi più
abiette della società - cioè quelle dalle quali proveniva -, e per
l'odio nei confronti di una classe alla quale non apparteneva, aveva
tolto le proprietà terriere ai notabili per darle alla plebaglia.
Gli oneri fiscali prima equamente distribuiti li aveva addossati
nella loro totalità sulle spalle dei più abbienti. Aveva istituito
il censo per convogliare l'invidia sulle fortune dei ricchi e per
averle a portata di mano quando decideva di fare generose elargizioni
ai nullatenenti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 47.)
«48 Servio, svegliato di soprassalto da
un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa tirata e,
dall'ingresso della curia, gridò fortissimo: “Che razza di storia
è questa, Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di convocare i
senatori e di sederti sul mio trono?” La risposta di Tarquinio fu
estremamente insolente. Disse che stava occupando il trono di suo
padre, trono che era di gran lunga preferibile finisse in mano
all'erede legittimo (cioè lui in persona) piuttosto che a uno
schiavo e che Servio aveva già insultato e preso in giro abbastanza
i suoi padroni. Seguirono urla di consenso e di approvazione. Intanto
la gente stava affluendo in massa sul posto ed era chiaro che il
potere sarebbe andato al vincitore di quel giorno. Allora Tarquinio,
costretto dalla situazione a giocarsi il tutto per tutto, favorito
dall'età e dalla maggiore vigoria fisica, afferrò Servio
all'altezza della vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori,
lo scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella
curia per evitare che i senatori si sparpagliassero. La scorta e il
seguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre
quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo seguito
abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali
lo avevano pedinato. Sembra (e non stride poi troppo coi suoi
precedenti delinquenziali) che la cosa porti la firma di Tullia. Su
questo, invece, non ci sono dubbi: ella, arrivata in senato col suo
cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone, chiamò
fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo di
re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto pericoloso.
Allora Tullia, quando sulla via di casa arrivò in cima alla via
Cipria (dove non molto tempo fa c'era il santuario di Diana), ordinò
di piegare verso il Clivo Urbio e di portarla all'Esquilino. In quel
momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini
e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il cadavere di
Servio abbandonato per terra. Tradizione vuole che in quel luogo fu
consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba memoria
nel nome (si chiama infatti via del Crimine): pare che Tullia,
invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito,
calpestò col cocchio il corpo del padre.
Quindi, piena di schizzi lei stessa, ripartì sulla vettura che
grondava sangue dopo quell'orrore commesso sul cadavere del padre, e
si diresse a casa dove i penati suoi e del marito, adirati per il
tragico esordio del regno, fecero sì che esso avesse una conclusione
analoga. Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un
successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne la
rettitudine. E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c'era
anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto
e legittimo. Inoltre, per quanto moderato e mite il suo regno potesse
essere stato, era pur sempre il governo di un singolo. Per questo
alcuni autori affermano che egli avrebbe avuto intenzione di
rinunciarvi, se la delinquenza di un parente non si fosse sovrapposta
al progetto di concedere la libertà al suo popolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48.)
Servio Tullio fu così assassinato in un colpo di stato in cui era coinvolta una sua figlia Tullia e suo marito Lucio Tarquinio, detto poi "il Superbo", figlio di Lucio Tarquinio Prisco, che salì quindi al trono attraverso una sequela di crimini perpetrati con la moglie.
Lucio Tarquinio detto il
Superbo ha regnato dal 534 fino alla sua cacciata del 509 a.C.). Figlio di Lucio Tarquinio detto
Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, sposò prima Tullia Maggiore,
la figlia maggiore di Servio Tullio, poi sposò la sorella di questa,
Tullia Minore, da cui ebbe i tre figli Tito, Arrunte e Sesto. Con l'aiuto di quest'ultima organizzò la congiura per uccidere il suocero e
ascendere sul trono di Roma.
Tito Livio ci racconta che Tarquinio un
giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero
rivendicandolo per sé; Tullio, avvertito del fatto, si precipitò
nella Curia. «Servio, chiamato da un messo in gran
fretta, sopraggiunto mentre Tarquinio teneva il suo discorso, subito
dall'ingresso della curia a gran voce gridò: «Che cosa è questo, o
Tarquinio? Con quale audacia, mentre io ancora vivo, hai osato
convocare il senato e sedere al mio posto?» (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. I, capoverso 48.)
Ne nacque un'accesa discussione tra i
due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla
fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla
Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non
ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia
Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava.
Il luogo del misfatto ricevette in seguito l'appropriato nome di
Vicus Sceleratus.
A Tarquinio fu attribuito il soprannome
di Superbo dopo che negò la sepoltura di Servio Tullio. Tarquinio
assunse il comando con la prepotenza e il crimine, senza che la sua elezione fosse
approvata dal Popolo e dal Senato romano, e sempre con la forza (si
parla anche di una guardia armata personale) mantenne il controllo
della città durante il suo regno. In breve tempo annientò la
struttura fortemente democratica della società romana realizzata dal
suo predecessore e creò un regime autoritario e violento a tal punto
da unire per la prima volta, nell'odio verso la sua figura, patrizi e
plebei.
Narra Tito Livio: «49 Da allora ebbe inizio il regno di
Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua
condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il genero, non
concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non
l'aveva avuta, e fece eliminare i senatori più
importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio.
Poi, rendendosi conto che l'indebita ascesa al trono avrebbe potuto
diventare un precedente sfruttabile da altri nei suoi stessi
confronti, si circondò di guardie del corpo. In effetti, l'unico
diritto al trono che aveva era la forza, dato che stava regnando
non solo senza il consenso del popolo ma anche
senza ratifica del senato. In più si aggiungeva che,
non potendo contare in alcun modo sull'aiuto dei cittadini, era
costretto a salvaguardare il proprio potere col
terrore. E per renderlo un sentimento diffuso, cominciò a
istruire da solo, senza l'aiuto di consiglieri legali, le cause per
delitti capitali: ne approfittava così per condannare a morte, per
mandare in esilio, e per confiscare i beni non solo di chi era
sospettato o malvisto, ma anche di chi poteva rappresentare una
qualche opportunità di bottino. Soprattutto per questo, dopo aver
decimato il numero dei senatori, stabilì che non se ne
eleggessero altri, in modo tale da screditare l'ordine per
l'inconsistenza degli effettivi e ridurne al massimo le eventuali
rimostranze per la totale esclusione dalla gestione del potere. Tutti
i suoi predecessori si erano sempre attenuti alla regola tradizionale
di consultare il senato in ogni occasione: Tarquinio il Superbo fu il
primo a rompere con questa consuetudine e resse
lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace,
trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e
con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il popolo
e i senatori. Cercava soprattutto di procurarsi l'amicizia dei
Latini, perché l'appoggio straniero gli desse maggiore sicurezza in
patria. Con la loro aristocrazia non stabiliva soltanto rapporti di
ospitalità, ma organizzava anche matrimoni. Al tuscolano*
Ottavio Mamilio - di gran lunga il più rappresentativo tra i Latini
e, se si presta fede alla leggenda, discendente di Ulisse e della dea
Circe - diede in moglie la figlia e, grazie a questo
matrimonio, si legò con molti amici e parenti di lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 49.)
*Il
nome della città “Tusculum”, per quanto sembri alludere palesemente agli
Etruschi, pare che derivi semplicemente dal suo corso
d'acqua, il Tuscus amnis, come proposto di recente e plausibilmente.
«Lui stesso dopo aver infierito contro i senatori con le stragi, contro la plebe con le verghe, contro tutti con la superbia, che per la gente onesta è peggio della crudeltà, e dopo che fu soddisfatto della ferocia esercitata in patria, si rivolse ai nemici [di Roma].» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.4.)
Prosegue Tito Livio: «50 Tarquinio vantava già una posizione
di grande influenza presso i nobili latini, quando decise di
convocarli un giorno preciso presso il bosco di Ferentina, sostenendo
di voler discutere alcuni problemi di comune interesse. Alle prime
luci dell'alba i Latini affluiscono in massa. Da parte sua Tarquinio,
pur rispettando la data, si presentò solo poco prima del tramonto.
Per tutta la durata del giorno, i partecipanti all'assemblea avevano
parlato a lungo di vari argomenti. Turno Erdonio di Aricia aveva
inveito violentemente contro Tarquinio, dicendo che non era poi tanto
strano che a Roma lo avessero soprannominato il Superbo (nome questo
ormai sulla bocca di tutti, anche se ancora circoscritto alla sfera
clandestina del sussurro). Oppure c'era qualcosa di più superbo che
prendere in giro il popolo latino in quella maniera? Farne venire i
capi così lontano dai loro paesi e poi disertare la riunione da lui
stesso convocata? Era chiaro che voleva mettere alla prova la loro
pazienza e poi, una volta constatato che si lasciavano mettere
facilmente i piedi in testa, avrebbe abusato della loro
sottomissione. A chi poteva infatti sfuggire che il piano di
Tarquinio era ridurre i Latini in suo potere? Se i suoi sudditi
avevan fatto bene ad affidarglielo, o se gli era stato affidato e non
era il prodotto di un orrendo delitto, stessa cosa avrebbero dovuto
fare i Latini, e neppure in questo caso si sarebbe trattato di uno
straniero. Ma se i Romani non ne potevano più di lui, delle
esecuzioni a catena, degli esili, delle confische di beni, i Latini
potevano forse sperare in qualcosa di meglio una volta nella stessa
situazione? Se volevano dare retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe
dovuto tornarsene a casa rispettando la data della riunione con la
stessa precisione di chi l'aveva organizzata. Mentre il turbolento e
facinoroso Turno, che doveva proprio a tali caratteristiche la
posizione di grande rilievo occupata tra le genti latine, dissertava
su questi argomenti, ecco che arrivò Tarquinio. Tutti si voltarono a
salutarlo. Venne fatto silenzio e il re, invitato dai più vicini a
fornire spiegazioni circa il ritardo con cui si era presentato, disse
di esser stato scelto come arbitro in una disputa tra padre e figlio
e di aver fatto tardi per il desiderio di riconciliare i due
litiganti. Quindi, dato che il giorno se ne era andato in quella
bega, rimandò la riunione al mattino successivo. Pare che Turno non
accettò nemmeno questo senza replicare e sentenziò che non c'era
niente di più facile da sistemare che un litigio tra padre e figlio;
bastavano infatti due parole: o il figlio obbedisce al padre, o
peggio per lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 50.)
«51 Con questo sarcasmo diretto al re di
Roma, il cittadino di Aricia abbandona l'assemblea. Tarquinio,
incassando l'affronto peggio di quanto desse a vedere, inizia subito
a cercare il modo per togliere di mezzo Turno, in maniera tale da
ispirare nei Latini lo stesso terrore col quale in patria aveva
oppresso gli animi dei suoi sudditi. E poiché non era nella
posizione di eliminare il suo uomo di fronte agli occhi di tutti, lo
schiacciò escogitando una falsa accusa che in realtà non aveva
nulla a che vedere con lui. Grazie ad alcuni rappresentanti del
partito all'opposizione di Aricia, riuscì a corrompere uno schiavo
di Turno affinché lasciasse introdurre di nascosto una grande
quantità di armi nella casa del padrone. Dato che bastò una notte
per sistemare la cosa, Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò in
sua presenza i capi latini e, fingendo di aver ricevuto qualche
notizia allarmante, disse loro che il ritardo del giorno prima era
stato provvidenziale e aveva salvato loro e lui stesso. Infatti c'era
stata una denuncia: Turno voleva eliminare lui e i capi più in vista
del popolo latino per impadronirsi del potere assoluto. L'attentato
avrebbe dovuto essere messo in pratica il giorno precedente durante
l'assemblea, ma poi era stato rimandato per l'assenza del bersaglio
principale, cioè l'ideatore del raduno. Di lì la violenta invettiva
di Turno contro l'assente, il cui ritardo ne aveva deluso le
speranze. Tarquinio aggiunse di esser sicuro che, se l'informazione
ricevuta corrispondeva a verità, Turno, quando alle prime luci
dell'alba essi si fossero radunati per l'assemblea, si sarebbe
presentato con una banda di cospiratori armati fino ai denti. Gli
avevano anche riferito, aggiunse, che a casa di Turno era stata
trasportata una grande quantità di spade. E la fondatezza di
quell'informazione si poteva verificare subito: bastava andassero con
lui a casa di Turno. L'accusa sembrava veramente plausibile: vuoi
l'aggressività di Turno nell'invettiva del giorno prima, vuoi il
ritardo di Tarquinio che dava veramente l'impressione di aver fatto
saltare l'attentato. Sta di fatto che si avviano disposti a credere
alla storia, ma nel contempo pronti a considerarla tutta una
montatura nel caso non ci fosse stata traccia delle spade. Arrivati a
destinazione, svegliano di soprassalto Turno e lo fanno guardare a
vista. Quando poi, immobilizzati gli schiavi che si preparavano a
fare resistenza per attaccamento al padrone, cominciarono a tirar
fuori spade su spade da ogni angolo della casa, non ci fu più nessun
dubbio: Turno fu incatenato e nel gran trambusto venne subito
convocata un'assemblea di tutti i Latini. Lì le spade piazzate nel
bel mezzo suscitarono un tale risentimento che Turno, senza nemmeno
poter perorare la propria causa, fu sottoposto a un supplizio senza
precedenti: lo fecero annegare immergendolo nella sorgente Ferentina
con sopra la testa un graticcio coperto di sassi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 51.)
«52 Tarquinio quindi riconvocò i Latini
in assemblea e si complimentò con loro per la fermezza con cui
avevano inflitto a Turno, autore di un progettato colpo di stato, la
giusta pena per il suo evidente reato. Poi affermò di potersi basare
su un diritto molto antico per sostenere che tutti i Latini, essendo
originari di Alba, rientravano nelle clausole di quel trattato dei
tempi di Tullo col quale l'intera nazione albana e le sue colonie
erano state annesse a Roma. Rinnovare quel trattato sarebbe stato un
grosso vantaggio: più che altro - questo il suo pensiero - i Latini
avrebbero partecipato dei successi del popolo romano, senza dover
sempre rischiare o subire distruzioni e devastazioni di campagne
com'era successo durante il regno di Anco e durante quello di suo
padre Tarquinio Prisco. Non fu difficile persuadere i Latini anche se
il trattato favoriva nettamente Roma. Inoltre, non solo i capi latini
erano dalla parte del re e ne condividevano i punti di vista, ma
proprio poco prima Turno aveva fornito loro una dimostrazione di cosa
poteva toccare a chiunque avesse avuto in mente di opporsi. Il
trattato venne così rinnovato e una delle clausole prevedeva che i
giovani latini si presentassero il tal giorno armati di tutto punto
nel bosco di Ferentina. Seguendo le disposizioni del re di Roma, essi
si concentrarono dai diversi paesi di provenienza. Tarquinio, allora,
per evitare che ogni gruppo avesse un proprio capo, un comando
separato e insegne diverse dagli altri, creò manipoli misti di
Latini e Romani con questo criterio: ne organizzò uno sommandone due
e due dividendone uno. A capo dei manipoli così sdoppiati nominò
dei centurioni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 52.)
«53 Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi
sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di
combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di
quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione in
tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a
iniziare coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e tolse
loro con la forza Suessa Pomezia. Ne vendette il bottino e coi
quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un
tempio di Giove le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli
dèi e degli uomini, nonché della potenza romana e della sua stessa
posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu
messo da parte per la costruzione del tempio. In seguito si impegnò
in una guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi.
Infatti tentò prima una fallimentare soluzione di forza; poi,
respinto anche da sotto le mura dopo averne cercato l'assedio, alla
fine ricorse a un espediente poco in sintonia con lo spirito romano,
cioè l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre dava a vedere di aver
perso interesse nella guerra per concentrarsi sulla fondazione del
tempio e su altre opere di natura urbanistica, Sesto, il più giovane
dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò a Gabi lamentandosi
del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal padre. Là
raccontò che quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva adesso iniziato a
tormentare i figli, che a sua detta erano fastidiosamente numerosi, e
a cercare di riprodurre in casa il deserto che aveva fatto in senato,
in modo tale da non lasciare né discendenti né un qualche erede al
trono. Quanto a lui, sfuggito alle spade e ai pugnali del padre, era
convinto che in nessun posto sarebbe stato così al sicuro come
presso i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la guerra che sembrava
esser stata abbandonata, avevano poco da illudersi: era tutta una
finta e, da un momento all'altro, lui li avrebbe attaccati quando
meno se lo aspettavano. Se poi presso di loro non c'era posto per un
supplice, allora avrebbe attraversato tutto il Lazio e quindi si
sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e agli Ernici, finché non
avesse trovato gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e
dalle crudeltà inflittegli dal padre. Può darsi anche che avrebbe
trovato gli stimoli per andare a combattere il più tirannico dei re
e il più insolente dei popoli. Poiché era chiaro che, se avessero
titubato, il giovane, infuriato com'era, se ne sarebbe andato, i
Gabini gli diedero il benvenuto. Gli dissero di non meravigliarsi se
il padre si era comportato coi figli nello stesso modo che coi
sudditi e con gli alleati: avrebbe finito col rivolgere la propria
crudeltà contro se stesso, una volta esaurito ogni bersaglio. Da
parte loro, erano comunque contenti della sua venuta e confidavano,
anche col suo aiuto, di spostare in breve tempo il teatro delle
operazioni di guerra dalle porte di Gabi alle mura di Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 53.)
«54 In seguito Sesto fu ammesso alle
riunioni di governo, durante le quali, sul resto delle questioni, si
professava dello stesso avviso degli anziani di Gabi per la loro
maggiore esperienza. Da parte sua, invece, non faceva che parlare di
guerra e sosteneva di esserne un grande esperto in quanto conosceva
le forze dei due popoli e sapeva che Tarquinio aveva raggiunto un
punto tale di arroganza che non solo i cittadini ma i figli stessi
non riuscivano più a tollerarlo. Così, con questa tecnica, riuscì
piano piano a convincere i capi di Gabi a riaprire le ostilità.
Avrebbe guidato lui in persona delle azioni di guerriglia con un
gruppo di giovani particolarmente coraggiosi. Calcolando
perfettamente ogni cosa che faceva e diceva, riuscì a incrementare a
tal punto la malriposta fiducia nella sua persona, che alla fine gli
affidarono il comando in capo delle operazioni. Siccome il popolo
ignorava quel che stava realmente succedendo e le prime scaramucce
tra Romani e Gabini vedevano quasi sempre prevalere questi ultimi,
allora tutti, senza distinzioni di classe, cominciarono a credere che
Sesto Tarquinio fosse l'uomo mandato dal cielo per guidare le loro
truppe. E i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a
condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella
spartizione del bottino, gli si affezionarono a tal punto che non era
meno potente lui a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo fosse a
Roma. E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte per
affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere
al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi gli dèi gli avevano
concesso di esser padrone incontrastato della situazione politica. Al
messaggero - suppongo per la scarsa fiducia che ispirava - non venne
affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere
perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l'inviato del
figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in
silenzio, pare che il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di
bacchetta. Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere
risposte, ritornò a Gabi convinto di non aver compiuto la missione.
Lì riferì ciò che aveva detto e ciò che aveva visto: il re, fosse
per ira, per insolenza o per naturale disposizione all'arroganza, non
aveva aperto bocca. Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre
volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della
città, accusandone alcuni davanti al popolo, e con altri facendo
leva sull'impopolarità che si erano acquistati da soli. Per molti ci
fu l'esecuzione sotto gli occhi di tutti. Certi invece, più
difficili da mettere sotto accusa, vennero assassinati di nascosto.
Altri ebbero il permesso di lasciare il paese o vennero esiliati. Le
proprietà di tutti, morti o esiliati, subirono la stessa sorte:
vennero confiscate e quindi distribuite in una corsa sfrenata
all'accaparramento. Badando quindi solo all'interesse particolare, la
gente perse il senso del disastro in cui la città era franata.
Finché un bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse,
Gabi si consegnò nelle mani del re di Roma
senza opporre resistenza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 54.)
Con l'ultimo dei Tarquini, Veio aveva visto ritornare la tranquillità. Tarquinio il Superbo si era dedicato a rafforzare la supremazia di Roma sull'etnia latina, spostando la direttrice degli attacchi romani da nord a est, verso Gabi e poi contro Ardea, capitale dei Rutuli. La sua cacciata non ci permette di appurare quali fossero i suoi intenti politico-militari nei confronti di Veio, però i prodromi erano evidentemente rivolti a imporre la supremazia romana sulle popolazioni non-etrusche in generale e latine in particolare.
Prosegue Tito Livio: «55 Dopo essersi impadronito di Gabi,
Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli
Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana. Il primo
era il tempio di Giove sul monte Tarpeio: sarebbe stato un monumento
immortale al suo regno e al suo nome, e avrebbe ricordato che dei due
Tarquini - entrambi re -, prima il padre aveva fatto il voto di
costruirlo e poi il figlio lo aveva portato a compimento. E perché
la zona venisse liberata da ogni precedente traccia di culto e
dedicata esclusivamente a Giove e al suo tempio, ordinò di
sconsacrare quelle cappelle e quei santuari che erano stati in un
primo tempo dedicati agli dèi da Tazio nei momenti decisivi della
battaglia contro Romolo e che in seguito erano stati consacrati e
inaugurati. Proprio all'inizio dei lavori, tradizione vuole che gli
dèi inviassero un segno per indicare la grandezza di quel potente
regno. Infatti, mentre gli uccelli diedero il via libera alla
sconsacrazione di tutti gli altri santuari, la stessa cosa non
successe per quello di Termine. Il presagio augurale fu interpretato
in questo modo: visto che il tempio di Termine rimaneva al suo posto
ed era l'unica tra tutte le divinità a non essere allontanata dallo
spazio a essa consacrato, ciò significava stabilità e solidità per
lo Stato. Una volta ricevuto questo presagio di durata, ne seguì un
altro che annunciava la grandezza dell'impero. Pare che durante gli
scavi delle fondamenta del tempio venisse portata alla luce una testa
di uomo con i lineamenti della faccia intatti. Il ritrovamento
parlava chiaro: quel punto sarebbe diventato la cittadella
dell'impero e la capitale del mondo. Questa fu l'interpretazione
degli indovini, sia dei locali, sia di quelli fatti arrivare
dall'Etruria per pronunciarsi sulla cosa.
Nella mente del re c'era ormai spazio
solo per le spese pubbliche: così, il ricavato del bottino di
Pomezia, destinato a coprire la costruzione dell'intero edificio,
bastò appena a pagare le fondamenta. Questo perché la mia fonte è
nel caso presente Fabio, che è più antico, e secondo il quale il
bottino fu soltanto di quaranta talenti, e non Pisone che invece
parla di quarantamila libbre di pesante argento stanziate per
l'opera. Una simile somma non è pensabile la si potesse all'epoca
ricavare dal bottino di una sola città e non esiste edificio,
neppure oggi come oggi, le cui fondamenta arrivino a costare così
care.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 55.)
«56 Nel desiderio di portare a termine
la costruzione del tempio, Tarquinio, dopo aver fatto venire operai
da tutta l'Etruria, attinse non solo ai fondi di Stato stanziati per
questo progetto, ma ricorse anche alla mano d'opera della plebe. Non
era certo un lavoro da poco e in più c'era il servizio militare.
Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli dèi
con le proprie mani che essere impiegati, come poi in seguito
successe, in lavori meno spettacolari ma molto più sfibranti (come
la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto
terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della
città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni
nostri ha ben poco da contrapporre). Dopo aver impegnato la plebe in
queste grandi costruzioni, Tarquinio, pensando che una popolazione
numerosa se disoccupata sarebbe stata per Roma un peso morto, e
volendo nel contempo ampliare i confini del suo regno con la
deduzione di colonie, inviò coloni a Signa e Circei per farne un
giorno dei bastioni di Roma sulla terra e sul mare. Nel bel mezzo di
queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo: da una
colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il
palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso
terrore ma di ansia e preoccupazione. Per i prodigi di carattere
pubblico Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi. Ma in
questo caso, spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare
la sua casa, stabilì che fosse interrogato l'oracolo di Delfi, il
più famoso del mondo. Non osando però affidarne a nessun altro il
responso, mandò due dei suoi figli in Grecia attraverso terre a quel
tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti. Tito e Arrunte
partirono.
|
Lucio Giunio Bruto. |
Al loro seguito si imbarcò anche Lucio Giunio Bruto,
figlio di Tarquinia, sorella del re, giovane dal carattere
completamente diverso da quello che dava a vedere. Quando era venuto
a sapere che i personaggi più in vista della città, e tra questi
suo fratello, erano stati eliminati dallo zio, aveva deciso di
rinunciare a ogni atteggiamento e a ogni successo economico che
avrebbero potuto innervosire il re o suscitarne l'invidia, e si era
risolto a cercare la sicurezza nel disprezzo, visto che la giustizia
offriva ormai ben poca protezione. Così, facendo apposta l'imbecille
e lasciando che il re disponesse liberamente della sua persona e
delle sue sostanze, non aveva rifiutato nemmeno il soprannome di
Bruto (in latino = sciocco, N.d.R.), per mascherare il grande coraggio che, una volta scoccata
l'ora fatale, lo avrebbe spinto a liberare il popolo romano. Era lui
che i Tarquini si portavano a Delfi, più come una spassosa
macchietta che come un compagno di viaggio: pare che il suo dono ad
Apollo consistesse in un bastone d'oro racchiuso in un altro di corno
che era stato scavato proprio con quell'intento, a rappresentazione
simbolica del suo carattere. Una volta arrivati a Delfi e compiuta la
missione per conto del padre, i giovani furono presi dal desiderio
insopprimibile di sapere a chi di loro sarebbe toccato il regno di
Roma. Pare che dal profondo dell'antro si sentì una voce pronunciare
le seguenti parole: “A Roma regnerà, o giovani, il primo di voi
che darà un bacio a sua madre.” I Tarquini, per far sì che Sesto,
rimasto a Roma, non venisse a sapere del responso e restasse così
tagliato fuori dal potere, impongono il segreto più assoluto
sull'episodio. Di comune accordo lasciano che la sorte decida chi,
una volta a Roma, bacerà per primo la madre. Bruto pensò invece che
il responso della Pizia avesse un altro significato: per questo,
facendo finta di scivolare, cadde a terra e vi appoggiò le labbra,
considerando la terra madre comune di tutti i mortali. Quindi
rientrarono a Roma, dove fervevano i preparativi per una guerra
contro i Rutuli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 56.)
«57 Ardea apparteneva ai Rutuli, popolo
che in quella regione e in quell'epoca spiccava per le sue ricchezze.
La vera causa della guerra fu questa: il re di Roma, dopo essersi
svenato con la sontuosità dei suoi progetti urbanistici, contava di
riassestare il proprio bilancio e, nel contempo, facendo del bottino
sperava di placare gli animi della gente, esacerbati non soltanto
dalla sua ferocia, ma incapaci di perdonargli di essere stati così a
lungo impegnati in lavori faticosi e servili. Si tentò di prendere
Ardea al primo assalto. Visto il fallimento del tentativo, i Romani
scelsero la via dell'assedio e scavarono una trincea intorno alla
città nemica. In questa guerra di posizione, come sempre accade
quando si tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano
all'ordine del giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la
truppa. I figli del re, tanto per fare un esempio, ammazzavano il
tempo spassandosela in festini e bevute. Un giorno, mentre stavano
gozzovigliando nella tenda di Sesto Tarquinio e c'era anche Tarquinio
Collatino, figlio di Egerio (figlio di Tarquinio Arunte, detto
Egerio poiché povero, che a sua volta era figlio di Arunte, fratello
di Tarquinio Prisco, N.d.R.), il discorso cadde per caso sulle mogli e
ciascuno prese a dire mirabilia della propria. La discussione si
animò e Collatino affermò che era inutile starne a parlare perché
di lì a poche ore si sarebbero resi conto che nessuna poteva tener
testa alla sua Lucrezia. “Giovani e forti come siamo, perché non
saltiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona la condotta
delle nostre spose? La prova più sicura sarà cioè che ciascuno di
noi vedrà all'arrivo inaspettato del marito”. Infiammati dal vino,
urlarono tutti: “D'accordo, andiamo!” Un colpo di speroni al
cavallo e volano a Roma. Arrivarono alle prime luci della sera e di
lì proseguirono alla volta di Collazia, dove trovarono Lucrezia in
uno stato completamente diverso da quello delle nuore del re
(sorprese a ingannare l'attesa nel pieno di un festino e in compagnia
di coetanei): nonostante fosse notte fonda, Lucrezia invece era
seduta nel centro dell'atrio e stava trafficando intorno alle sue
lane insieme alle serve anche loro indaffarate. Si aggiudicò così
la gara delle mogli. All'arrivo di Collatino e dei Tarquini, li
accoglie con estrema gentilezza e il marito vincitore invita a cena i
giovani principi. Fu allora che Sesto Tarquinio, provocato non solo
dalla bellezza ma dalla provata castità di Lucrezia, fu preso dalla
insana smania di averla a tutti i costi. Poi, dopo una notte passata
a godersi le gioie della giovinezza, rientrarono alla base.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 57.)
«58 Qualche giorno dopo, Sesto
Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collazia con un solo
compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente
dei suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare nella camera
degli ospiti. Invasato dalla passione, quando capì che c'era via
libera e tutti erano nel primo sonno, sguainata la spada andò nella
stanza di Lucrezia che stava dormendo: la immobilizzò con la mano
puntata sul petto e disse: “Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto
Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta!” La povera
donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un passo dalla
morte. Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad
alternare suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il
suo animo di donna. Ma vedendo che Lucrezia era irremovibile e non
cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte, allora aggiunse il
disonore all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe
sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si
dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso dell'adulterio.
Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per
così dire, la meglio sull'ostinata castità di Lucrezia. Quindi,
fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia,
affranta dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al
padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei,
ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo perché era
successa una cosa spaventosa. Arrivarono così Spurio Lucrezio con
Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto
(questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano
imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia).
La trovano seduta
nella sua stanza e immersa in una profonda tristezza. Alla vista dei
congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: “Tutto
bene?” Lei gli risponde: “Come fa ad andare tutto bene a una
donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le
tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il
mio
cuore è
puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che
l'adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui
che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di
ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se
siete uomini
veri, fate sì che quel rapporto non sia
fatale solo a me ma anche a
lui.” Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla
con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo
sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era
stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi,
se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica:
“Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi
assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da
oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà
nel disonore!” Afferrato il
coltello che teneva nascosto sotto la
veste, se lo
piantò nel
cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a
terra esanime tra le urla del marito e del padre.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 58.)
«59 Bruto, mentre gli altri erano in
preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e,
brandendolo ancora stillante di sangue, disse: “Su questo sangue,
purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo
voi a testimoni, o dèi, che di qui in poi perseguiterò Lucio
Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe
col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non
permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma.”
Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio,
tutti sbalorditi dall'incredibile evento e incapaci di stabilire da
dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com'era stato
loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li
invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non
esitano a seguirlo come loro capo. Quindi trascinano fuori di casa il
cadavere di Lucrezia e lo adagiano in pieno foro dove piano piano si
accalca la gente, attratta, come di consueto, dalla stranezza della
cosa e in più dalla sua nefandezza. Tutti si scagliano indignati
contro la violenza criminale del principe. La loro commozione nasceva
dalla tristezza del padre ma anche da Bruto che li invitava a
smetterla con tutti quei pianti e li esortava a esser degni del
proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi
aveva osato trattarli come nemici. I giovani più coraggiosi si
armano e si offrono volontari, seguiti subito da tutto il resto della
gioventù. Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a guardia di
Collazia e piazzate delle sentinelle per evitare che qualcuno andasse
a riferire dell'insurrezione alla famiglia reale, il resto delle
truppe fa rotta su Roma agli ordini di Bruto. Una volta lì, questa
moltitudine armata semina dovunque il panico e lo sconcerto al suo
passaggio. Ancora una volta, però, vedendo che alla testa c'erano i personaggi più in vista della città, l'opinione generale fu che,
qualunque cosa stessero facendo, non poteva trattarsi di
un'iniziativa sconsiderata. L'atroce episodio suscita a Roma non meno
commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da ogni parte
della città la gente si riversa nel foro. Una volta là, un messo
convocò il popolo di fronte al tribuno dei Celeri, magistratura
tenuta casualmente in quel periodo proprio da Bruto. Egli allora
pronunciò un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere
e gli atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere.
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William-Adolphe Bouguereau - "Il rimorso di Oreste" (1832), che raffigura Oreste perseguitato dalle Erinni, che nella mitologia Greca personificavano la vendetta mentre in quella Romana erano le Furie, soprattutto nei confronti di chi colpisce i propri parenti o i membri del proprio clan. |
Parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro
infamante subito da Lucrezia, del suo commovente suicidio e del lutto
solitario di Tricipitino che era più affranto e indignato per la
causa che non per la morte stessa della figlia. Ricordò loro anche
l'
arroganza tirannica del
re e lo
stato miserando della
plebe, costretta a schiantare di fatica a forza di scavi e di
fogne da ripulire. A questo proposito aggiunse che i Romani, capaci
di sottomettere ogni altro popolo dei dintorni, erano stati
trasformati in manovali e tagliapietre da guerrieri che erano.
Dopo
aver citato l'indegna fine di Servio Tullio e l'episodio orrendo
della figlia che ne calpestava il cadavere col cocchio, invocò gli
dèi vendicatori dei crimini contro i genitori. Con questi argomenti
e, credo, con altri ancora più atroci dettati dall'immediatezza
dello sdegno, ma quasi mai facilmente ricostruibili da parte degli
storici, infiammò il popolo e lo trascinò ad abbattere l'autorità
del re e a esiliare Lucio Tarquinio con tanto di moglie e figli. Poi
Bruto in persona arruolò i giovani che si offrivano volontari e,
dopo averli dotati di armi, partì alla volta di Ardea per sollevare
contro il re l'esercito lì accampato. Lasciò il comando di Roma a
Lucrezio, che poco tempo prima era già stato nominato prefetto della
città dal re. Nel pieno di questo trambusto, Tullia scappò dal
palazzo e, dovunque passava, la gente la subissò di maledizioni e di
invocazioni alle furie vendicatrici dei crimini contro i genitori.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 59.)
«60 Quando la notizia di questi
avvenimenti arrivò all'accampamento, il re, allarmato dal pericolo
inatteso, partì alla volta di Roma per reprimere l'insurrezione.
Bruto, informato che il re si stava avvicinando, per evitare
l'incontro fece una manovra di diversione. Anche se per strade
diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono quasi nello stesso momento ad
Ardea e a Roma. A Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e
comunicata la notizia dell'esilio. Il liberatore di Roma fu invece
accolto con entusiasmo dagli uomini nell'accampamento, i quali poi ne
espulsero i figli del re. Due di essi seguirono il padre nell'esilio
a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi,
come se fosse stato un suo dominio, ma là fu assassinato da quanti
ne vendicarono le stragi e le razzie di un tempo. Lucio Tarquinio
Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla
fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro anni. In
seguito, attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio, i
comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due
consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 60.)
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Il logo della Repubblica di Roma, Senatus Popolus Quirites Romani. |
Lucio Giunio Bruto, per quanto figlio della sorella di Lucio Tarquinio il Superbo, non ne portava traccia nel nome, mentre Lucio Tarquinio Collatino nel nome e prenome aveva indicata la stirpe di appartenenza, per cui gli fu chiesto di non ricoprire cariche pubbliche: «...i Tarquini erano troppo abituati a
essere re. Il primo fu Tarquinio Prisco, poi lo scettro toccò a
Servio Tullio e nemmeno questo intervallo fece dimenticare il trono a
Tarquinio il Superbo; infatti se lo riprese con la violenza degna di
un criminale, considerandolo un'eredità di famiglia e non la
prerogativa di un altro. Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, il
potere era adesso nelle mani di Collatino. I Tarquini non erano in
grado di vivere da privati cittadini. Alla gente non andava a genio
il nome: era un pericolo per la libertà. Si cominciò così,
mettendo in giro questi argomenti per tastare lo stato d'animo del
popolo. Quando poi il sospetto inizia a creare inquietudine in più
parti, Bruto convoca un'assemblea generale. Lì, prima di tutto,
legge ad alta voce ciò che il popolo aveva giurato, e cioè di
impedire che in futuro qualcuno potesse diventare re di Roma o
rappresentare una minaccia alla libertà. Era quindi un dovere morale
attenersi rigorosamente a quel giuramento e non trascurare nessun
dettaglio che lo potesse in qualche modo riguardare. Gli dispiaceva
alludere a qualcuno di preciso e avrebbe evitato di parlare se non
fosse stato per il suo attaccamento alla patria. Non era convinto che
il popolo romano avesse riconquistato in pieno la libertà: la
famiglia reale e il suo nome non erano soltanto in città ma
addirittura al governo, e ciò rappresentava un ostacolo
insormontabile per la libertà. “Sta a te,” disse, “o Lucio
Tarquinio, prendere l'iniziativa e dissipare questa paura.
Certo, non bisogna dimenticarselo che hai cacciato i re. Vai fino in
fondo col tuo nobile gesto e porta via da Roma il loro nome. Sulle
tue proprietà non metterà le mani nessuno, ti do la mia parola.
Anzi, se non sono adeguate, subiranno dei ritocchi munifici. Vattene
da amico. Libera la gente da questa paura, può darsi del tutto
infondata, ma nell'animo di tutti vi è questo convincimento:
soltanto quando il nome dei Tarquini scomparirà
da Roma, la monarchia sarà solo più un ricordo.” Sulle prime il
console rimase senza parole di fronte a una cosa così
sbalorditiva e imprevedibile. Poi, quando stava per replicare, viene
circondato dai personaggi più influenti della città i quali gli
rivolgono la stessa richiesta, anche se con scarso successo emotivo.
Spurio Lucrezio, invece, univa il prestigio dell'anzianità alla sua
posizione di suocero: perciò, quando cominciò, passando dalla
supplica alla persuasione, a convincerlo di piegarsi alla volontà
unanime del popolo, Collatino, temendo che allo scadere del
mandato consolare si sarebbe ritirato a vita privata senza più nulla
in mano e con magari l'aggiunta di qualche altra ignominiosa
aggravante, rinunciò alla sua carica e abbandonò Roma dopo aver
trasferito a Lavinio tutti i suoi beni. Su delibera del senato, Bruto
propose al popolo un decreto che sancisse l'esilio per tutti i membri
della famiglia dei Tarquini. Con l'approvazione dei comizi centuriati
nominò suo collega Publio Valerio, che era
stato un valido aiuto nella cacciata dei re.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 2.)
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Consoli Romani. |
Nel 509 a.C., quando a Roma viene cacciato l'etrusco Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, viene proclamata la Repubblica che adotta come epigrafe S.P.Q.R. e mentre generalmente si dice che intesse
Senatus PopolusQue Romanus, secondo me invece non si intendeva altro che
anteporre il
Senatus a
"
Populus Romanus Quirites", come erano firmate molte delle emanazioni degli ordinamenti nell'epoca monarchica, dove si intendeva per
Populus il
potenziale militare (nel latino arcaico il verbo "
populare" significava "devastare") e per
Quirites, l'insieme del
corpo civico,
le individualità componenti la massa dei cittadini Romani, che esprimevano la loro cittadinanza nelle
assemblee (i comizi) a cui partecipavano.
Tarquinio il Superbo, non dandosi per vinto, tentò con l’aiuto del re o lucumone di Clusium (Chiusi), il lars Porsenna (l'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante), di riprendersi il trono, ma senza successo. Aizzò anche i latini contro i romani, che sconfissero la lega latina nel 496 a.C. presso il lago Regillo e Roma divenne quindi l'indiscussa città dominatrice dei popoli latini; per contro la civitas latina divenne seconda solo a quella romana nei secoli a venire.
Nel 495 a.C. a Cuma si spense Tarquinio il Superbo, dove si trovava in esilio. La notizia fu accolta con giubilo a Roma: sconfitti i latini, piegati al rango di socii per sempre e morto l’ultimo re, la res publica cominciava a prendere forma. I romani in generale, ma le loro alte sfere in particolare, resteranno sempre terrorizzati dall’idea che qualcun altro si facesse re. Fu proprio questa la causa per cui Bruto e Cassio assassinarono Cesare: oltre ai poteri speciali e la dittatura a vita offertagli dal senato, un mese prima delle idi del 44 a.C., Marco Antonio gli aveva offerto una corona durante la festa dei Lupercali, che Cesare aveva sdegnosamente rifiutando (offrendo la corona a Giove Ottimo Massimo, per lui unico re di Roma), ma che da molti senatori era stato interpretato come un segnale che il dittatore si apprestava, non pago dei suoi poteri, a farsi proclamare rex. Non a caso Ottaviano abolirà la dittatura e prenderà il potere in modo molto più subdolo: facendosi attribuire una serie di poteri che messi insieme gli davano il comando supremo, e usando due termini, imperator e princeps, che per i romani erano decisamente più tollerabili: già Scipione l’Africano era stato acclamato imperator dai suoi soldati durante la seconda guerra punica.
Al di là della storia, vera o leggendaria, della cacciata di Tarquinio il Superbo, sul finire del V secolo a.C., nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco dall'area dell'antico Latium vetus e un primato romano sui popoli Latini, a Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, gli aristocratici (patrizi) del Senato ottengono il potere di gestire tutte le magistrature: un potere quindi assoluto.
Non è da escludere che il Senato avesse complottato per cacciare gli ultimi re etruschi e prendere direttamente il potere, come già aveva fatto presagire l'ipotesi che Romolo fosse stato fatto a pezzi dai senatori e l'interregno durato un anno prima dell'elezione di Numa, visto che il popolo pretendeva un re.
Le conseguenze di questa unilateralità del potere si rivelano immediatamente dalla lettura della narrazione tradizionale sulla Res Publica romana, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, in cui si narra che i patrizi, che nel Senato possedevano il loro organo di governo, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo e abbandonando definitivamente la monarchia nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la classe sociale) il governo della città, nominando ogni anno due consoli che condividessero il potere esecutivo. La plebe rimaneva quindi "classe inferiore", componente solo della massa cittadina, rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature, l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. I patrizi inoltre, finirono per abusare della loro posizione dominante, utilizzando ad esempio l'istituto del nexum, per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ceto nelle cause contro i plebei e annullando le decisioni dei comizi centuriati.
Sentenzia Tito Livio: «21 I tre anni successivi (498, 497 e
496 a.C., N.d.R.) non furono caratterizzati né dalla
stabilità della pace né dalla guerra. Prima furono consoli Quinto
Clelio e Tito Larcio, poi Aulo Sempronio e Marco Minucio. Durante il
consolato di questi ultimi venne consacrato il tempio di Saturno e
istituita la festività dei Saturnali. I consoli successivi
furono Aulo Postumio e Tito Verginio. Vedo che alcuni autori
collocano la battaglia del lago Regillo solo in questa data e
sostengono che Aulo Postumio, diffidando apertamente del proprio
collega, avrebbe rinunciato alla carica e sarebbe quindi stato eletto
dittatore. Visto che ogni storico adotta un criterio arbitrario in
materia di cronologie e di liste di magistrati, ne consegue che è
quasi impossibile riferire con esattezza la successione dei consoli e
le date degli eventi, quando non solo i fatti ma anche gli autori
stessi sono avvolti nelle nebbie del passato. I consoli successivi
(495 a.C., N.d.R.) furono Appio Claudio e Publio
Servilio. Fu un anno memorabile per l'annuncio della morte
di Tarquinio. Questi si spense a Cuma, alla corte del tiranno
Aristodemo che lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze latine.
La notizia entusiasmò tanto il senato quanto la plebe. I senatori,
però, esagerarono nelle loro manifestazioni di giubilo e la
plebe, fino a quel giorno fatta oggetto di ogni premurosa
attenzione, cominciò a subire il potere soffocante del
patriziato. Quello stesso anno, la colonia di Signa, voluta da
Tarquinio, venne rifondata con l'invio di un nuovo contingente di
coloni. A Roma il numero delle tribù fu portato a ventuno
e il quindici di maggio fu consacrato il tempio di Mercurio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 21.)
Tutto ciò provocherà scontri e rivendicazioni che sfoceranno nel "conflitto degli Ordini" e mineranno le fondamenta della Repubblica, che cinque secoli più tardi sarà dilaniata nella lotta fra Optimati e Populares: le guerre Civili.
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Cartina della Roma Repubblicana. |
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