Lupa con Romolo e Remo in una moneta del II sec. a.C., di Curtis - scanned from photo I took, CC BY-SA 3.0, https:// commons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=1126366. |
Il sovrano deteneva il potere esecutivo, era comandante in capo dell'esercito, capo dello Stato, pontefice massimo, legislatore e giudice supremo. L'elezione dei re erano intervallate da periodi di interregno (interrex) in cui il potere era gestito dal Senato (luogo dei senili), l'assemblea aristocratica dei padri (da cui patria e patrizi).
Il re aveva inoltre funzioni sacrali, rappresentando Roma e il suo popolo di fronte agli dèi, a cui era collegato come fosse un ponte (era infatti il pontefice massimo) e come tale gestiva il rapporto pubblico col tempo, con un calendario che prevedesse le giuste ritualità nei rapporti fra umani e dèi. Le funzioni di rapporti col sacro tipiche del re, rimasero anche dopo la fine della monarchia nella figura del Rex Sacrorum. Altri sacerdoti erano gli àuguri, che interpretavano la volontà degli dèi tramite l'osservazione degli auspìci.
I primi quattro re della tradizione romana (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio e Anco Marzio), di origine latina e sabina, coprono un periodo di 137 anni nel corso dei quali viene posta la nascita della città e di molte delle sue usanze e istituzioni. Gli stessi re sembrano ricalcare, nella loro descrizione e negli atti loro attribuiti, un preciso ruolo secondo questo schema: vi è il fondatore, istitutore della regalità e dello Stato, il sacerdote, istitutore della religione romana, il guerriero, artefice dell'espansione militare e il mercante, l'artefice della prosperità e della "guerra giusta".
Romolo e Remo da https://it.wi kipedia.org/wiki/Romolo#/me dia/File:Brogi,_Carlo_(1850-19 25)_-_n._8226_-_Certosa_di_Pa via_-_Medaglione_sullo_zoccol o_della_facciata.jpg. |
Secondo la tradizione, Romolo era di origini latine, figlio del dio Marte e di Rea Silvia, figlia di Numitore, re di Alba Longa e fondò Roma, tracciandone il confine sacro, il pomerio, il 21 aprile 753 a.C. In tale occasione uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine. Una volta costruita la città sul colle Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò Roma, rapendo le donne ai vicini Sabini della città di Cures, così da dare mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra tra questi due popoli, che si concluse con una alleanza, tanto che i Sabini si insediarono sul colle Quirinale con il loro re, Tito Tazio, il quale condivise con Romolo il potere. La tradizione attribuisce a Tito Tazio alcuni atti normativi (come la lex regia), ma sempre riconducibili anche a Romolo. Era imparentato con Tito Tazio il secondo re, Numa Pompilio, che ne aveva sposato la figlia.
Romolo divise il popolo tra coloro che potevano combattere, gli aristocratici, e coloro che non avrebbero potuto farlo. Nella gerarchia militare contava la nobiltà di nascita.
Senatore Romano con laticlavio. Immagine di Dennishidalgo - Opera propria CC Y-SA 3.0, https:// commons.wikimedia. org/w/index.php? curid=30112996 |
Re Romolo istituì anche i Comizi curiati, espressi dalle curie, le assemblee degli uomini (cou-virie) che formavano le tribù ai quali spettava il compito di ratificare, tra le altre cose, le leggi.
A lui risale la divisione della popolazione patrizia nelle tribù dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres, che erano a loro volta suddivise in dieci curie, le quali dovevano in caso di pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3.000 fanti e 300 cavalieri. Dopo aver regnato 40 anni, Romolo, secondo la leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino venerato sul Quirinale.
Denario con gli dèi Quirino e Ceres. Immagine di Classical Numismatic Group, Inc. http://www. cngcoins.com, CC BY-SA 3.0, https://commons. wikimedia.org/w/index.php?curid=4782551 |
Lupa capitolina, di Merulana - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org /w/index.php?curid=127115610 |
Carta di Roma arcaica con la cittadella di Romolo sul Palatino. La cinta muraria esterna sarà iniziata da Tarquinio Prisco e ultimata da Servio Tullio. |
Littore con fascio littorio. |
Romano con toga praetexta. |
Patrizio Torlonia di profilo, da https://it.wiki pedia.org/wiki/Patrizio _Torlonia. |
Patrizio Torlonia, da https ://it.wikipedia.org/wiki/ Patrizio_Torlonia. |
«9 Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in seguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi disponibili all'epoca. Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale. Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)
«10 Ormai l'ira delle ragazze rapite si era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini, perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. Quell'affronto riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò questi tre popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così i Ceninensi invadono da soli il territorio romano. Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica, la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si scontra in duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. Dopo aver eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città al primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una barella costruita all'occorrenza, salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del dio: “Io, Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la mia volontà, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie opime che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia.” Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così, da quel giorno in poi, piacque agli dèi che fosse legge la parola del fondatore del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse svilita dal numero elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute. Ciò nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così rara fu la fortuna di quell'onore.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 10.)
«11 Mentre i Romani si stavano occupando di queste cose, gli Antemnati, cogliendo al volo l'occasione offerta dalla loro assenza, compiono un'incursione armata nel nostro territorio. Ma le truppe romane, spinte a marce forzate anche in quella direzione, piombano loro addosso trovandoli sparpagliati nei campi. Fu così che bastò il primo urto accompagnato dall'urlo di guerra per sbaragliarli e conquistarne la città. Mentre Romolo era nel pieno dell'ovazione per il doppio trionfo, la moglie Ersilia, cedendo alle preghiere incessanti delle donne rapite, lo prega di perdonarne i genitori e di ammetterli all'interno della città (la cui potenza sarebbe così aumentata proprio grazie alla concordia interna). Egli acconsente facilmente. Quindi marcia contro i Crustumini che erano in procinto di attaccare. Ma la loro resistenza durò ancora meno di quella degli alleati: di fronte a disfatte del genere, non era rimasto troppo coraggio. In entrambi i paesi sottomessi furono inviati coloni. La maggior parte di essi, però, si iscrissero per Crustumino a causa della fertilità della terra. Dall'altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori e parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L'ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti, non agirono sotto l'impulso del risentimento e dell'ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla guerra. Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene corrotta con dell'oro da Tazio e costretta a fare entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data. La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro braccialetti d'oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al posto dell'oro promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi. Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse tradire, l'uccisero proprio col compenso che aveva richiesto.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11.)
«12 Comunque sia, i Sabini si impossessarono della *cittadella.»
Roma quadrata, la prima cittadella, di Cristiano64, https ://commons.wikimedia.org/ w/index.php?curid=8317009 |
Tabularium di Roma: rilievo originale dell'episodio di Mezio Curzio al Lacus Curtius. Immagine di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https:// commons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=37054225. |
«13 Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera.
Jacques-Louis David - "Le Sabine" (1794) al Louvre. Al centro, tra Romolo e Tito Tazio, c'è Ersilia. Da https://it.wikipedia.org/wiki /Ratto_delle_Sabine#/media/ File:The_Intervention_of_the _Sabine_Women.jpg. |
«14 Alcuni anni dopo, certi parenti di Tito Tazio maltrattano gli ambasciatori dei Laurenti e, nonostante il loro appellarsi al diritto delle genti, Tito mostra di avere orecchie soltanto per le preghiere dei suoi. Così facendo, assume su di sé la responsabilità della loro mancanza. E infatti, un giorno che era andato a Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza. Si narra che la cosa addolorò Romolo meno del dovuto, sia per la dubbia affidabilità di una simile divisione del potere, sia perché credeva che quella morte non fosse del tutto immeritata. Per questo evitò di far ricorso alla guerra. Tuttavia, per garantire l'espiazione della morte del re e dell'offesa ai danni degli ambasciatori, fece rinnovare il trattato tra Roma e Lavinio. Questa pace, a dir la verità, fu un evento al di sopra di ogni aspettativa. Invece scoppiò un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi alle porte di Roma. Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse forte come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a devastare le campagne tra Roma e Fidene. Di là piegano verso sinistra (a destra niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono atti di vandalismo terrorizzando i contadini. L'improvviso trambusto creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente alla testa dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene. Dopo avervi lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle truppe. Una parte di queste ordinò che si piazzasse, pronta a lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno riparata da fitti cespugli. Poi, con il blocco più consistente dell'esercito e con tutta la cavalleria, si mise in marcia e, proprio come si era prefissato, riuscì ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di tattica spericolata e minacciosa, con i cavalieri che scorrazzavano fin quasi sotto le porte. D'altra parte, per la fuga che doveva esser simulata, questo assalto a cavallo forniva un pretesto più verisimile. E quando non solo la cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire, ma anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si spalancarono le porte e le linee romane furono travolte dallo straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento, furono trascinati nel punto dell'imboscata. Là i Romani saltano fuori a sorpresa e attaccano sul fianco la schiera dei nemici. Allo stupore si aggiunge la paura: dall'accampamento si vedono avanzare gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione. Così i Fidenati, in preda al panico più totale, fanno dietro-front quasi prima ancora che Romolo e i suoi uomini riuscissero a girare i loro cavalli. E visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnavano la città in maniera di gran lunga più disordinata di quelli che, poco prima, essi avevano inseguito ingannati dalla loro simulazione di fuga. Però non riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li incalzavano da dietro e, prima che le porte della città venissero chiuse, irruppero all'interno, quando ormai i due eserciti sembravano uno solo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 14.)
Roma arcaica, Veio, le saline alla foce del Tevere e i 7 pagi di Veio, da http://odysseus-viaggionella storia.blogspot.com/2006/04/roma-si- rafforza-le-guerre-sannitiche.html. |
Fondamentale era quindi il controllo dei septem pagi, i sette villaggi che sorgevano di fronte a Roma ma dall'altra parte del Tevere, sulla via del commercio del sale che, dalle saline poste alla foce del fiume, portava verso l'interno e che i romani chiameranno infatti via Salaria. Roma quindi poteva ostacolare i traffici fra Veio e il mare e d'altra parte, per Roma, la città etrusca era il primo grosso ostacolo per la propria espansione commerciale e militare verso l'Etruria, ed era inoltre strettamente alleata alle città di Capena (fondata, secondo la tradizione, da Veienti guidati dal leggendario re Properzio), Falerii e Fidene.
In verde, Veio e città etrusche, in giallo città latine, da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/com mons/3/30/Carte_GuerresRomanoVeies. _482avJC.png |
Plutarco racconta che i Veienti divisero il loro esercito in due schiere e con l'una assalirono l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e con l'altra si scontrarono con Romolo. A Fidene ottennero una vittoria parziale in cui riuscirono ad uccidere 2.000 Romani, ma nel secondo scontro persero la vita ben 8.000 Veienti e Romolo ebbe la meglio. Il successivo e decisivo scontro vide i due eserciti combattere sempre nel territorio di Fidene, dove Romolo dimostrò il maggior merito della vittoria per la sua grande abilità tattica e per il coraggio. Al termine della terza ed ultima battaglia, c'erano sul campo di battaglia ben 14.000 caduti. E Romolo, dopo aver sbaragliato l'esercito nemico, inseguì i Veienti fin sotto le mura della loro città, e poté sottrarre a Veio i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e quelli delle Saline, alla foce del Tevere, in cambio di una tregua della durata di cento anni, tregua contrassegnata da continue frizioni fra le due città, tali da sfociare, con una certa continuità, in combattimenti serrati e saccheggi nei rispettivi territori.
Il distanziamento temporale fra gli scontri, poteva essere dovuto all'osservanza di tregue (come quella della durata di cento anni) o all'impegno sostenuto nel combattere altri nemici. Roma era sempre impegnata con i vari vicini Sabini, Latini, Ernici, Rutuli, Volsci ecc. e anche Veio aveva dei vicini turbolenti, ed essendo ripetutamente sconfitta dai Romani, certamente doveva pagare anche le relative riparazioni economiche, in genere con perdite di territorio e di conseguenza andava via via impoverendosi.
Gustave Boulanger (1824-1888) - "Il concerto di flauto", dove un patronus romano riceve dei clientes, |
Cavaliere ausiliario con lancia, particolare da una pietra tombale romana di Colonia, I secolo. Di Mediatus - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https:// commons.wikimedia. org/w/index.php? curid=6555742. |
Fra i cavalieri c'erano quindi gli "Equites Romani Equo Publico" e i semplici "Equites". Solo un numero ristretto di cavalieri, un quarto circa del totale, riusciva ad entrare nell'arruolamento di ordine pubblico, col privilegio del cavallo fornito e mantenuto dallo Stato, mentre i semplici Equites dovevano comprarlo e mantenerlo a proprie spese; ma soprattutto gli "Equites Romani Equo Publico" avevano il vantaggio di poter ottenere delle cariche pubbliche, sia giuridiche che senatoriali, che agli equites ordinari erano precluse.
Fin dai tempi degli Equites Romani Equo Publico quindi, con l'espressione "cavaliere" ci si poteva riferire sia ad una qualifica militare che ad una appartenenza politico-sociale.
Prosegue Tito Livio: «16 Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra. I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: “Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo,” egli concluse, “è scomparso in cielo.” È incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo, l'assicurazione della sua immortalità.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.)
La reale esistenza di Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsen sarebbe comprovata dalla presenza tra le gentes originarie di Roma (di cui parla Tito Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di Festo (la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remoria nei pressi della Roma quadrata (sull'Aventino).
La reale esistenza della figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini (vedi su You Tube un suo video sulla fondazione di Roma: https://www.youtube.com/watch?v=mfxvEHr842Q&t=3019s&ab_channel=Fabius2721), sulla base di moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza al secolo VIII a.C., circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione.
Inoltre, sulla base di una fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger nel 1899 fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato.
Durante gli scavi legati alla sua scoperta l'area fu scavata e, a circa 1,5 metri sotto il piano del Lapis niger, fu ritrovato un altare con un cippo che presentava un'iscrizione con una delle più antiche testimonianze scritte della lingua latina, databile intorno al 575-550 a.C. L'altare ha una tipologia canonica, con la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto (della quale si conserva però solo lo scalino inferiore). Il tutto era situato all'aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti. L'attribuzione esatta dell'altare e dei basamenti adiacenti è discussa, e oscilla tra la fine dell'età regia e l'inizio di quella repubblicana (VI secolo a.C.). Dionigi d'Alicarnasso, in visita alla città all'epoca di Augusto, ricordò la presenza di una statua di Romolo nel Volcanale accanto ad un'iscrizione in caratteri "greci": in effetti l'iscrizione è in caratteri simili a quelli greci, ma non in greco: la vicinanza di questo luogo al sito del Lapis niger ha fatto pensare a una ricostruzione più tarda dell'iscrizione e della statua. Santuari dedicati ai fondatori delle città esistevano anche in altre zone: a Lavinio esisteva un sacello dedicato a Enea divinizzato, ed anche le città greche avevano spesso un heroon nell'agorà, dedicato ai fondatori veri o presunti.
Cippo da Lapis Niger: Giovanni Dore, CC BY 3.0 https://commo ns.wikimedia .org/w/index. php?curid= 58926647 |
Sulla destra, l'area del comitium nel Foro, da https://www.abouta rtonline.com/una-tomba-o-un-ce notafio-e-di-romolo-dubbi-tra- gli-esperti-sullimportante-ritrova mento-negli-scavi-al- foro-romano/ |
Interno dell'ipogeo, tomba o cenotafio. Da https://www.abou tartonline.com/una-tomba-o-un -cenotafio-e-di-romolo-dubbi- tra-gli-esperti-sullimportante- ritrovamento-negli-scavi-al -foro-romano/ |
«18 In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano. C'è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo. La tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine. E da quei lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? Per tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro dell'antichità. Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli dèi. Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L'augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e divise la volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. Poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: “O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.” Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 18.)
Denario del 48 a.C. con testa barbuta di Numa Pompilio e diadema con iscrizione NVMA, by Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://comm ons.wikimedia.org/w/index. php?curid=110790928 |
Per trovare un accordo si decise di procedere in questo modo: i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abitava nella città sabina di Cures ed era sposato con Tazia, l'unica figlia di Tito Tazio, anche lui di quella cittadina. Sembra che Numa fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma (21 aprile) ed era noto a Roma come uomo di provata rettitudine, oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di Pius. I senatori Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome.
Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio (i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini) per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, Numa vi acconsentì solo dopo aver preso gli auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli; Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo.
Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici.
Appena divenuto re nominò, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, che rappresentava prima il corpo civico romano, poi Romolo deificato. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni.
Proibì ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini e, durante il suo regno non furono costruite statue raffiguranti gli dèi. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestali, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro.
Istituì poi il collegio delle vergini Vestali, assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia (erano dunque quattro, Anco Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei).
Istituì anche il collegio dei Feziali (i guardiani della pace) che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i conflitti con i popoli vicini e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici.
Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei Salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra (per gli antichi romani il periodo per le guerre andava da marzo ad ottobre). Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti dell'antica Roma, perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives (cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive) a milites (militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari) e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Migliorò anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia, assieme ai loro padroni.
La tradizione romana rimanda a Numa Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia.
Nel Foro, fece costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno).
Secondo l'enciclopedista Marco Verrio Flacco (secc. I a.C. - I d.C.), riportato dal lessicografo Sesto Pompeo Festo, il re, ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto egli era un convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Già nel 280 a.C., Aristarco di Samo (310 - 230 a.C. circa) aveva elaborato l'ipotesi di un sistema solare eliocentrico. Si suppone che la teoria di Aristarco fosse stata accettata nei primi secoli successivi alla sua esistenza, dato che Plinio il Vecchio e Seneca si riferiscono al moto retrogrado dei pianeti come a un fenomeno ottico e non reale, concezione più in linea con l'eliocentrismo che con il geocentrismo.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, Numa poi incluse nella città il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura.
Come sopra scritto, Floro racconta che Numa insegnò i sacrifici, le cerimonie ed il culto degli Dèi immortali, ai Romani. Creò anche i pontefici, gli auguri ed i Salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la Festa di Quirino e la Festa di Marte. La prima festa si celebrava a febbraio, mentre la festa dedicata a Marte si celebrava a marzo, e veniva officiata dai Salii. Numa partecipava di persona a tutte le feste religiose, durante le quali era proibito lavorare.
Morì ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto dagli anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, aveva solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo.
Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, Numa Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città.
Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, nel 181 a.C., due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti in greco di filosofia. Per decreto del senato i primi furono conservati con cura, mentre i secondi furono pubblicamente bruciati.
Alla morte di Numa, il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candidò alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e questi si lasciò morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio era nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di Numa Pompilio con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci.
Per la critica storico-archeologica, la reale esistenza di Numa Pompilio, così come quella di Romolo, è molto discussa. Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni Numa viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura.
Tullo Ostilio, da Guillaume Rouille (1518?-1589) https ://commons.wikimedia.org/ w/index.php?curid=8645029 |
I suoi primi provvedimenti, cioè suddividere le terre appartenute a Romolo tra i romani nullatenenti e permettere, a chi fra questi non avesse neppure una casa, di costruirne una sul Celio, gli valsero l'appoggio del popolo.
Le sue guerre vittoriose con Alba Longa (distante 12 miglia da Roma), Fidene (18 miglia) e Veio (6 miglia) inaugureranno le conquiste del territorio latino e il primo allargamento del dominio di Roma oltre le sue mura. Si racconta che morì colpito da un fulmine come punizione per il suo orgoglio.
Floro disse di lui che istituì tutto quanto riguardava la disciplina militare e l'arte della guerra, tanto che, dopo aver formato i giovani romani, osò provocare gli Albani, i cittadini di Alba Longa, popolo vicino e potente; e l'evento distintivo del suo regno fu proprio la distruzione di Alba Longa, evento confermato dagli storici.
Jacques-Louis David - "Il giuramento degli Orazi" (1784). Da https://it.wikipedia.org/wik i/Il_giuramento_degli_Orazi#/ media/File:Jacques-Louis_D avid,_Le_Serment_des_ Horaces.jpg. |
«Incerto e glorioso fu lo scontro e mirabile il suo esito finale. Poiché da una parte tre erano stati feriti [Curiazi], dall'altra due uccisi [Orazi], l'Orazio che era rimasto vivo aggiunse al valore l'inganno e per separare i nemici finse la fuga e li vinse, battendoli separatamente, nell'ordine in cui lo raggiungevano. Così si ebbe una vittoria per mano di uno solo, cosa assai rara, il quale però si macchiò di un assassinio contro il proprio sangue: aveva visto la sorella piangere sulle spoglie del fidanzato nemico [Curiazio]; vendicò questo amore di una vergine con la spada. Le leggi romane lo accusarono per il delitto, ma il valore [della sua vittoria] lo sottrassero alla pena e il delitto fu inferiore alla gloria.» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 3.4-6.)
Alba Longa fu sconfitta e assoggettata allo stato romano. Quando però si rifiutò di aiutare Roma in un successivo conflitto contro la città di Fidenae, addirittura schierandosi contro, Ostilio fece dilaniare il dittatore degli Albani, Mezio Fufezio: «[...] vinto il nemico [di Fidene], Mezio Fufezio, che aveva rotto il patto [con i Romani], legato tra due carri, fu squartato da veloci cavalli, e la stessa Alba Longa, sebbene fosse "madre" di Roma, fu distrutta come una [comune] rivale.». (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 3.8.). Ma prima di distruggere la città, mai più ricostruita, ne trasferì tutte le ricchezze e ne deportò tutti gli abitanti sul Celio, ampliando così Roma.
Narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita Libri" I: «22 Alla morte di Numa si tornò a un interregno. Poi il popolo elesse re - e il senato ratificò l'elezione - Tullo Ostilio, nipote di quell'Ostilio (cap. 12, N.d.R.) che si era distinto nella battaglia contro i Sabini ai piedi della cittadella. Il nuovo re non solo fu diversissimo rispetto al suo predecessore, ma fu anche più bellicoso di Romolo. La giovane età e la forza, unite all'aspirazione alla gloria ereditata dal nonno, erano un incentivo al suo ardore. Così, pensando che l'inattività prolungata avrebbe irreparabilmente sfiancato Roma, cercava dovunque pretesti per scatenare la guerra. Per puro caso successe che dei contadini romani andarono a fare razzia di bestiame in territorio albano e quelli della campagna di Alba gli restituirono subito il favore compiendo la stessa prodezza. In quell'epoca Alba era governata da Gaio Cluilio. Entrambe le parti in causa mandarono contemporaneamente degli inviati per riavere il maltolto. Tullo aveva ordinato ai suoi di compiere prima di tutto la loro missione. Era convinto che avrebbe ottenuto un rifiuto. In tal caso sarebbe stato suo diritto dichiarare guerra. I rappresentanti di Alba agirono invece con maggiore flemma. Ricevuti con amabile cortesia da Tullo, onorano con simpatia il banchetto offerto dal re. Nel frattempo quelli di parte romana li avevano presi sul tempo: la richiesta di risarcimento era già stata presentata. Di fronte a un secco rifiuto da parte albana avevano quindi avanzato una dichiarazione di guerra con decorrenza di lì a trenta giorni. Di ritorno a Roma ne riferiscono a Tullo. Questi allora invita i delegati albani a chiarire il motivo della loro missione. Ed essi, non essendo al corrente di nulla, cominciano perdendo tempo in formalità. Si scusarono di dover pronunciare parole probabilmente spiacevoli alle orecchie di Tullo, ma dissero che gli ordini erano ordini. Sostennero di esser venuti a rivendicare il maltolto e che gli era stato ingiunto di dichiarare guerra in caso di rifiuto. A queste parole Tullo replicò: “Andate dal vostro re e ditegli che il re di Roma chiama in causa gli dèi a testimoniare quale dei due popoli abbia per primo sdegnosamente congedato gli ambasciatori inviati a rivendicare quanto razziato, in modo tale che facciano ricadere su di lui tutti i disastri di questa guerra.”» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 22.)
«23 I rappresentanti di Alba se ne tornano indietro a riferire questa risposta. Entrambi i popoli si preparano con grandissimo ardore alla guerra, che si presentava come una vera e propria guerra civile, addirittura quasi uno scontro tra padri e figli: gli uni e gli altri erano di origine troiana in quanto Lavinio era stata fondata da Troia, Alba da Lavinio e i Romani discendevano dai re albani. Tuttavia l'esito della guerra rese lo scontro meno deplorevole: infatti non si combatterono battaglie e, quando le abitazioni di una sola delle due città furono distrutte, i due popoli si fusero in uno. Gli Albani scesero in campo per primi e invasero il territorio romano con un massiccio schieramento di forze. Pongono l'accampamento a non più di cinque miglia da Roma e lo circondano con un fossato (cui, per alcuni secoli, rimase il nome di fossa di Cluilio da quello del comandante, finché, col passare del tempo, scomparvero fossato e nome). In questo accampamento muore il re albano Cluilio e i suoi soldati eleggono dittatore Mezio Fufezio. Nel frattempo, il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla morte del re, sostenendo che l'onnipotenza divina si sarebbe vendicata del nome albano (e il re stesso era solo l'inizio) per la guerra criminale da lui scatenata, evitato nottetempo l'accampamento nemico, andò a riversarsi in territorio albano. Questa manovra costrinse Mezio a uscire dalle sue posizioni. Guidando l'esercito il più velocemente possibile in direzione del nemico, manda avanti un inviato a dire a Tullo che prima dello scontro egli ritiene necessario un colloquio tra i due comandanti in capo. Nel caso l'altro avesse accettato, era sicuro di poter avanzare delle proposte non meno interessanti per i Romani che per gli Albani. Tullo non rifiutò, anche se fece schierare le sue truppe in ordine di battaglia nel caso in cui le proposte si fossero dimostrate prive di interesse. Gli Albani vanno a disporsi dall'altra parte. Finite le manovre di schieramento dei due eserciti, i rispetivi comandanti, scortati da pochi maggiorenti, avanzano verso il centro del campo di battaglia. Il primo a parlare è l'albano: “Le razzie e il bottino non restituito nonostante le esplicite richieste in base al trattato mi sembra siano i pretesti che il nostro re Cluilio indicava come cause di questa guerra, né dubito Tullo che i tuoi siano tanto diversi. Ma se vogliamo dire la verità e non fare tanti giri di parole, è la sete di potere che spinge alle armi due popoli vicini e provenienti dalla stessa stirpe. Non sto a sbilanciarmi se con ragione o torto: la questione riguarda chi ha suscitato la guerra. Io sono soltanto un generale scelto dagli Albani per portare avanti le operazioni. Ma ecco, o Tullo, quello su cui vorrei attirare la tua attenzione: le proporzioni della potenza etrusca, che circonda noi ma soprattutto voi, le conosci meglio tu perché vivi più vicino a loro. Per terra dominano, ma per mare non hanno avversari. Quindi, nel momento in cui darai il segnale di battaglia, ricordati che gli Etruschi staranno a guardare i nostri due eserciti e, non appena saremo allo stremo delle forze, ne approfitteranno per assalire vincitori e vinti. Per questo, agli dèi piacendo, visto che non ci basta la sicurezza della libertà ma preferiamo abbandonarci all'incertezza tra il potere e la schiavitù, vediamo di stabilire quale dei due popoli governerà sull'altro senza grandi disastri e inutili spargimenti di sangue.” La proposta non dispiacque a Tullo, nonostante fosse più incline allo scontro sia per motivi di carattere che per la speranza di vittoria. Mentre entrambe le parti stavano cercando di risolvere la questione, la sorte stessa fornì loro una soluzione.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 23.)
«24 Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi. Pur essendo però un fatto così celebre, permangono ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di Orazi e Curiazi. Gli storici sono divisi, anche se vedo che la maggior parte di essi chiama romani gli Orazi e anch'io propendo per questa tesi. I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Nessuna obiezione. Si stabiliscono tempo e luogo. Prima però di dare il via allo scontro, Albani e Romani stipulano un trattato secondo il quale il popolo i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato un potere incondizionato sull'altro. Ogni trattato ha le sue clausole particolari, ma le procedure sono sempre le stesse. Nella circostanza presente sappiamo che fu strutturato in questi termini (ed è il più antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale rivolse a Tullo questa domanda: “Mi ordini, o re, di stipulare un trattato col pater patratus del popolo albano?” Poiché il re rispose affermativamente, egli proseguì: “Io ti chiedo l'erba sacra.” Il re rispose: “Prendi dell'erba pura.” Allora il feziale andò a raccogliere l'erba pura sulla cittadella. Quindi rivolse al re questa domanda: “Re, mi nomini tu plenipotenziario reale del popolo romano dei Quiriti ed estendi questo carattere sacrale ai miei paramenti e ai miei assistenti?” Il re risponde: “Te lo concedo, purché non debba danneggiare né me né il popolo romano dei Quiriti.” Il feziale, Marco Valerio, nominò pater patratus Spurio Fusio toccandogli la testa e i capelli con un ramoscello sacro. Il compito del pater patratus è quello di pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il trattato. A questo fine egli pronuncia una specie di ampollosa formula liturgica che non vale la pena riportare. Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: “Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpsci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.” Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 24.)
«25 Concluso il trattato, i gemelli, come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni. Gli ricordavano che gli dèi nazionali, la patria e i genitori, nonché tutti i concittadini rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i fratelli, pronti allo scontro non già solo per il tipo di carattere che avevano ma esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzano nello spazio in mezzo alle due schiere. Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non tanto per qualche pericolo imminente, quanto perché era in ballo la supremazia legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro. Così, sul chi vive e col fiato sospeso, si concentrano sullo spettacolo non certo rilassante. Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future della patria che loro soli possono condizionare. Al primo contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. Ma quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria ma cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare battaglia contro uno per volta. Quindi, per separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento. Il Romano gridò esultando: “Ho già offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su Alba.” L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 25.)
«26 Prima di allontanarsi, Mezio, in base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e Tullo gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi.
Jean-François Lagrenée - "Orazio mentre uccide sua sorella Camilla" (1750/1754). Di Philippe Alès, Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/ w/index.php?curid=18775784. |
«27 Ma la pace con Alba non durò a lungo. La gente era scontenta perch le sorti del paese erano state affidate a tre soli soldati. Questo influenzò l'indole volubile del dittatore. Così, visto che la saggezza non aveva avuto troppo successo, per riconquistare la popolarità perduta, egli adottò il metodo della malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva cercato la pace, così adesso in tempo di pace si mise a cercare la guerra. Rendendosi però conto che la sua gente aveva sì coraggio ma ben poca forza, spinse altri popoli a dichiarare guerra apertamente e con tutti i crismi, e riservò ai suoi uomini la possibilità di tradire i Romani mostrando invece di voler essere al loro fianco. Gli abitanti di Fidene, colonia romana, e quelli di Veio (che erano stati messi a parte dei loro piani) vengono spinti a dare il via alle ostilità con la promessa di poter contare sull'appoggio di Alba durante il conflitto. Quando Fidene si ribellò senza mezzi termini, Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e mosse contro il nemico. Attraversato l'Aniene, si accampa alla confluenza dei due fiumi. Invece l'esercito dei Veienti aveva guadato il Tevere in un punto tra quella zona e Fidene. Lo schieramento per la battaglia era questo: all'ala destra, lungo il fiume, i Veienti, mentre alla sinistra, verso le montagne, i Fidenati. Tullo dirige i suoi contro quelli di Veio e piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il coraggio e la lealtà non erano il punto forte del generale albano. Non osando quindi né tenere la posizione né disertare apertamente, prese ad avvicinarsi a poco a poco alla montagna. Quando ritenne di esservisi avvicinato a sufficienza, ancora incerto sul da farsi, fece spiegare le sue forze per guadagnare un po' di tempo. Il suo piano era questo: scendere in campo dalla parte di chi stava avendo la meglio. I Romani che si trovavano più vicini, quando si resero conto di avere i fianchi scoperti per la ritirata degli alleati, rimasero annichiliti. Allora un cavaliere partì al galoppo e andò a riferire al re dell ritirata albana in corso. Tullo, nel pieno della crisi, fa voto di creare dodici Salii e di innalzare dei santuari al Pallore e al Panico. Interpellando il cavaliere ad alta voce, in maniera da poter essere sentito dal nemico, gli ingiunge di tornare in prima linea. Non c'era motivo di panico. Lui stesso aveva ordinato alle truppe di Alba quella manovra di accerchiamento per prendere da dietro i fianchi scoperti dei Fidenati. Fa inoltre ordinare alla cavalleria di alzare le lance. Con questa mossa riuscì a nascondere a parte della fanteria romana la manovra di ripiegamento delle truppe albane. Chi se n'era reso conto si fidò di quel che aveva sentito dal re e si buttò con più foga nella mischia. Il terrore passò così dalla parte dei nemici, sia perché avevano sentito la frase pronunciata ad alta voce dal re, sia perchè gran parte dei Fidenati, avendo avuto tra di loro dei Romani come coloni, sapevano il latino. Quindi, per evitare che un'improvvisa calata degli Albani dal fianco del monte chiudesse loro la strada in direzione della città, tornarono indietro. Tullo li insegue e, sbaragliata l'ala dei Fidenati, rinviene con più impeto su quella dei Veienti, demoralizzati dal panico degli alleati. Anch'essi evitarono lo scontro ma non riuscirono a fuggire alla spicciolata perché si trovarono l'ostacolo del fiume alle spalle. Quando arrivarono lì, alcuni, gettando ignominiosamente le armi, si buttavano in acqua alla cieca, altri, attardatisi sulla riva, nell'indecisione tra il fuggire e il combattere, si facevano uccidere. In nessuna battaglia precedente i Romani versarono così tanto sangue.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 27.)
«28 Fu allora che l'esercito albano, spettatore dello scontro, riguadagnò la piana. Mezio si congratula con Tullo della vittoria sui nemici e Tullo gli risponde cortesemente. Quindi ordina agli Albani (e possa la cosa avere buon fine!) di unire il loro accampamento a quello dei Romani e poi prepara un sacrificio di purificazione per il giorno successivo. Quando all'alba tutto era pronto, convoca in assemblea i due eserciti. Gli araldi, avendo iniziato dal fondo del campo, chiamarono per primi gli Albani che, colpiti dall'assoluta novità della cosa, si andarono a piazzare vicino al re per non perderne il discorso. La legione romana, armata secondo quanto convenuto, li circonda. I centurioni avevano l'ordine tassativo di portare a termine senza indugi quello che gli era stato comandato. Allora Tullo prese la parola e disse: “O Romani, se mai prima di questa volta, in tutte le guerre da voi combattute, avete avuto ragione di rendere grazie prima agli dèi immortali e poi al vostro stesso valore, questo è successo nella battaglia di ieri. Infatti non avete combattuto solo col nemico, ma - e in questo sta la maggiore pericolosità della cosa - avete anche dovuto affrontare il subdolo tradimento degli alleati. Sia dunque chiaro: non è su mio ordine che gli Albani si sono spostati verso la montagna. Quello che avete sentito da me non è stato un mio comando ma una calcolata simulazione: volevo evitare che, rendendovi conto di essere stati abbandonati, vi distraeste dalla battaglia e nel contempo volevo scatenare panico e fuga tra i nemici facendo credere loro di essere stati aggirati. E non tutti gli Albani sono responsabili del crimine in questione: hanno seguito il loro comandante, come avreste fatto anche voi se vi avessi ordinato una qualche manovra sul campo. È Mezio che ha guidato quella diversione. Lo stesso Mezio che ha architettato questa guerra, lo stesso Mezio che ha infranto il trattato tra Romani e Albani. Che qualcun altro possa di qui in poi ripetere una simile prodezza, se io di costui non farò un clamoroso esempio per l'intero genere umano.” Quindi i centurioni, armi alla mano, circondano Mezio, mentre il re, con lo stesso tono con cui aveva iniziato, riprese: “Che la prosperità e la buona sorte siano col popolo romano, con me e anche con voi, o Albani. È mia intenzione trasferire tutta la gente di Alba a Roma, concedere la cittadinanza alle classi subalterne, eleggere senatori i nobili e avere una sola città e un solo stato. Come un tempo la civiltà albana fu divisa in due popoli, possa oggi riacquistare la sua unità.” A queste parole, i giovani albani, disarmati e circondati da armati, benché divisi nelle reazioni individuali al discorso, erano tuttavia uniti nel silenzio dovuto alla paura unanime. Allora Tullo disse: “Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispeto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.” Quindi chiede due quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel mezzo. Poi incita i cavalli in direzioni diverse: ciascun carro si trascinò via pezzi del corpo maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo vincolavano da ambo le parti. Tutti distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quella fu la prima e ultima volta che i Romani ricorsero a un tipo di pena contraria a ogni umana legge. Per il resto possiamo infatti vantarci di non essere secondi a nessun popolo nella clemenza delle pene inflitte.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 28.)
«29 Frattanto, vennero mandati ad Alba dei cavalieri per trasferire a Roma la popolazione. A essi seguirono poi le legioni per distruggere la città. Quando ne superarono le porte, non ci fu, a dire il vero, quel fuggi fuggi terrorizzato che è classico delle città conquistate, quando il nemico fa breccia negli ingressi, abbatte le mura a colpi d'ariete, assalta la cittadella e poi dilaga per le strade mettendo ogni cosa a ferro e fuoco in un boato di urla e di armi. Niente di tutto questo: solo un lugubre silenzio e un dolore senza voce. Tutti erano così depressi che, in balia della paura, non avevano più la lucidità di decidere cosa abbandonare lì e cosa portarsi dietro e si interpellavano a vicenda ora immobili di fronte alle porte, ora in un abulico vagare dentro le case che avrebbero visto per l'ultima volta. Poi, quando ormai i cavalieri gli urlavano di sbrigarsi a uscire, quando già si iniziava a sentire il fragore delle prime case demolite nei sobborghi e il polverone dei crolli nei quartieri lontani aveva coperto ogni cosa come una nuvola bassa e diffusa, allora ciascuno cercava di afferrare ciò che poteva uscendo dalla casa in cui era nato e cresciuto e in cui doveva lasciare lari e penati. Subito le strade si riempirono di una fila interminabile di sfollati i quali, specchiandosi nello stato miserando dei propri consanguinei, ricominciarono a piangere e urla strazianti di dolore (erano soprattutto donne) si levarono quando passarono davanti ai templi piantonati dai soldati armati in quanto sembrò loro di lasciare le divinità in mano al nemico. I Romani fanno uscire gli Albani dalla città e poi radono al suolo tutti gli edifici, pubblici e privati, e in un'ora soltanto azzerano i quattrocento anni di storia che Alba aveva alle spalle. L'unica cosa risparmiata, secondo le disposizioni del re, furono i templi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 29.)
«30 Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate. Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono anch'essi a cercare aiuti dall'estero. Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall'opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo. Mentre l'una e l'altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d'urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30.)
«31 Dopo la disfatta inflitta ai Sabini, e quando ormai il regno di Tullo e la potenza romana avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, ecco che venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre. Siccome la cosa non era molto verisimile, furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Essi riferirono di aver visto coi loro occhi una spessa pioggia di pietre che cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra. Nel bosco che c'è in cima alla vetta era sembrato loro anche di sentire una voce possente la quale ordinava agli Albani di celebrare, secondo il rito tradizionale, i sacrifici che essi avevano lasciato cadere nell'oblio quando, con la città, avevano abbandonato anche i loro dèi e adottato culti romani o, come spesso succede, rinnegato i propri per un risentimento nei confronti del destino. Anche i Romani, a seguito di questo prodigio, proclamarono una novena ufficiale, sia per la voce celeste emessa dal monte Albano (così vuole la tradizione), sia su consiglio degli aruspici. In ogni modo, rimase un'usanza abituale: ogni qual volta si fosse ripetuto un fenomeno analogo, sarebbero seguiti nove giorni di festa. Non molto tempo dopo Roma fu colpita da un'epidemia cui fece seguito una riluttanza alle prestazioni militari. Ciò nonostante, il bellicoso re Tullo non dava tregua ai suoi sudditi, persuaso com'era che le esercitazioni militari fossero più salutari ai fisici dei giovani che l'aria di casa. Finché lui stesso non fu colpito da una malattia dal lungo decorso. E allora l'infermità ne minò simultaneamente il corpo e l'indole bellicosa a tal punto che uno come lui, in passato convintissimo che nulla fosse più indegno per un re che occuparsi della sfera religiosa, improvvisamente divenne vittima di ogni forma di piccola e grande superstizione e prese a imbottire la sua gente di scrupoli religiosi. Tutti ormai reclamavano un ritorno allo stato delle cose ai tempi di Numa, pensando che l'unico rimedio alla deperibilità dei loro corpi consistesse nella benevolenza e nel perdono degli dèi. Il re stesso, così vuole la tradizione, poiché consultando le memorie di Numa aveva trovato menzione di certi sacrifici occulti praticati in onore di Giove Elicio, vi si dedicò in segreto. Il fatto è che commise qualche errore nel preparare o nel celebrare il rito e quindi, non solo non ebbe alcuna visione divina, ma suscitò anche l'ira di Giove il quale, irritato dalla profanazione del culto, incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo. Comunque, il glorioso regno di questo re guerriero durò trentadue anni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 31.)
Anche l'anno successivo a quello della distruzione di Alba, i Fidenati scesero in battaglia contro Roma, ma vennero ancora una volta sconfitti e i loro capi uccisi. Tullo Ostilio si impegnò anche in una guerra contro i Sabini. Fu durante il suo regno che, nell'area del Foro che in seguito sarebbe stata utilizzata per i Comizi, fu costruita la Curia Hostilia, che divenne il luogo deputato alle riunioni dei senatori, che prima di allora si riunivano all'aperto.
In seguito i romani furono impegnati in 5 anni di combattimenti contro le città Latine, che si opponevano alla pretesa di Roma di governare sopra di esse per aver sconfitto Alba. In effetti non si trattò che di schermaglie, e l'unico fatto davvero cruento fu la presa di Medullia, già colonia romana, ribellatasi alla madrepatria.
Dopo gli anni di Romolo ed il pacifico regno di Numa Pompilio, che aveva iniziato a dare forma alla parte spirituale della città, con Tullo Ostilio la tregua con Veio, pur se a fatica, resse anche se, approfittando dei postumi della conquista e distruzione di Albalonga, la pressione dei Sabini su Roma favorì il radunarsi di una certa quantità di volontari etruschi a Veio, per poter approfittare della situazione, anche se «Ufficialmente non fu dato alcun aiuto perché era ancora valido presso i Veienti il patto di tregua stipulato con Romolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30, op. cit.)
La leggenda dice che Tullo era così occupato in una guerra dopo un'altra che aveva trascurato ogni servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté sui Romani. Anche Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per avere il suo favore ed il suo aiuto e la risposta del dio fu un fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re e ridusse la sua domus in cenere, dopo trentadue anni di regno.
Ciò fu visto dai Romani come un'indicazione di scegliere meglio il nuovo re, un re che seguisse l'esempio pacifico di Numa Pompilio e scelsero Anco Marzio, il nipote di Numa Pompilio.
Tullo Ostilio va considerato semplicemente come il duplicato di Romolo. Entrambi sono eletti fra i pastori, continuano la guerra contro Fidene e Veio, aumentano il numero dei cittadini, organizzano l'esercito e spariscono dalla terra durante una tempesta.
Dionigi d'Alicarnasso in Antichità romane invece ci racconta un'altra possibile morte di Tullo Ostilio; infatti ci dice che Anco Marzio, prima al servizio di Tullo Ostilio, anelasse diventare rex e con alcuni sicari fosse andato nella casa di Tullo Ostilio e l'avesse ucciso e poi avesse raccontato alla gente la storia del fulmine caduto nella Domus Hostilia, e in un primo tempo il popolo non gli credette. Ma sottolinea anche il fatto che la storiografia elogia Anco Marzio come buono e pacifico rex (in contrasto con la tradizione che lo vorrebbe assassino e assetato di potere per ottenere la posizione di rex), perciò ritiene possibile anche la caduta accidentale di un fulmine in casa di Tullo Ostilio.
Poiché Romolo e Numa Pompilio rappresentano le tribù dei Ramnes e dei Tities, così per completare la lista dei quattro elementi tradizionali della nazione, Tullo è il rappresentante della tribù dei Luceres e Anco Marzio è il fondatore della Plebe.
Anco Marzio, di Guillome Rouille (1518?-1589) https:/ /commons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=8645047. |
Con il regno di Anco Marzio, i cent'anni di tregua fra Roma e Veio erano di certo scaduti. Infatti si legge in Livio che uno dei metodi del re romano per ingrandire lo Stato, oltre alla deportazione a Roma delle genti latine sconfitte, fu l'acquisizione territoriale: «la Selva Mesia, strappata ai Veienti, fece arrivare il dominio romano fino al mare. Alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia e tutt'intorno vennero create delle saline.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33, op. cit.). Si assistette così alla graduale spoliazione del territorio veiente e ad un sovrapporsi di Roma nella produzione e nel commercio del sale. La creazione di Ostia alla foce del fiume mostrò come il controllo del Tevere fosse determinante per la ricchezza delle città etrusche dell'interno.
Quindi, dopo altri due anni di guerre infruttuose con i Latini, i Romani conquistarono e saccheggiarono Fidenae (attuale Fidene, III Municipio) e respinsero anche razziatori Sabini, che avevano compiuto scorrerie nei possedimenti romani lasciati sguarniti. Poi, qualche anno dopo, i Romani combatterono e vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus salinarum) contro la città di Veio, che pretendeva di riottenere i possedimenti persi all'epoca di Romolo, e l'anno seguente ebbero la meglio anche sui Volsci che, dopo aver razziato le campagne romane, si erano ritirati dentro le mura di Velitrae all'apparire dell'esercito romano.
Anco Marzio aggiunse così alla città di Roma, oltre all'Aventino, che cinse all'interno delle mura cittadine e popolò con le popolazioni latine deportate a Roma (tra le quali quelle di Tellenae e Politorium), anche il Gianicolo, e probabilmente anche il Celio.
Il Velabro, dove si insediò il porto Tiberino, da https://it.wiki pedia.org/wiki/Campidoglio#/ media/File:7ColliSchizzo.jpg. |
Ristabilì le cerimonie religiose istituite da Numa. A lui si fa discendere la definizione dei riti che dovevano essere seguiti dai Feziali, affinché la guerra dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere quindi una "guerra giusta".
I 7 colli di Roma, da ht tps://it.wikipedia.org/w iki/Campidoglio#/m edia/File:7Colli Schizzo.jpg. |
Anco Marzio sarebbe stato quindi, per alcuni, soltanto un duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non essendo niente altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote.
Ricostruzione del ponte Sublicius. Licenza: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Po ns_Sublicius_-_Project_Gutenberg_eText _19694.jpg#/media/File:Pons_Sublicius _-_Project_Gutenberg_eText_19694.jpg. |
Racconta Tito Livio: «34 Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall'ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a seguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio (= partorito, gettato fuori N.d.R.) in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest'onta, mise da parte l'attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un'aquila planò su di loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi sparì nell'alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell'uccello, della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un dio. Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. E il re non lo apprezzò per quel che era finché la generosità e l'efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 34.)
«35 Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile. I suoi figli erano ormai quasi degli uomini fatti e per questo Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo dell'assemblea popolare per l'elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli mandò i ragazzi a una battuta di caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a impegnarsi in una campagna per il trono e che pronunciò un discorso puntato a conquistare il favore popolare. Disse che il suo caso non era privo di precedenti e, per evitare che qualcuno potesse stupirsi e indignarsi, che lui non sarebbe stato il primo bensì il terzo straniero a puntare al trono di Roma. Tazio, addirittura, non solo era un re forestiero, ma proveniva da un paese nemico e Numa, pur non conoscendo affatto Roma e non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. Quanto a se stesso, dal giorno in cui era diventato padrone della propria persona, era venuto a stabilirsi a Roma con la moglie e tutto quello che possedeva. E la parte di vita che di solito si dedica all'adempimento dei propri doveri di cittadini, lui l'aveva trascorsa a Roma e non nella sua città natale; quanto alla sfera civile e a quella militare, aveva appreso il diritto e i culti religiosi romani da un maestro assolutamente fuori del comune, cioè il re Anco in persona. Il suo ossequio e il suo rispetto per la persona del re non erano inferiori a quelli di nessuno; quanto poi a generosità verso il prossimo, solo il re stesso lo era stato più di lui. Il popolo romano, sentendo che non mentiva elencando questi aspetti, lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono, non tradì tutti i sani principi morali che aveva pubblicizzato quando si era autocandidato. Impegnandosi non meno a rinforzare il proprio regno che a consolidare la potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori, noti di lì in poi come di secondo ordine, i quali divennero incrollabili sostenitori del re al cui favore dovevano la loro nomina in senato. La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d'assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Divise tra senatori e cavalieri dei lotti di terra perché si costruissero dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli. Detti palchi ebbero il nome di fori e poggiavano su sostegni sollevati di dodici piedi dal livello del terreno. La manifestazione ruotò intorno a gare di equitazione e a incontri di pugilato con atleti per la maggior parte etruschi. Da quell'occasione i giochi rimasero uno spettacolo regolarmente allestito ogni anno e a seconda dei casi vennero chiamati Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre Tarquinio a dividere tra i privati cittadini appezzamenti di terreno edificabile intorno al foro, i quali vennero utilizzati per la costruzione di portici e negozi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 35.)
Come Numa Pompilio, Anco Marzio morì di morte naturale dopo ventiquattro anni di regno (nel 616 a.C.), di malattia secondo altri, lasciando due figli, uno dei quali ancora fanciullo, che non poterono succedere al padre come re, per come Tarquinio aveva orchestrato la propria candidatura al trono, e succedette infatti ad Anco.
Lucio Tarquinio Prisco, di Guillaume Rouille (1518?- 1589), https://commons.wi kimedia.org/w/index.php? curid=8652737. |
In città Tarquinio si fece notare per le sue qualità e la sua generosità, tanto che re Anco Marzio volle conoscerlo e, una volta divenuto amico, prima lo fece entrare tra i suoi consiglieri, poi decise di adottarlo, affidandogli il compito di proteggere i suoi figli. Secondo alcuni studiosi come Giuseppe Valditara, ricoprì anche la carica di magister populi. Alla morte del re, Tarquinio riuscì a farsi eleggere re dal popolo romano abusando del prestigio che Anco Marzio gli aveva conferito, nominandolo tutore dei propri figli, che Tarquinio si assicurò di allontanare quando promosse la propria candidatura al trono.
L'abilità militare di Lucio Tarquinio Prisco fu messa alla prova fin dall'inizio del suo regno da un attacco sferrato dai Sabini; l'attacco fu respinto dopo sanguinosi combattimenti nelle strade della città, portando non pochi territori di queste genti vinte sotto il controllo di Roma. Fu in questa occasione che fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù (Ramnes, Tities e Luceri) doveva fornire all'esercito, portando così il totale dei cavalieri a 600.
Tarquinio combatté poi i Latini, distrusse Apiolae e conquistò Crustumerium, Nomentum e Collatia, che diventò una colonia romana governata dal nipote Egerio.
Quindi combatté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle e Vetulonia, corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica, con i Latini che ottennero la pace dietro il pagamento dei danni e la restituzione di quanto depredato.
Gli scontri continuarono anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che occuparono Fidenae con una propria guarnigione per poi continuare gli scontri. Gli scontri tra i Romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni e si risolsero con un grande scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinto dai romani. In seguito a questo scontro gli etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città, Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.
Tarquinio riformò lo stato raddoppiando il numero di senatori, dai 100 membri romulei a 200, e secondo alcuni aumentò il numero dei membri dell'assemblea centuriata a 1.800 componenti, anche se per la maggior parte delle fonti storiche, quell'assemblea sarà istituita da Servio Tullio.
Lucio Tarquinio Prisco attuò una riforma che riguardò la classe dei cavalieri, raddoppiandone il numero delle centurie (fino ad allora in numero di tre) a cui diede il nome di posteriores, non potendo dargli il suo nome a causa di Attio Navio, portando così il totale dei cavalieri a 600. Alcuni studiosi pensano che potessero essere le famose sex suffragia, anche se per altre fonti, con sex suffragia si indicavano le sei centurie di èquites equo publico, che aprivano la votazione nei comìtia centurìata introdotti con la riforma timocratica operata da Servio Tullio.
Ai danni di Tarquinio Prisco, è rimasta celebre l'interferenza di un certo Attio Navio ad aumentare, attribuendogli il suo nome, i contingenti di cavalleria nell'esercito.
Narra Tito Livio: «36 Stava anche preparandosi a dotare Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra coi Sabini si sovrappose ai suoi progetti. La cosa fu così improvvisa che i nemici attraversarono l'Aniene prima che l'esercito romano potesse mettersi in marcia e andargli a chiudere il passaggio. A Roma fu subito il panico. Sulle prime l'esito dello scontro fu incerto ed entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico rientrò nell'accampamento, dando così ai Romani la possibilità di riorganizzarsi da capo per la guerra. Tarquinio pensava che le sue truppe avessero particolari carenze nei reparti di cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il suo nome. Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna consultazione augurale e Atto Navio, famoso augure di quegli anni, disse che non si potevano apportare modifiche o introdurre innovazioni nella struttura dell'esercito senza l'approvazione degli uccelli. Il re reagì stizzito e, per ridicolizzarne la presunta scienza, disse: “Avanti, visto che sei un veggente, chiedi un po' ai tuoi uccelli se si può mettere in pratica quello a cui sto pensando in questo momento!” E quando Atto, dopo aver consultato il volo degli uccelli, disse che la cosa si sarebbe avverata di sicuro, il re ribatté: “Ben fatto! Il problema è che io stavo pensando che tu riuscissi a tagliare in due una pietra con un rasoio. Prendi i due oggetti e vedi di fare quello che secondo i tuoi uccelli è possibile.” Pare che a quel punto l'augure, senza un attimo di esitazione, tagliò in due la pietra. C'era una statua di Atto in piedi a capo velato nel luogo del miracolo, in pieno comizio e proprio sulle scale che portano alla parte sinistra della curia. Dicono che anche la pietra fu collocata nello stesso punto per ricordare il prodigio ai posteri. Sta di fatto che gli auguri e la loro professione acquistarono in seguito un tale prestigio, che tanto in pace quanto in guerra non si prese più nessuna iniziativa senza prima aver tratto gli auspici: assemblee popolari, chiamate alle armi, pratiche di estrema importanza, tutto veniva rimandato se non si aveva l'approvazione degli uccelli. Così nemmeno Tarquinio apportò delle modifiche alla procedura nel caso presente delle centurie di cavalleria: raddoppiò il loro numero di effettivi in maniera tale da avere milleottocento cavalieri distribuiti in tre centurie (??? N.d.R.). Mantennero lo stesso nome delle centurie dove erano stati arruolati, salvo assumere la denominazione di Posteriori. Oggi, visto che ne sono state aggiunte altre tre, si chiamano le sei centurie.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 36.)
«37 Una volta rinforzata questa parte dell'esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini. Ma, oltre che dall'incremento di effettivi, l'esercito romano fu aiutato anche da un astuto espediente: alcuni uomini vennero inviati a raccogliere una gran massa di fascine lungo la riva dell'Aniene e a gettarle nel fiume dopo avervi dato fuoco. La legna incendiata, spinta dal vento a favore, andò a finire per lo più sulle barche e sui supporti in legno del ponte che prese fuoco. Lo stesso espediente seminò il panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la ritirata quando poi cominciò il fuggi fuggi. Molti riuscirono a evitare il nemico ma morirono nel fiume. Parte delle loro armi, galleggiando sull'acqua, furono riconosciute nel Tevere e diedero a Roma la notizia della grande vittoria ancora prima che arrivassero i messaggeri ad annunciarla. I protagonisti assoluti di questa battaglia furono i cavalieri: collocati ai due fianchi dei reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga. I Sabini si sparpagliarono disordinatamente verso le montagne, ma solo pochi di essi le raggiunsero. La maggior parte, come già detto prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri. Tarquinio, pensando fosse opportuno insistere mentre gli avversari erano in preda al panico, inviò a Roma bottino e prigionieri; quindi, per realizzare un voto fatto a Vulcano, diede ordine di accatastare la grande quantità di armi sottratte al nemico e di darvi fuoco. Poi, alla testa dell'esercito, invase il territorio sabino. Nonostante la brutta batosta e le poche speranze di ribaltare le sorti ormai compromesse della battaglia, i Sabini, non avendo tempo a sufficienza per ponderare una decisione, scesero in campo con i resti raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti per una seconda volta e allo stremo delle forze, chiesero la pace.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 37.)
«38 Ai Sabini furono tolti Collazia e il territorio oltre Collazia. A governarla con una guarnigione rimase Egerio, nipote di Tarquinio. A quanto ne so, ecco in che termini e come avvenne la resa dei Collatini. Il re chiese: “Siete voi i legati e i portavoce mandati dai Collatini con l'incarico di consegnare voi stessi e il popolo collatino?” “Sì.” “Il popolo collatino è padrone di se stesso?” “Sì.” “Consegnate dunque voi stessi e il popolo collatino, la città, le campagne, l'acqua, i confini, i templi, la mobilia, e tutti gli oggetti sacri e profani all'autorità mia e del popolo romano?” “Sì.” “E io accetto.” Conclusa così la guerra coi Sabini, Tarquinio rientra a Roma in trionfo. In seguito combatté coi Latini Prischi, da cui poi prese il nome. Ma durante questa guerra non si arrivò mai a uno scontro veramente decisivo: accerchiando, invece, di volta in volta le singole città, sottomise tutti i Latini. Furono conquistate: Cornicolo, Ficulea Vecchia, Cameria, Crustumeria, Ameriola, Medullia, Nomento, tutte città dei Latini Prischi o passate dalla loro parte durante la guerra. Poi fu conclusa la pace. In seguito il re si dedicò a massicce opere di pace con maggiore impegno di quanto ne avesse profuso nell'organizzare le guerre. Lo scopo era quello di evitare che la sua gente fosse meno impegnata adesso che ai tempi delle campagne militari. Così si ricomincia la fortificazione in pietra - abortita sul nascere per lo scoppio della guerra coi Sabini - di quella parte di Roma che ne era ancora priva. Poi, con un sistema di condotti in discesa verso il Tevere, fa bonificare le parti basse della città, le zone intorno al foro e le valli tra i colli, perché non era possibile far defluire le acque per la natura eccessivamente pianeggiante del terreno. Infine, già anticipando l'importanza che un giorno il luogo avrebbe assunto, fa gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta di un tempio che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in onore di Giove.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 38.)
«39 In quel periodo il palazzo reale assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta da fiamme. Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la famiglia reale. Un servitore portò dell'acqua per spegnere le fiamme, ma la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso intimando di non toccare il bambino finché non si fosse svegliato da solo. Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli disse: “Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi. Quindi vediamo di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e per noi stessi.” Da quel momento in poi essi presero a trattarlo come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in genere portano a concepire grandi ideali. La cosa non fu difficile perché la volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero reggere al confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia. Questo grandissimo onore, per qualsivoglia natura conferitogli, impedisce di credere che egli fosse figlio di una schiava e schiavo lui stesso nella prima infanzia. Io sono più dalla parte di chi sostiene questa tesi: caduta Cornicolo, la moglie incinta di Servio Tullio, ucciso durante l'assedio e massima autorità cittadina, finì a Roma con le altre prigioniere. Qui la regina ne riconobbe i segni inconfondibili della nobiltà e non solo impedì che andasse a fare la schiava, ma le permise anche di mettere al mondo il suo bambino nel palazzo di Tarquinio Prisco. In seguito un simile gesto fece germogliare l'amicizia tra le due donne, e il bambino, come se fosse nato e cresciuto nella reggia, fu trattato con stima e affetto. È probabile che la tesi della sua origine servile fu costruita sulla sorte della madre, fatta prigioniera dal nemico dopo la rotta della città d'origine.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 39.)
Fu Tarquinio che per primo celebrò un trionfo su un cocchio dorato a quattro cavalli in Roma, vestito con una toga ricamata d'oro ed una tunica palmata (con disegni di foglie di palma), vale a dire con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l'autorità del comando. E sempre a lui si deve l'introduzione in città di usanze tipicamente etrusche, relative alla sua posizione regale, come i riti sacrificali, la divinazione, la musica per le pubbliche manifestazioni, le trombe (tubae), gli anelli, lo scettro, il paludamentum, la trabea, la sella curule, le falere, la toga pretesta, i fasci littori e le asce. Grazie alle fortunate guerre intraprese contro le vicine popolazioni, riuscì a rimpinguare le casse statali con i ricchi bottini depredati alle città sconfitte. E sembra che decise di dotare la città di Roma di nuove mura.
Si occupò anche dei giochi della città, erigendo il Circo Massimo e destinandolo come sede permanente delle corse dei cavalli, istituendo i ludi Romani; prima di allora gli spettatori assistevano alle gare, che qui si svolgevano, seduti da postazioni di fortuna.
In seguito a forti alluvioni, che interessarono specialmente le zone dove sarebbe sorto il futuro Foro Romano, fece poi iniziare la costruzione della Cloaca Massima. A lui si deve poi l'inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino sul colle del Campidoglio.
A Tarquinio Prisco si deve l'inizio della costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio, si realizza la bonifica delle zone paludose del territorio romano con la costruzione delle cloache, canali per convogliare l'acqua stagnante verso il Tevere e la scelta del Campidoglio come centro religioso - e quindi politico - della città.
Lazio arcaico nel 600 a.C., da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/8/89/. Albe_planlatium.jpg |
I monumenti mostrano che anche i cavalieri romani seguivano la generale tendenza delle cavallerie di tutti i popoli d'Italia ad adottare l'armamento greco: conservarono però l'ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo (parma). È attestato anche per Roma l'uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l'altro per lo scudiero; e forse dagli scudieri degli equites si era a un certo momento sviluppata quella cavalleria leggera dei ferentarii, armati di iacula, una piccola lancia, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall'esercito romano almeno prima dell'età di Polibio, forse già nel secolo III. L'opinione del Helbig, che gli antichissimi equites non fossero che una fanteria pesante montata, che si giovava dei cavalli per spostarsi più rapidamente e più agevolmente, è, se formulata troppo rigidamente, eccessiva.
Lucio Tarquinio infine, fu assassinato da sicari assoldati dai figli di Anco Marzio, che probabilmente, oltre che punirlo per come si era comportato con loro, ambivano a sedersi sul trono che era stato di loro padre. La moglie Tanaquil fece in modo che fosse designato come successore il loro genero Servio, visto che il figlio Lucio Tarquinio (il Superbo) era minorenne. Servio Tullio le promise che avrebbe lasciato il trono a loro figlio quando questi avesse raggiunto la maggiore età, cosa che non fece e che gli costò poi la vita, visto che Lucio Tarquinio il Superbo e sua moglie Tullia, figlia di Servio, ne provocarono la morte.
Dopo l'ascesa al trono di Servio Tullio del 578 a.C., i due figli di Anco Marzio, che avevano assoldato i sicari di Tarquinio Prisco, si ritirarono in esilio a *Suessa Pometia.
Servio Tullio, di Guillaume Rouille (1518?-1589) https: //commons.wikimedia.org/w /index.php?curid=7995002. |
«41 Mentre quelli del seguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe. Poi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos'era successo. Tanaquil, nel pieno della calca, ordina di chiudere la reggia e fa uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procura il necessario per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente però, nel caso la speranza fosse venuta meno, prende altre precauzioni. Fa subito chiamare Servio, gli mostra il corpo quasi esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implora di non lasciare impunita la morte del suocero né di permettere che la suocera diventi lo zimbello dei nemici. “Se sei un uomo, Servio,” gli dice, “è a te che tocca il regno e non ai mandanti di questo atroce delitto. Animo, quindi, e affidati agli dèi che con quel fuoco intorno alla tua testa hanno già voluto preannunciare la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di trarre forza da quella fiamma! Adesso è ora di svegliarsi sul serio. Eravamo degli stranieri anche noi, eppure siamo arrivati a regnare: pensa a quello che sei, non a dove sei nato. Se per gli avvenimenti improvvisi non sai che decisione prendere, allora dai retta ai miei consigli.” Quando il frastuono e la ressa della gente toccarono il limite estremo della tollerabilità, Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in profondità. Inoltre la ferita era stata esaminata, l'emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto. Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re. Servio avanza con tanto di trabea e di littori, occupa la sedia del re ed emana verdetti a proposito di alcuni casi, fingendo invece di dover consultare il sovrano per altri. In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo già Tarquinio passato a miglior vita, egli ne nascose la morte facendosi passare per un mero sostituto, quando invece stava consolidando il suo potere. Dopo un po' di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu il primo a regnare senza il consenso popolare ma solo con l'autorizzazione del senato. I figli di Anco, quando dopo l'arresto dei sicari da loro prezzolati vennero a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto favore, si erano già ritirati in volontario esilio a Suessa Pomezia.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 41.)
«42 Servio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alla sua abilità nel muoversi all'interno della sfera privata. Così, onde evitare che l'odio nutrito dai figli di Anco nei confronti di Tarquinio divenisse lo stesso sentimento nei suoi rapporti con la prole di Tarquinio stesso, diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte Tarquinio. Ciò nonostante, con la sua dimostrazione di assennatezza, non riuscì a infrangere l'ineluttabilità del destino: l'invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri della casa reale. Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti (la tregua era ormai scaduta) e con altre popolazioni etrusche. In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritorna a Roma, conscio di essere ora in una posizione che non si prestava più a critiche né da parte dei senatori né da parte del popolo. Quindi si occupa di ciò che aveva la precedenza assoluta in campo civile: come Numa aveva codificato i regolamenti in materia di religione, così Servio è passato ai posteri per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. Stabilì, cioè, il censo, cosa utilissima per un regno destinato a enormi ampliamenti, col quale i carichi fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito. Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42.)
L'imperatore Claudio, che aveva avuto come prima moglie un'etrusca, aveva scritto un'opera, andata perduta, sugli Etruschi. Da https://storieromane.altervista.org/biografie/eta-regia-753-509-a-c/servio-tullio/: Grazie ad un celebre discorso tenuto in senato dall’imperatore Claudio riguardo la cittadinanza, sappiamo del nome etrusco di Servio Tullio, Mastarna, che potrebbe derivare dal latino magister più il suffisso -na, che indica un'appartenenza. Servio sarebbe stato il servitore di Celio Vibenna, etrusco che aveva conquistato Roma. Mastarna, in seguito alla morte di Celio (cui sarebbe stato dedicato l’omonimo colle), si sarebbe sbarazzato di Aulio Vibenna, fratello di Celio, restando unico padrone della città.Carta dell'antica Roma nel 600 a.C., con mura serviane, da https://www.romanoimp ero.com/2011/10/mura- serviane.html. |
Statuetta romana di Mater Matuta, da https://it.wikipe dia.org/wiki/Mate r_Matuta#/media/ File:Roman_ter racotta_mother_ goddess_1.JPG. |
Nell'antica Roma, la tradizionale ripartizione dei cittadini in tribù stabilita da Romolo, faceva riferimento all'appartenenza gentilizia e raggruppava quindi nella stessa tribù, le nobili gentes della stessa etnia. La gens (pl. gentes) era un gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune e praticava culti comuni. Secondo la convenzione dei nomi romani, i membri di una gens condividevano lo stesso nomen gentilizio, mentre i suoi differenti "rami", le famiglie (familiae), portavano un differente cognomen (o soprannome) per distinguersi. Ad esempio la gens Cornelia comprendeva sia i Cornelii Scipiones che i Cornelii Balbi, i Cornelii Lentuli ecc. ecc.
Servio Tullio adeguò invece le tribù ai territori in cui erano stanziate, non distinguendole per discendenze gentilizie o etnie. Creò così quattro nuove tribù urbane: Palatina (nel territorio del colle Palatino), Suburana (nel territorio del colle Celio), Esquilina (nel territorio del colle Esquilino) e Collina (nel territorio del colle Quirinale) e diciassette tribù rustiche (extra-urbane), dando così vita ai Comizi tributi (Comitia Populi Tributa), le assemblee comprendenti sia i patrizi che i plebei di ogni tribù, distribuite territorialmente, nelle quali i cittadini romani venivano convocati per scopi elettorali e amministrativi. Come per i comizi centuriati il voto era indiretto, con un voto assegnato ad ogni tribù. I comizi tributi erano organizzati su base territoriale e si riunivano presso la sorgente Comizia, nel Foro Romano, ed eleggevano gli Edili (solo quelli curulis), i Questori e altri magisteri. La composizione di questo comizio andò aumentando nel tempo, con l'accrescersi del numero di tribù, dalle quattro dei primi comitia, alle 35 definitive del 241 a.C.
Considerato il secondo fondatore di Roma, Servio Tullio modificò l'assetto politico-militare di Roma con la riforma timocratica (la timocrazia, dal greco timokratìa composto da timè = onore e kratìa = governo, è un tipo di governo in cui diritti e doveri del cittadino sono stabiliti secondo classi censitarie, cioè in base ai redditi e/o capitali posseduti). Il sesto re di Roma introdusse il principio del censo, suddividendo i Romani per patrimonio, dignità, età, mestiere e funzione, così da creare cinque classi economiche che avevano il dovere di servire militarmente la patria (la terra dei padri) assolvendo le leve militari e il diritto di voto nei comizi Centuriati. In questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutarne il patrimonio e quindi valutare il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato e stabilire inoltre, alla luce del censo posseduto, la classe di appartenenza sia nei comizi centuriati che nell'esercito.
Il nuovo corpo civico era ora composto, oltre che dai comizi curiati, le assemblee dei maschi adulti delle nuove tribù territoriali e i recenti comizi tributi, dai nuovi comizi centuriati, le assemblee delle centurie che costituivano le cinque classi in cui erano suddivisi i cittadini, in base al loro censo.
Servio Tullio si era reso conto che, per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste, era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva, visto che l'esercito romuleo era costituito solo dalla nobiltà in un'unica legione, di circa 3.000 fanti e 300 cavalieri.
Si deve rilevare quindi che Livio e Dionisio abbiano descritto l'ordinamento centuriato con 193 centurie in una fase nella quale era già venuta meno l'eventuale originaria funzione delle centurie come distretti di leva e che la struttura primordiale fosse molto più semplice. Non è assurdo supporre che la distinzione fra seniores e iuniores non sia originaria (come ha sostenuto Beloch) e inoltre l'uso, corrente anche in età avanzata, di chiamare 'classici' i pedites della prima classe e 'infra classem' i rimanenti, può far pensare che nei primordi vigesse soltanto questa distinzione elementare, sicché 80 sole centurie (40 di classici e 40 infra classem) fornissero i contingenti alla fanteria. Se poi si pensa che prima della presa di Crustumerium (circa 450 a.C.) le tribù erano venti, la commensurabilità fra tribù e centurie sarebbe stata stabilita almeno per un periodo iniziale.
Ma una siffatta ipotesi urterebbe con il fatto che proprio l'ordinamento descritto dagli antichi è condotto in ogni particolare sulla falsariga di un esercito di due legioni. Le centurie di iuniores delle prime tre classi darebbero 6.000 uomini di armatura pesante (3.000 per legione): le classi quarta e quinta darebbero 2.500 uomini di armatura leggera, con una minima differenza in più rispetto ai 1.200 per legione. Solo i seicento cavalieri delle legioni disporrebbero di un numero triplo di unità comiziali: ma il punto di partenza dei 600 è evidente nella posizione privilegiata dei sex suffragia, i cavalieri di ordine pubblico. In quest'ordine di idee, preferiamo ritenere che l'ordinamento attribuito a Servio Tullio non abbia mai avuto rapporto con la leva, anzi abbia distribuito i partecipanti al comizio ad imitazione della distribuzione delle forze nell'esercito.
Quanto alla data approssimativa dell'ordinamento centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.
Dopo aver vinto gli etruschi, così come il predecessore Tarquinio Prisco, anche Servio si dedicò ad opere di pace e alla ristrutturazione fisica e organizzativa della città.
Così narra Tito Livio in "Ab Urbe Condita libri" I: «46 Servio, col tempo e con l'uso, era ormai incontestabilmente padrone del potere. Ciò nonostante, sentendo che il giovane Tarquinio continuava a mettere in circolazione la voce che il suo regno non aveva avuto il beneplacito del popolo, si conciliò prima il favore della plebe distribuendo a ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei suoi confronti. Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era stato eletto con una simile unanimità di consensi. Nemmeno questo episodio ridusse in Tarquinio la speranza di impadronirsi del regno. Al contrario, essendosi reso conto che la distribuzione di terre alla plebe aveva incontrato l'opposizione dei senatori, capì di avere la possibilità di diffamare Servio presso di loro e di acquistare credito in senato (lui era un giovane impetuoso e di carattere inquieto e per di più, in casa, era incitato dalla moglie Tullia). Così anche il palazzo reale di Roma fu teatro di un tragico fatto di sangue che accelerò, più della noia per la monarchia, l'avvento della libertà e fece sì che l'ultimo regno fosse il prodotto di un delitto. Questo Lucio Tarquinio - è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli storici propende per la prima tesi - aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal carattere piuttosto mite. Essi avevano sposato, come ho già detto, le due Tullie, figlie del re, ugualmente diversissime per temperamento. Caso volle che i due caratteri violenti non fossero finiti insieme (immagino perché la buona stella del popolo romano volle prolungare il regno di Servio e permettere che si consolidassero i fondamenti morali della società). La più arrogante delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non avesse un briciolo di ambizione e intraprendenza. Di qui il suo essere tutta occhi e parole di ammirazione per l'altro Tarquinio, da lei definito un vero uomo e un autentico rampollo di re. Di qui pure il suo disprezzo per la sorella, a sua detta responsabile di appiattire il marito con una totale assenza di iniziativa femminile. Presto, come sempre succede, l'affinità reciproca li avvicinò, dato che il male può solo attirare il male, anche se però fu la donna la responsabile prima di tutto l'intrigo. Quest'ultima cominciò a vedersi in segreto col cognato e, durante questi incontri, non si esimeva dall'insultare il proprio marito (con il fratello di lui) e la propria sorella (con il marito di lei). Il punto su cui batteva di più era questo: per lei sarebbe stato meglio essere senza marito e per il cognato sarebbe stato meglio essere celibe piuttosto che stare con persone di livello inferiore e vedersi costretti a languire per loro ignavia. Se gli dèi le avessero fatto sposare l'uomo che meritava, non ci avrebbe messo molto a vedere nella sua casa il potere reale che ora vedeva in quella del padre. Si affretta così a instillare nel cuore del giovane l'audacia del suo progetto. Grazie a due decessi a catena ebbero via libera in casa per celebrare un nuovo matrimonio. Servio non si oppose alle nozze, ma non diede neppure il suo consenso.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 46.)
«47 Da quel momento in poi la vecchiaia e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in pericolo. Infatti, quella donna, dopo il primo delitto, non vedeva l'ora di commetterne un se.condo e toglieva il fiato al marito giorno e notte perché non voleva che i suoi precedenti crimini rimanessero fini a se stessi. Non le era certo mancato l'uomo di cui si potesse dire che lei era la moglie e la rassegnata compagna di sottomissione. Le era mancato un uomo che si ritenesse degno del trono, che si ricordasse di esser figlio di Tarquinio Prisco e che preferisse avere il potere piuttosto che sperare di averlo. “Se sei tu l'uomo che io credo di aver sposato, allora ti chiamo marito e re. Se non lo sei, allora vuol dire che mi è andata di male in peggio perché in te oltre all'ignavia c'è anche la delinquenza. Perché non ti muovi? Non vieni mica da Tarquinia o da Corinto, come tuo padre, né devi andarti a conquistare un trono in terra straniera. Gli dèi di casa e della patria, il ritratto di tuo padre, il palazzo reale e il trono che vi si trova all'interno, il nome Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti chiama re. E se poi non hai abbastanza fegato, perché mai inganni la gente? Perché lasci che guardino a te come a un erede al trono? Tornatene a Tarquinia o a Corinto, risali i rami del tuo albero genealogico, visto che sei più della pasta di tuo fratello che non di quella di tuo padre.” Questo più o meno il sarcasmo con cui istigava il giovane. Una cosa invece non le dava pace: com'era possibile che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a brigare tanto da far salire al trono, uno dopo l'altro, prima il marito e poi il genero, e invece lei che era figlia di un re contava meno di zero negli stessi giochi di potere? Tarquinio, istigato dai furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di appoggio, specialmente presso i senatori del secondo ordine, ai quali, ricordando il gesto generoso del padre, faceva presente che era venuto il momento di ricambiarlo. Riempiva di regali i giovani. Così, sia grazie alle grandi promesse, sia grazie alla pessima pubblicità che faceva al re, la sua posizione acquistava credibilità a tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di agire, fece irruzione nel foro scortato da un drappello di armati. Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si presentassero in senato al cospetto del re Tarquinio. Essi arrivarono subito: alcuni già preparati alla cosa, altri temendo di incappare in spiacevoli conseguenze mancando all'appuntamento, tutti però sconcertati dalla novità senza precedenti e convinti che Servio fosse finito. Tarquinio allora, andando molto indietro nel tempo, accusò Servio di essere uno schiavo figlio di una schiava il quale, dopo la morte indegna di suo padre, era salito al trono grazie al regalo di una donna e non aveva rispettato la tradizione (e cioè l'interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la ratifica dei senatori). Con un simile albero genealogico e con una simile carriera politica alle spalle, aveva favorito le classi più abiette della società - cioè quelle dalle quali proveniva -, e per l'odio nei confronti di una classe alla quale non apparteneva, aveva tolto le proprietà terriere ai notabili per darle alla plebaglia. Gli oneri fiscali prima equamente distribuiti li aveva addossati nella loro totalità sulle spalle dei più abbienti. Aveva istituito il censo per convogliare l'invidia sulle fortune dei ricchi e per averle a portata di mano quando decideva di fare generose elargizioni ai nullatenenti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 47.)
«48 Servio, svegliato di soprassalto da un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa tirata e, dall'ingresso della curia, gridò fortissimo: “Che razza di storia è questa, Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di convocare i senatori e di sederti sul mio trono?” La risposta di Tarquinio fu estremamente insolente. Disse che stava occupando il trono di suo padre, trono che era di gran lunga preferibile finisse in mano all'erede legittimo (cioè lui in persona) piuttosto che a uno schiavo e che Servio aveva già insultato e preso in giro abbastanza i suoi padroni. Seguirono urla di consenso e di approvazione. Intanto la gente stava affluendo in massa sul posto ed era chiaro che il potere sarebbe andato al vincitore di quel giorno. Allora Tarquinio, costretto dalla situazione a giocarsi il tutto per tutto, favorito dall'età e dalla maggiore vigoria fisica, afferrò Servio all'altezza della vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori, lo scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella curia per evitare che i senatori si sparpagliassero. La scorta e il seguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo seguito abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali lo avevano pedinato. Sembra (e non stride poi troppo coi suoi precedenti delinquenziali) che la cosa porti la firma di Tullia. Su questo, invece, non ci sono dubbi: ella, arrivata in senato col suo cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone, chiamò fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo di re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto pericoloso. Allora Tullia, quando sulla via di casa arrivò in cima alla via Cipria (dove non molto tempo fa c'era il santuario di Diana), ordinò di piegare verso il Clivo Urbio e di portarla all'Esquilino. In quel momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il cadavere di Servio abbandonato per terra. Tradizione vuole che in quel luogo fu consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba memoria nel nome (si chiama infatti via del Crimine): pare che Tullia, invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito, calpestò col cocchio il corpo del padre. Quindi, piena di schizzi lei stessa, ripartì sulla vettura che grondava sangue dopo quell'orrore commesso sul cadavere del padre, e si diresse a casa dove i penati suoi e del marito, adirati per il tragico esordio del regno, fecero sì che esso avesse una conclusione analoga. Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne la rettitudine. E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c'era anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto e legittimo. Inoltre, per quanto moderato e mite il suo regno potesse essere stato, era pur sempre il governo di un singolo. Per questo alcuni autori affermano che egli avrebbe avuto intenzione di rinunciarvi, se la delinquenza di un parente non si fosse sovrapposta al progetto di concedere la libertà al suo popolo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48.)
Servio Tullio fu così assassinato in un colpo di stato in cui era coinvolta una sua figlia Tullia e suo marito Lucio Tarquinio, detto poi "il Superbo", figlio di Lucio Tarquinio Prisco, che salì quindi al trono attraverso una sequela di crimini perpetrati con la moglie.
Lucio Tarquinio il Superbo, di Guillaume Rouille (1518?-1589) https://commons.wikimedia.org /w/index.php?curid=8660303 |
Tito Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero rivendicandolo per sé; Tullio, avvertito del fatto, si precipitò nella Curia. «Servio, chiamato da un messo in gran fretta, sopraggiunto mentre Tarquinio teneva il suo discorso, subito dall'ingresso della curia a gran voce gridò: «Che cosa è questo, o Tarquinio? Con quale audacia, mentre io ancora vivo, hai osato convocare il senato e sedere al mio posto?» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 48.)
Ne nacque un'accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava. Il luogo del misfatto ricevette in seguito l'appropriato nome di Vicus Sceleratus.
A Tarquinio fu attribuito il soprannome di Superbo dopo che negò la sepoltura di Servio Tullio. Tarquinio assunse il comando con la prepotenza e il crimine, senza che la sua elezione fosse approvata dal Popolo e dal Senato romano, e sempre con la forza (si parla anche di una guardia armata personale) mantenne il controllo della città durante il suo regno. In breve tempo annientò la struttura fortemente democratica della società romana realizzata dal suo predecessore e creò un regime autoritario e violento a tal punto da unire per la prima volta, nell'odio verso la sua figura, patrizi e plebei.
Narra Tito Livio: «49 Da allora ebbe inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il genero, non concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non l'aveva avuta, e fece eliminare i senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio. Poi, rendendosi conto che l'indebita ascesa al trono avrebbe potuto diventare un precedente sfruttabile da altri nei suoi stessi confronti, si circondò di guardie del corpo. In effetti, l'unico diritto al trono che aveva era la forza, dato che stava regnando non solo senza il consenso del popolo ma anche senza ratifica del senato. In più si aggiungeva che, non potendo contare in alcun modo sull'aiuto dei cittadini, era costretto a salvaguardare il proprio potere col terrore. E per renderlo un sentimento diffuso, cominciò a istruire da solo, senza l'aiuto di consiglieri legali, le cause per delitti capitali: ne approfittava così per condannare a morte, per mandare in esilio, e per confiscare i beni non solo di chi era sospettato o malvisto, ma anche di chi poteva rappresentare una qualche opportunità di bottino. Soprattutto per questo, dopo aver decimato il numero dei senatori, stabilì che non se ne eleggessero altri, in modo tale da screditare l'ordine per l'inconsistenza degli effettivi e ridurne al massimo le eventuali rimostranze per la totale esclusione dalla gestione del potere. Tutti i suoi predecessori si erano sempre attenuti alla regola tradizionale di consultare il senato in ogni occasione: Tarquinio il Superbo fu il primo a rompere con questa consuetudine e resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il popolo e i senatori. Cercava soprattutto di procurarsi l'amicizia dei Latini, perché l'appoggio straniero gli desse maggiore sicurezza in patria. Con la loro aristocrazia non stabiliva soltanto rapporti di ospitalità, ma organizzava anche matrimoni. Al tuscolano* Ottavio Mamilio - di gran lunga il più rappresentativo tra i Latini e, se si presta fede alla leggenda, discendente di Ulisse e della dea Circe - diede in moglie la figlia e, grazie a questo matrimonio, si legò con molti amici e parenti di lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 49.)
*Il nome della città “Tusculum”, per quanto sembri alludere palesemente agli Etruschi, pare che derivi semplicemente dal suo corso d'acqua, il Tuscus amnis, come proposto di recente e plausibilmente.
«Lui stesso dopo aver infierito contro i senatori con le stragi, contro la plebe con le verghe, contro tutti con la superbia, che per la gente onesta è peggio della crudeltà, e dopo che fu soddisfatto della ferocia esercitata in patria, si rivolse ai nemici [di Roma].» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.4.)
Prosegue Tito Livio: «50 Tarquinio vantava già una posizione di grande influenza presso i nobili latini, quando decise di convocarli un giorno preciso presso il bosco di Ferentina, sostenendo di voler discutere alcuni problemi di comune interesse. Alle prime luci dell'alba i Latini affluiscono in massa. Da parte sua Tarquinio, pur rispettando la data, si presentò solo poco prima del tramonto. Per tutta la durata del giorno, i partecipanti all'assemblea avevano parlato a lungo di vari argomenti. Turno Erdonio di Aricia aveva inveito violentemente contro Tarquinio, dicendo che non era poi tanto strano che a Roma lo avessero soprannominato il Superbo (nome questo ormai sulla bocca di tutti, anche se ancora circoscritto alla sfera clandestina del sussurro). Oppure c'era qualcosa di più superbo che prendere in giro il popolo latino in quella maniera? Farne venire i capi così lontano dai loro paesi e poi disertare la riunione da lui stesso convocata? Era chiaro che voleva mettere alla prova la loro pazienza e poi, una volta constatato che si lasciavano mettere facilmente i piedi in testa, avrebbe abusato della loro sottomissione. A chi poteva infatti sfuggire che il piano di Tarquinio era ridurre i Latini in suo potere? Se i suoi sudditi avevan fatto bene ad affidarglielo, o se gli era stato affidato e non era il prodotto di un orrendo delitto, stessa cosa avrebbero dovuto fare i Latini, e neppure in questo caso si sarebbe trattato di uno straniero. Ma se i Romani non ne potevano più di lui, delle esecuzioni a catena, degli esili, delle confische di beni, i Latini potevano forse sperare in qualcosa di meglio una volta nella stessa situazione? Se volevano dare retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe dovuto tornarsene a casa rispettando la data della riunione con la stessa precisione di chi l'aveva organizzata. Mentre il turbolento e facinoroso Turno, che doveva proprio a tali caratteristiche la posizione di grande rilievo occupata tra le genti latine, dissertava su questi argomenti, ecco che arrivò Tarquinio. Tutti si voltarono a salutarlo. Venne fatto silenzio e il re, invitato dai più vicini a fornire spiegazioni circa il ritardo con cui si era presentato, disse di esser stato scelto come arbitro in una disputa tra padre e figlio e di aver fatto tardi per il desiderio di riconciliare i due litiganti. Quindi, dato che il giorno se ne era andato in quella bega, rimandò la riunione al mattino successivo. Pare che Turno non accettò nemmeno questo senza replicare e sentenziò che non c'era niente di più facile da sistemare che un litigio tra padre e figlio; bastavano infatti due parole: o il figlio obbedisce al padre, o peggio per lui.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 50.)
«51 Con questo sarcasmo diretto al re di Roma, il cittadino di Aricia abbandona l'assemblea. Tarquinio, incassando l'affronto peggio di quanto desse a vedere, inizia subito a cercare il modo per togliere di mezzo Turno, in maniera tale da ispirare nei Latini lo stesso terrore col quale in patria aveva oppresso gli animi dei suoi sudditi. E poiché non era nella posizione di eliminare il suo uomo di fronte agli occhi di tutti, lo schiacciò escogitando una falsa accusa che in realtà non aveva nulla a che vedere con lui. Grazie ad alcuni rappresentanti del partito all'opposizione di Aricia, riuscì a corrompere uno schiavo di Turno affinché lasciasse introdurre di nascosto una grande quantità di armi nella casa del padrone. Dato che bastò una notte per sistemare la cosa, Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò in sua presenza i capi latini e, fingendo di aver ricevuto qualche notizia allarmante, disse loro che il ritardo del giorno prima era stato provvidenziale e aveva salvato loro e lui stesso. Infatti c'era stata una denuncia: Turno voleva eliminare lui e i capi più in vista del popolo latino per impadronirsi del potere assoluto. L'attentato avrebbe dovuto essere messo in pratica il giorno precedente durante l'assemblea, ma poi era stato rimandato per l'assenza del bersaglio principale, cioè l'ideatore del raduno. Di lì la violenta invettiva di Turno contro l'assente, il cui ritardo ne aveva deluso le speranze. Tarquinio aggiunse di esser sicuro che, se l'informazione ricevuta corrispondeva a verità, Turno, quando alle prime luci dell'alba essi si fossero radunati per l'assemblea, si sarebbe presentato con una banda di cospiratori armati fino ai denti. Gli avevano anche riferito, aggiunse, che a casa di Turno era stata trasportata una grande quantità di spade. E la fondatezza di quell'informazione si poteva verificare subito: bastava andassero con lui a casa di Turno. L'accusa sembrava veramente plausibile: vuoi l'aggressività di Turno nell'invettiva del giorno prima, vuoi il ritardo di Tarquinio che dava veramente l'impressione di aver fatto saltare l'attentato. Sta di fatto che si avviano disposti a credere alla storia, ma nel contempo pronti a considerarla tutta una montatura nel caso non ci fosse stata traccia delle spade. Arrivati a destinazione, svegliano di soprassalto Turno e lo fanno guardare a vista. Quando poi, immobilizzati gli schiavi che si preparavano a fare resistenza per attaccamento al padrone, cominciarono a tirar fuori spade su spade da ogni angolo della casa, non ci fu più nessun dubbio: Turno fu incatenato e nel gran trambusto venne subito convocata un'assemblea di tutti i Latini. Lì le spade piazzate nel bel mezzo suscitarono un tale risentimento che Turno, senza nemmeno poter perorare la propria causa, fu sottoposto a un supplizio senza precedenti: lo fecero annegare immergendolo nella sorgente Ferentina con sopra la testa un graticcio coperto di sassi.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 51.)
«52 Tarquinio quindi riconvocò i Latini in assemblea e si complimentò con loro per la fermezza con cui avevano inflitto a Turno, autore di un progettato colpo di stato, la giusta pena per il suo evidente reato. Poi affermò di potersi basare su un diritto molto antico per sostenere che tutti i Latini, essendo originari di Alba, rientravano nelle clausole di quel trattato dei tempi di Tullo col quale l'intera nazione albana e le sue colonie erano state annesse a Roma. Rinnovare quel trattato sarebbe stato un grosso vantaggio: più che altro - questo il suo pensiero - i Latini avrebbero partecipato dei successi del popolo romano, senza dover sempre rischiare o subire distruzioni e devastazioni di campagne com'era successo durante il regno di Anco e durante quello di suo padre Tarquinio Prisco. Non fu difficile persuadere i Latini anche se il trattato favoriva nettamente Roma. Inoltre, non solo i capi latini erano dalla parte del re e ne condividevano i punti di vista, ma proprio poco prima Turno aveva fornito loro una dimostrazione di cosa poteva toccare a chiunque avesse avuto in mente di opporsi. Il trattato venne così rinnovato e una delle clausole prevedeva che i giovani latini si presentassero il tal giorno armati di tutto punto nel bosco di Ferentina. Seguendo le disposizioni del re di Roma, essi si concentrarono dai diversi paesi di provenienza. Tarquinio, allora, per evitare che ogni gruppo avesse un proprio capo, un comando separato e insegne diverse dagli altri, creò manipoli misti di Latini e Romani con questo criterio: ne organizzò uno sommandone due e due dividendone uno. A capo dei manipoli così sdoppiati nominò dei centurioni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 52.)
«53 Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione in tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e tolse loro con la forza Suessa Pomezia. Ne vendette il bottino e coi quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un tempio di Giove le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli dèi e degli uomini, nonché della potenza romana e della sua stessa posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu messo da parte per la costruzione del tempio. In seguito si impegnò in una guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi. Infatti tentò prima una fallimentare soluzione di forza; poi, respinto anche da sotto le mura dopo averne cercato l'assedio, alla fine ricorse a un espediente poco in sintonia con lo spirito romano, cioè l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre dava a vedere di aver perso interesse nella guerra per concentrarsi sulla fondazione del tempio e su altre opere di natura urbanistica, Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò a Gabi lamentandosi del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal padre. Là raccontò che quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva adesso iniziato a tormentare i figli, che a sua detta erano fastidiosamente numerosi, e a cercare di riprodurre in casa il deserto che aveva fatto in senato, in modo tale da non lasciare né discendenti né un qualche erede al trono. Quanto a lui, sfuggito alle spade e ai pugnali del padre, era convinto che in nessun posto sarebbe stato così al sicuro come presso i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la guerra che sembrava esser stata abbandonata, avevano poco da illudersi: era tutta una finta e, da un momento all'altro, lui li avrebbe attaccati quando meno se lo aspettavano. Se poi presso di loro non c'era posto per un supplice, allora avrebbe attraversato tutto il Lazio e quindi si sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e agli Ernici, finché non avesse trovato gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e dalle crudeltà inflittegli dal padre. Può darsi anche che avrebbe trovato gli stimoli per andare a combattere il più tirannico dei re e il più insolente dei popoli. Poiché era chiaro che, se avessero titubato, il giovane, infuriato com'era, se ne sarebbe andato, i Gabini gli diedero il benvenuto. Gli dissero di non meravigliarsi se il padre si era comportato coi figli nello stesso modo che coi sudditi e con gli alleati: avrebbe finito col rivolgere la propria crudeltà contro se stesso, una volta esaurito ogni bersaglio. Da parte loro, erano comunque contenti della sua venuta e confidavano, anche col suo aiuto, di spostare in breve tempo il teatro delle operazioni di guerra dalle porte di Gabi alle mura di Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 53.)
«54 In seguito Sesto fu ammesso alle riunioni di governo, durante le quali, sul resto delle questioni, si professava dello stesso avviso degli anziani di Gabi per la loro maggiore esperienza. Da parte sua, invece, non faceva che parlare di guerra e sosteneva di esserne un grande esperto in quanto conosceva le forze dei due popoli e sapeva che Tarquinio aveva raggiunto un punto tale di arroganza che non solo i cittadini ma i figli stessi non riuscivano più a tollerarlo. Così, con questa tecnica, riuscì piano piano a convincere i capi di Gabi a riaprire le ostilità. Avrebbe guidato lui in persona delle azioni di guerriglia con un gruppo di giovani particolarmente coraggiosi. Calcolando perfettamente ogni cosa che faceva e diceva, riuscì a incrementare a tal punto la malriposta fiducia nella sua persona, che alla fine gli affidarono il comando in capo delle operazioni. Siccome il popolo ignorava quel che stava realmente succedendo e le prime scaramucce tra Romani e Gabini vedevano quasi sempre prevalere questi ultimi, allora tutti, senza distinzioni di classe, cominciarono a credere che Sesto Tarquinio fosse l'uomo mandato dal cielo per guidare le loro truppe. E i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella spartizione del bottino, gli si affezionarono a tal punto che non era meno potente lui a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo fosse a Roma. E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi gli dèi gli avevano concesso di esser padrone incontrastato della situazione politica. Al messaggero - suppongo per la scarsa fiducia che ispirava - non venne affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l'inviato del figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in silenzio, pare che il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di bacchetta. Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere risposte, ritornò a Gabi convinto di non aver compiuto la missione. Lì riferì ciò che aveva detto e ciò che aveva visto: il re, fosse per ira, per insolenza o per naturale disposizione all'arroganza, non aveva aperto bocca. Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della città, accusandone alcuni davanti al popolo, e con altri facendo leva sull'impopolarità che si erano acquistati da soli. Per molti ci fu l'esecuzione sotto gli occhi di tutti. Certi invece, più difficili da mettere sotto accusa, vennero assassinati di nascosto. Altri ebbero il permesso di lasciare il paese o vennero esiliati. Le proprietà di tutti, morti o esiliati, subirono la stessa sorte: vennero confiscate e quindi distribuite in una corsa sfrenata all'accaparramento. Badando quindi solo all'interesse particolare, la gente perse il senso del disastro in cui la città era franata. Finché un bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse, Gabi si consegnò nelle mani del re di Roma senza opporre resistenza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 54.)
Prosegue Tito Livio: «55 Dopo essersi impadronito di Gabi, Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana. Il primo era il tempio di Giove sul monte Tarpeio: sarebbe stato un monumento immortale al suo regno e al suo nome, e avrebbe ricordato che dei due Tarquini - entrambi re -, prima il padre aveva fatto il voto di costruirlo e poi il figlio lo aveva portato a compimento. E perché la zona venisse liberata da ogni precedente traccia di culto e dedicata esclusivamente a Giove e al suo tempio, ordinò di sconsacrare quelle cappelle e quei santuari che erano stati in un primo tempo dedicati agli dèi da Tazio nei momenti decisivi della battaglia contro Romolo e che in seguito erano stati consacrati e inaugurati. Proprio all'inizio dei lavori, tradizione vuole che gli dèi inviassero un segno per indicare la grandezza di quel potente regno. Infatti, mentre gli uccelli diedero il via libera alla sconsacrazione di tutti gli altri santuari, la stessa cosa non successe per quello di Termine. Il presagio augurale fu interpretato in questo modo: visto che il tempio di Termine rimaneva al suo posto ed era l'unica tra tutte le divinità a non essere allontanata dallo spazio a essa consacrato, ciò significava stabilità e solidità per lo Stato. Una volta ricevuto questo presagio di durata, ne seguì un altro che annunciava la grandezza dell'impero. Pare che durante gli scavi delle fondamenta del tempio venisse portata alla luce una testa di uomo con i lineamenti della faccia intatti. Il ritrovamento parlava chiaro: quel punto sarebbe diventato la cittadella dell'impero e la capitale del mondo. Questa fu l'interpretazione degli indovini, sia dei locali, sia di quelli fatti arrivare dall'Etruria per pronunciarsi sulla cosa.
«56 Nel desiderio di portare a termine la costruzione del tempio, Tarquinio, dopo aver fatto venire operai da tutta l'Etruria, attinse non solo ai fondi di Stato stanziati per questo progetto, ma ricorse anche alla mano d'opera della plebe. Non era certo un lavoro da poco e in più c'era il servizio militare. Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli dèi con le proprie mani che essere impiegati, come poi in seguito successe, in lavori meno spettacolari ma molto più sfibranti (come la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni nostri ha ben poco da contrapporre). Dopo aver impegnato la plebe in queste grandi costruzioni, Tarquinio, pensando che una popolazione numerosa se disoccupata sarebbe stata per Roma un peso morto, e volendo nel contempo ampliare i confini del suo regno con la deduzione di colonie, inviò coloni a Signa e Circei per farne un giorno dei bastioni di Roma sulla terra e sul mare. Nel bel mezzo di queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo: da una colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso terrore ma di ansia e preoccupazione. Per i prodigi di carattere pubblico Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi. Ma in questo caso, spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa, stabilì che fosse interrogato l'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo. Non osando però affidarne a nessun altro il responso, mandò due dei suoi figli in Grecia attraverso terre a quel tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti. Tito e Arrunte partirono.
Lucio Giunio Bruto. |
«58 Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collazia con un solo compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente dei suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare nella camera degli ospiti. Invasato dalla passione, quando capì che c'era via libera e tutti erano nel primo sonno, sguainata la spada andò nella stanza di Lucrezia che stava dormendo: la immobilizzò con la mano puntata sul petto e disse: “Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta!” La povera donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un passo dalla morte. Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di donna. Ma vedendo che Lucrezia era irremovibile e non cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte, allora aggiunse il disonore all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso dell'adulterio. Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio sull'ostinata castità di Lucrezia. Quindi, fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia, affranta dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa spaventosa. Arrivarono così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto (questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia).
Eduardo Rosales Gallinas - "La morte di Lucrezia" (1871). Da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Edu ardo_Rosales_Gallinas_-_La_muerte_de_ Lucrecia.jpg. |
«59 Bruto, mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse: “Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi, che di qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma.” Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio, tutti sbalorditi dall'incredibile evento e incapaci di stabilire da dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com'era stato loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non esitano a seguirlo come loro capo. Quindi trascinano fuori di casa il cadavere di Lucrezia e lo adagiano in pieno foro dove piano piano si accalca la gente, attratta, come di consueto, dalla stranezza della cosa e in più dalla sua nefandezza. Tutti si scagliano indignati contro la violenza criminale del principe. La loro commozione nasceva dalla tristezza del padre ma anche da Bruto che li invitava a smetterla con tutti quei pianti e li esortava a esser degni del proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi aveva osato trattarli come nemici. I giovani più coraggiosi si armano e si offrono volontari, seguiti subito da tutto il resto della gioventù. Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a guardia di Collazia e piazzate delle sentinelle per evitare che qualcuno andasse a riferire dell'insurrezione alla famiglia reale, il resto delle truppe fa rotta su Roma agli ordini di Bruto. Una volta lì, questa moltitudine armata semina dovunque il panico e lo sconcerto al suo passaggio. Ancora una volta, però, vedendo che alla testa c'erano i personaggi più in vista della città, l'opinione generale fu che, qualunque cosa stessero facendo, non poteva trattarsi di un'iniziativa sconsiderata. L'atroce episodio suscita a Roma non meno commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da ogni parte della città la gente si riversa nel foro. Una volta là, un messo convocò il popolo di fronte al tribuno dei Celeri, magistratura tenuta casualmente in quel periodo proprio da Bruto. Egli allora pronunciò un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere e gli atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere.
«60 Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò all'accampamento, il re, allarmato dal pericolo inatteso, partì alla volta di Roma per reprimere l'insurrezione. Bruto, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro fece una manovra di diversione. Anche se per strade diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono quasi nello stesso momento ad Ardea e a Roma. A Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e comunicata la notizia dell'esilio. Il liberatore di Roma fu invece accolto con entusiasmo dagli uomini nell'accampamento, i quali poi ne espulsero i figli del re. Due di essi seguirono il padre nell'esilio a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi, come se fosse stato un suo dominio, ma là fu assassinato da quanti ne vendicarono le stragi e le razzie di un tempo. Lucio Tarquinio Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro anni. In seguito, attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio, i comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 60.)
Consoli Romani. |
Tarquinio il Superbo, non dandosi per vinto, tentò con l’aiuto del re o lucumone di Clusium (Chiusi), il lars Porsenna (l'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante), di riprendersi il trono, ma senza successo. Aizzò anche i latini contro i romani, che sconfissero la lega latina nel 496 a.C. presso il lago Regillo e Roma divenne quindi l'indiscussa città dominatrice dei popoli latini; per contro la civitas latina divenne seconda solo a quella romana nei secoli a venire.
Nel 495 a.C. a Cuma si spense Tarquinio il Superbo, dove si trovava in esilio. La notizia fu accolta con giubilo a Roma: sconfitti i latini, piegati al rango di socii per sempre e morto l’ultimo re, la res publica cominciava a prendere forma. I romani in generale, ma le loro alte sfere in particolare, resteranno sempre terrorizzati dall’idea che qualcun altro si facesse re. Fu proprio questa la causa per cui Bruto e Cassio assassinarono Cesare: oltre ai poteri speciali e la dittatura a vita offertagli dal senato, un mese prima delle idi del 44 a.C., Marco Antonio gli aveva offerto una corona durante la festa dei Lupercali, che Cesare aveva sdegnosamente rifiutando (offrendo la corona a Giove Ottimo Massimo, per lui unico re di Roma), ma che da molti senatori era stato interpretato come un segnale che il dittatore si apprestava, non pago dei suoi poteri, a farsi proclamare rex. Non a caso Ottaviano abolirà la dittatura e prenderà il potere in modo molto più subdolo: facendosi attribuire una serie di poteri che messi insieme gli davano il comando supremo, e usando due termini, imperator e princeps, che per i romani erano decisamente più tollerabili: già Scipione l’Africano era stato acclamato imperator dai suoi soldati durante la seconda guerra punica.
Al di là della storia, vera o leggendaria, della cacciata di Tarquinio il Superbo, sul finire del V secolo a.C., nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco dall'area dell'antico Latium vetus e un primato romano sui popoli Latini, a Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, gli aristocratici (patrizi) del Senato ottengono il potere di gestire tutte le magistrature: un potere quindi assoluto.
Non è da escludere che il Senato avesse complottato per cacciare gli ultimi re etruschi e prendere direttamente il potere, come già aveva fatto presagire l'ipotesi che Romolo fosse stato fatto a pezzi dai senatori e l'interregno durato un anno prima dell'elezione di Numa, visto che il popolo pretendeva un re.
Le conseguenze di questa unilateralità del potere si rivelano immediatamente dalla lettura della narrazione tradizionale sulla Res Publica romana, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, in cui si narra che i patrizi, che nel Senato possedevano il loro organo di governo, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo e abbandonando definitivamente la monarchia nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la classe sociale) il governo della città, nominando ogni anno due consoli che condividessero il potere esecutivo. La plebe rimaneva quindi "classe inferiore", componente solo della massa cittadina, rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature, l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. I patrizi inoltre, finirono per abusare della loro posizione dominante, utilizzando ad esempio l'istituto del nexum, per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ceto nelle cause contro i plebei e annullando le decisioni dei comizi centuriati.
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