La battaglia (nel 509 a.C.) si scatenò
appena gli eserciti delle due città entrarono nel territorio di
Roma. Il console Publio Valerio avanzò al comando della fanteria che
marciava in formazione quadrata, mentre l'altro console Giunio Bruto
guidò la cavalleria e, nello scontro con Arrunte Tarquinio, figlio
del re detronizzato, fu mortalmente ferito. La battaglia si
protrasse nell'incertezza di chi avrebbe vinto finché, mentre
l'ala tarquiniese faceva indietreggiare i Romani, «I Veienti
furono sbaragliati e messi in fuga...» (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, II, 6.)
Il primo problema
da risolvere era quello proveniente dall'esterno, ovvero i volsci. Il
collega di Claudio, Publio Servilio Prisco Strutto, riuscì a
blandire la plebe promettendo privilegi in cambio dell'arruolamento:
«Appio, che aveva un carattere irruento, era dell'avviso che la
questione si dovesse risolvere con la sola potestà consolare: con un
paio di arresti gli altri si sarebbero calmati; Servilio, incline più
ai mezzi blandi, riteneva non solo più sicuro, ma anche più facile
piegare che non abbattere gli animi esasperati. In quel frattempo
un'altra più grave minaccia sopravvenne […] i volsci muovevano con
un esercito all'attacco dell'Urbe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita
libri II,23-24, N.d.R.)
In molti
accettarono di combattere come aveva chiesto Servillo e Roma riuscì
a prevalere; tuttavia, una volta concluso il conflitto Claudio,
aristocratico ultraconservatore, impedì al collega di concedere alla
plebe i privilegi promessi, provocando un acceso scontro. Claudio
propose anche di scegliere un dittatore, che avrebbe potuto tenere
meglio sotto controllo la plebe: contro di esso infatti, non vi era
diritto d'appello; ma fu proprio lui ad essere eletto. Gli eventi
precipitarono fino ad arrivare alla famosa prima secessione
sull'Aventino (o Monte Sacro), provocata da una nuova aggressione di
volsci, equi e sabini, che presupponeva una nuova chiamata alle armi.
La questione si concluse grazie all'intervento di un senatore dalla
dialettica ormai proverbiale, Agrippa Menenio Lanato e
all'approvazione della lex sacrata, la legge che portò alla nascita
del tribunato della plebe: «Che la plebe avesse dei propri
magistrati inviolabili ai quali spettasse il diritto d'intervento
contro i consoli, e che a nessuno dei patrizi fosse concesso di
assumere questa magistratura. Furono così creati due tribuni della
plebe, Gaio Licinio e Lucio Alboino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita
libri II,33, N.d.R.)"
Sotto il consolato di Marco Minucio e
di Aulo Sempronio (nel 491 a.C., N.d.R.) ci fu una
massiccia importazione di grano dalla Sicilia e il senato discusse il
prezzo a cui avrebbe dovuto esser venduto alla plebe. Molti pensavano
fosse arrivato il tempo di dare un giro di vite alla plebe e di
recuperare i diritti che essa aveva estorto ai senatori con le
violenze della secessione. Uno dei più accesi, Marzio Coriolano,
nemico della potestà tribunizia, disse: “Se
vogliono il grano al prezzo di una volta, restituiscano ai senatori i
loro antichi diritti. È
mai possibile che io debba vedere dei plebei magistrati e un Sicinio
dotato di poteri, io che son passato sotto il giogo e sono stato
riscattato da questa specie di delinquenti? Dovrò sopportare più a
lungo del necessario delle infamie del genere? Io che non avrei
tollerato Tarquinio come re, dovrei sopportare un Sicinio? Ci vada
lui ora in secessione e si porti la plebe con sé. La strada che
porta al monte Sacro e agli altri colli è libera. Rubino pure il
frumento dai nostri campi come due anni fa. Si godano la carestia
frutto della loro follia. Non ho paura di affermare che, domati da
questa piaga, preferiranno andare a lavorare i campi piuttosto che,
come fecero durante la secessione, impedire con la violenza che gli
altri lavorino.” Io credo che i patrizi avrebbero potuto, mettendo
delle condizioni all'abbassamento dei prezzi, liberarsi del potere
dei tribuni e di tutti quei diritti concessi loro malgrado. Solo che
non è altrettanto facile dire se avrebbero dovuto farlo.
35 Il discorso sembrò eccessivamente
duro anche al senato. Nei plebei suscitò una reazione
così violenta da farli quasi ricorrere alle armi.
Sostenevano che li si stava prendendo per fame come fossero nemici, e
che li si stava privando dei generi di prima necessità per la
sopravvivenza: avrebbero tolto loro di bocca anche quel frumento di
importazione, il solo alimento che un inatteso colpo di fortuna aveva
regalato, se i tribuni non si fossero consegnati in catene a Gneo
Marzio e se non gli si fosse data la possibilità di rifarsi
sulla pelle della plebe. Ai loro occhi era lui il nuovo boia
saltato fuori a costringerli a una scelta obbligata tra la morte e la
schiavitù. E gli sarebbero saltati addosso fuori dell'ingresso della
curia, se i tribuni, quanto mai tempestivamente, non lo avessero
citato in giudizio. Il provvedimento sedò la rabbia: ciascuno si
vedeva già giudice del nemico e padrone di scegliere per lui tra la
vita e la morte. All'inizio Marzio stette ad ascoltare con aria
sprezzante le minacce dei tribuni, sostenendo che essi erano dei
magistrati di supporto e non avevano alcuna autorità penale, cioè
appunto si trattava di tribuni della plebe e non di senatori. Ma la
plebe aveva il dente così avvelenato che i senatori dovettero
sacrificare un loro membro per placarne l'ira. Ciò nonostante
tennero testa all'odio degli avversari facendo ricorso alle capacità
dei singoli e alle risorse dell'intero ordine. La prima mossa fu
questa: mandarono in giro dei loro clienti col compito di prendere da
parte i singoli e di dissuaderli dal partecipare alle riunioni e agli
assembramenti, nella speranza che potessero mandarne all'aria i
piani. Poi l'intero ordine senatoriale si presentò in pubblico
(tutti senza eccezioni, come se avessero dovuto rispondere di qualche
reato) supplicando la plebe di restituirgli un solo cittadino, un
senatore: se poi non lo volevano assolvere, almeno gli facessero la
grazia di rimandarlo indietro come colpevole. Visto che però alla
data stabilita Marzio non ricomparve, la rabbia divenne
incontenibile. Condannato in contumacia, andò in esilio
presso i Volsci lanciando minacce al suo paese, verso il quale
già da allora era ostile. I Volsci lo accolsero amichevolmente e la
loro buona disposizione nei suoi confronti cresceva di giorno in
giorno in proporzione al progressivo aumento della rabbia di Marzio
verso la sua terra d'origine, alla quale riservava ora nostalgici
lamenti ora minacce. Era ospite di Azio Tullio, all'epoca una delle
personalità eminenti del popolo volsco e un anti-romano di antica
data. Così, spinti uno dall'odio di sempre e l'altro dal recente
risentimento, studiano insieme una guerra contro Roma.
Sapevano che sarebbe stato difficile convincere la loro gente a
riprendere le armi per combattere un avversario che già le aveva
procurato tanti dispiaceri. Prima la serie di guerre e poi la
pestilenza ne avevano fiaccato gli entusiasmi portandosi via il
meglio della gioventù. L'odio risaliva ormai al passato: bisognava
ingegnarsi per trovare qualche nuovo motivo di risentimento che
ravvivasse gli antichi furori.» (Tito Livio, "Ab Urbe condita libri" II, 34-35.)
Nel 491 a.C. - In quell'anno troviamo Appio Claudio
Sabino Inregillense, capostipite della gens Claudia e console nel 495 a.C., noto provocatore che aveva costretto la plebe alla secessione, ad intervenire nuovamente contro la plebe nel processo contro
Coriolano. Come Claudio, Coriolano era un aristocratico
rigido e ostile alla plebe e sperava perfino di riportare la
situazione dei plebei a quella antecedente la nascita del tribunato
della plebe. Quando i plebei chiesero una legge che riducesse i costi
del grano, Coriolano si oppose e così i tribuni lo citarono in
giudizio. Secondo Livio fu lo stesso Coriolano a non volersi
sottoporre al giudizio dei
plebei e ad andarsene presso i Volsci, ma secondo Plutarco invece, fu
proprio questo Claudio a definire indecente che un patrizio fosse
giudicato da gente inferiore per rango e a chiedere che il processo
non si svolgesse. Claudio ebbe un particolare primato nell'Urbe che
ben s'addice al suo carattere. Fu il primo infatti a esporre in un
luogo pubblico le immagini dei suoi antenati, come a volere
dimostrare pubblicamente cosa lo differenziasse dalla comune plebe.
L'esposizione avvenne presso il tempio di Bellona, secondo quanto
dice Plinio. Claudio ebbe due
figli, entrambi divenuti consoli, Appio Claudio Sabino Inregillense (console nel 471 a.C., il primo ad ordinare una decimazione nella legione) e
Gaio Claudio Sabino Inregillense, console nel 460 con il collega Publio Valerio Publicola. L'Appio Claudio Crasso eletto console nel 451 a.C. e poi decemviro sia per quell'anno che per l'anno seguente, che si macchiò d'infamia per lussuria, e che causò la seconda secessione della plebe, era figlio dell'Appio Claudio console nel 471 a.C., infatti sia nel resoconto di Tito Livio che in quello di Dionigi d'Alicarnasso, Gaio Claudio è suo zio paterno, poiché fratello del padre.
Nel 486 a.C. - Spurio Cassio Vecellino è eletto console per la terza volta, assieme
a Proculo Verginio Tricosto Rutilo. Cassio marciò contro i Volsci e
gli Ernici ma poiché i nemici chiesero ed ottennero la pace, non si
ebbe nessuna battaglia. Nonostante ciò Cassio ottenne un secondo
trionfo, che è registrato nei fasti trionfali. Con il foedus
cassianum, che aveva stipulato con i Latini durante il suo secondo
consolato e con questo patto di alleanza con gli Ernici, Cassio era
riuscito a formare una "federazione" virtuale, soggetta a
Roma, che le restituiva il prestigio che aveva durante l'ultimo
periodo monarchico.
E fu allora che il
console Spurio Cassio Vecellino, che era sensibile alle
rivendicazioni dei plebei, di cui conosceva bene le problematiche essendo stato console l'anno successivo alla loro secessione, propose la sua famosa riforma agraria, la lex
Cassia agraria (una lex publica o forse solo una
rogatio, una proposta di legge) per stabilire un'equa distribuzione dei beni ottenuti con le conquiste belliche ed evitare così fondate rivendicazioni da parte dei plebei. Fondamentalmente la lex Cassia agraria scaturiva dalla volontà di Spurio Cassio di riconoscere a Volsci ed Ernici gli stessi diritti riconosciuti ai Latini, tra i quali il diritto alla spartizione delle terre conquistate in seguito a guerre combattute insieme, sottintendendo quindi nuovi territori anche per il popolo romano, non solo per l'erario e i patrizi romani, come si spartiva di solito.
Probabilmente la legge proposta da Cassio era semplicemente il ripristino di una vecchia legge di Servio Tullio che ordinava come la quota di terra pubblica in mano ai patrizi dovesse essere delimitata rigorosamente, e che il resto dovesse essere diviso fra i plebei e che la decima (il tributo di un decimo del raccolto) dovesse essere imposta anche alle terre possedute dai patrizi, che probabilmente quindi non la pagavano.
Era la prima proposta di lex
agraria della repubblica di Roma e la sua applicazione avrebbe contrastato lo strapotere dei ricchi possidenti che, per potenza economica e/o politica, riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito, che pur essendo comandato da patrizi, era composto in preponderanza dalla plebe, convogliando quindi le conquiste dell'intera popolazione verso le proprie tasche.
Alla proposta di
discussione della legge si opposero immediatamente i patrizi, e tra questi
soprattutto il console collega di Spurio Cassio, Proculo Verginio Tricosto Rutilo
e Appio Claudio Sabino Inregillense (figlio del suo omonimo console del 495 a.C., che sarà eletto console per il 471 a.C.), che fecero ostruzione per impedire che si arrivasse alla votazione. I
Patrizi, che temevano anche la popolarità che avrebbe
acquisito Spurio Cassio dall'approvazione della legge, motivavano la loro posizione sostenendo che la suddivisione
delle terre pubbliche tra tutti i cittadini della pseudo-federazione vincente, sarebbe stato un
indebito premio per i cittadini nullafacenti e per gli Ernici, a
lungo nemici del popolo romano. In particolare il tribuno della plebe Caio Rebulio, intervenendo nel pubblico dibattito, fece dichiarare al
console Verginio che la sua opposizione alla legge derivava dalla
contrarietà a che le terre fossero distribuite anche agli Ernici.
Pertanto si decise di portare in votazione la distribuzione delle
terre tra i romani, differendo nel tempo la questione della
distribuzione delle stesse agli Equi e ai Latini.
Il giorno della
votazione, si presentò a Roma un gran numero di Latini ed Equi,
facendo temere ai senatori che la discussione potesse mutare in atti
di violenza. Ma la votazione fu preceduta da un discorso di Appio
Claudio che dichiarandosi sempre contrario alla legge, propose che
si formasse una commissione di 10 senatori con il compito di
definire quali fossero le terre pubbliche e di venderne una parte, e
di affittarne un'altra, con il cui ricavato finanziare poi le
campagne belliche. Alla proposta di Appio Claudio, fece seguito quella di Aulo Sempronio, per il quale si sarebbe dovuto dividere con gli alleati Latini ed Ernici, solo le terre conquistate in seguito ai reciproci trattati di alleanza, dovendo invece escludersi quelle terre che i romani avevano conquistato prima della stipula delle alleanze. In pratica, per le guerre combattute in futuro, le terre conquistate si sarebbero dovute dividere in tre parti uguali, tra Romani, Latini ed Ernici.
Quindi il Senato deliberò che fosse nominata una commissione di 10 Senatori, che definisse quali terreni fossero di proprietà pubblica, e solo dopo, la parte da vendere e la parte da locare. I senatori sarebbero stati nominati dai nuovi consoli da eleggere per l'anno successivo, previsione che non si realizzò, anche per la condanna e messa a morte di Spurio Cassio, ideatore e sostenitore della proposta di legge.
Le fonti riguardo
all'entrata in vigore della lex Cassia agraria sono vaghe e contrastanti, si pensa
tuttavia che la legge sia entrata in vigore legalmente ma non abbia
trovato esecuzione. Leggi agrarie a favore dei plebei ebbero
applicazione solo più tardi quando ormai i patrizi furono
costretti ad accettare le proposte dei plebei sempre più
coscienti della loro forza all'interno del complesso
sociale e politico.
Nel 485 a.C. - Cassio è portato in
giudizio con l'accusa
di aspirare ai poteri
di re; i due
accusatori, i questori Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito,
sarebbero poi diventati consoli, rispettivamente nel 484 a.C. e nel
483 a.C. Processato, Cassio è
quindi condannato e
fatto precipitare
dai due questori dalla Rupe
Tarpea. La sua casa
fu distrutta e lo spazio rimasto, di fronte al tempio della dea
Tellus, fu lasciato libero. Con i beni sequestrati fu eretta una
statua di bronzo nel Tempio di Cerere, con un'iscrizione che
ricordava la provenienza delle somme usate (ex Cassiana familia
datum). Cassio lasciò tre figli che furono risparmiati dal Senato.
Spurio Cassio
Vecellino è stato l'unico patrizio della gens Cassia, conosciuta come una delle più nobili di
Roma, di cui si abbia avuto notizia. Visto che gli appartenenti alla
gens Cassia di cui si sia avuta notizia in seguito erano tutti
plebei, si può supporre che la gens sia stata espulsa dal patriziato
o che ci sia stato un passaggio volontario dei
successori di Cassio nelle file dei plebei, come forma di
protesta contro i patrizi che avevano sparso il sangue del loro
antenato.
Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense erano
i consoli quando Spurio Cassio Vecellino fu condannato e giustiziato. Con la
sua morte, la questione agraria non veniva dimenticata e si levava da
più parti la richiesta di dare corso alla legge agraria che era
stata promulgata. I due consoli, temendo l'insorgere di
disordini e approfittando di razzie e incursioni nel
territorio romano, chiamarono alla leva contro le città
vicine, distogliendo così la plebe dalla questione agraria; Servio
avrebbe condotto i romani contro Veio, mentre Quinto Fabio li
avrebbe guidati contro i Volsci e gli Equi. Alla testa dell'esercito
costituitosi, Fabio prima invase il territorio degli Equi, poi da lì
quello dei Volsci, razziando e saccheggiando il territorio. Solo i
Volsci provarono a resistere sul campo contro l'esercito romano,
venendo però da questo sconfitto.
Fabio però si
inimicò il popolo, quando tornato a Roma con il
bottino di guerra, ordinò che questo fosse interamente
incamerato nelle casse dell'erario, senza che i soldati
ne ricevessero alcuna parte.
Sembrerebbe quindi che la famosa
locuzione “Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace prepara la
guerra) fosse applicata in modo più esteso: "Se vuoi la pace
(interna) procurati una guerra (esterna)",
ovvero se vuoi mantenere il potere in tranquillità, scatena l'odio
del popolo verso qualche altro nemico. E a Roma, anche per
assoggettamenti religiosi, come il giuramento (agli dèi) di fedeltà
dei combattenti, il metodo funzionava.
Poiché l'esercito veniva formato di
volta in volta e i combattenti dovevano sottostare a un
giuramento che li impegnava sotto il profilo
religioso, quando un cittadino (e nell'esercito romano potevano
combattere solo i cittadini) era sottoposto alla legge marziale,
perdeva ogni diritto civico e ogni difesa contro lo
strapotere dei comandanti e, soprattutto, dei consoli,
i comandanti supremi dell'esercito. Questo tornava molto
comodo all'aristocrazia,
che poteva, una volta dichiarata la guerra,
sopire le pulsioni di contrasto all'oppressione
che esercitavano sulla plebe stessa.
Le discordie interne occuparono
quindi, fin dagli inizi della repubblica, un ampio spazio nella
politica di Roma. L'aristocrazia sembrava conoscere un solo modo di
frenare le tensioni e i prodromi di rivolta dei plebei. Ogniqualvolta
la tensione interna saliva oltre un limite considerato
pericoloso, molto opportunamente giungevano notizie di attacchi di
qualche popolazione vicina. La leva veniva chiamata, la plebe
resisteva e non prendeva le armi, poi il nemico arrivava troppo
vicino e la decisione di prendere le armi era inevitabile se non si
voleva che Roma venisse sconfitta senza nemmeno combattere. Quando
l'esercito era tenuto in armi fuori dal pomerium,
le tensioni politiche scomparivano per riapparire alla fine della
campagna militare.
In questo modo, gli attacchi dei
Veienti erano funzionali alla politica romana,
funzionalità che veniva meno quando Roma doveva affrontare
nemici più pericolosi. Poi, per qualche anno, essendo Roma
impegnata con gli eserciti ben più pericolosi dei Volsci, degli Equi
e dei Sabini, si trattenne dall'infierire, limitandosi a frenare le
incursioni dei Veienti senza cercare l'affondo risolutivo.
Nel 484 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 42: «Il risentimento popolare nei
confronti di Cassio non durò a lungo. La legge agraria, già
allettante di per se stessa, ora che era scomparso il suo
promulgatore, affascinava tutti e il desiderio che se ne provava fu
accresciuto dalla meschinità dei senatori, i quali,
quell'anno, dopo una vittoria sui Volsci e sugli Ernici, privarono
i soldati del bottino. Tutto ciò che fu tolto al nemico il
console Fabio lo mise all'incanto e ne trasferì i proventi
nelle casse dello Stato. Il nome dei Fabi era impopolarissimo
proprio a causa di quest'ultimo console. Ciò nonostante, i consoli
riuscirono a ottenere che insieme a Lucio Emilio venisse eletto
console Cesone Fabio. Questo incrementò il rancore dei plebei che, a
seguito dei disordini causati in patria, fecero scoppiare un
conflitto all'estero. E con la guerra le discordie civili conobbero
una tregua: patrizi e plebei uniti, agli ordini di Emilio con una
brillante vittoria sedarono una ribellione dei Volsci e degli Equi. I
nemici, tuttavia, ebbero più perdite durante la ritirata che durante
lo scontro, tanta fu l'ostinazione con la quale i cavalieri
li inseguirono mentre fuggivano sparpagliati. Il quindici luglio di
quello stesso anno venne consacrato a Castore il tempio promesso dal
dittatore Postumio durante la guerra latina: lo dedicò suo figlio,
eletto duumviro espressamente per questo ufficio. Anche quell'anno la
plebe cedette al richiamo allettante della legge agraria. I tribuni
della plebe cercavano di rinforzare la loro autorità popolare con
una legge popolare: i senatori, trovando che era già sufficiente la
violenza spontanea della plebe, vedevano le donazioni come un
rischioso stimolo alla temerarietà. I fautori più accesi
dell'opposizione senatoriale furono i consoli. Così la spuntarono
proprio questi ultimi, e non solo nella circostanza presente:
infatti, l'anno successivo, (il 483 a.C., N.d.R.)
riuscirono anche a portare al consolato Marco Fabio (Vibulano,
N.d.R.), fratello di Cesone, e un personaggio ancora più
impopolare, Lucio Valerio (Potito, N.d.R.),
l'uomo cioè che aveva accusato Spurio Cassio.
Anche in quell'anno ci fu una grande battaglia coi tribuni. La legge
subì uno scacco totale, così come lo subirono quanti l'avevano
proposta promettendo cose immantenibili. La famiglia dei Fabi si
conquistò una grande stima con quei tre consolati
consecutivi, tutti caratterizzati da continui conflitti
coi tribuni. Così, visto che era considerato in mani sicure,
l'incarico rimase abbastanza a lungo presso quella famiglia.»
Nel 482 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: «Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio furono eletti
consoli. Quell'anno la lotta
di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e
accesa della guerra combattuta all'estero. Gli Equi presero le armi;
le scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro
romano.»
Nel 481 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: « La crescente inquietudine dovuta a queste campagne è
l'atmosfera in cui vengono eletti consoli Cesone Fabio e Spurio Furio Medullino Fuso. Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti,
già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti
questi campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei
plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con
la politica del boicottaggio del servizio
militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno
della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi
del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la
promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di
ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento in poi il
tradizionale odio nei confronti del tribunato si concentrò
esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno
animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al
loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva
militare. Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio
sarebbe stato il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio
di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece
registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna
contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi
effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande figura, il
console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in tutti i
modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo esempio:
dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità nella
strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò
una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un
assalto della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò
di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né
l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la
vergogna che in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il
nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui propri passi,
nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura o, se
non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini,
ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti,
rientrano alla base maledicendo a turno il generale e
l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì
a rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso
fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso
maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai cittadini
che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna quindi a
Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto
dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati
nei suoi confronti. Ciò nonostante, i senatori ottennero che il
consolato rimanesse presso la famiglia dei Fabi; nominano console (per il 480 a.C., N.d.R.) Marco Fabio (Vibulano N.d.R.)
cui viene affiancato come collega Gneo Manlio (Cincinnato, N.d.R.).»
Nel 480 a.C. - Visti i precedenti, per quell'anno l'aristocrazia cambia tattica: sotto
l'impulso di Appio Claudio (figlio dell'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C.), il senato inizia a
cercare la complicità di almeno uno dei tribuni della plebe, per
metterlo contro il collega e neutralizzare così, con una forza
uguale e contraria, le rivendicazioni della plebe. L'evento si
verifica in una delle molte ripresentazioni della legge
agraria di Spurio Cassio, che voleva contrastare lo strapotere
dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica
e/o politica, riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni
conquistati dall'esercito, destinando gli sforzi
dell'intera popolazione, verso le proprie
tasche.
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44: «44 Quell'anno vide un tribuno, Tiberio
Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di
Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo
periodo riuscì a ostacolare la leva. Di fronte al rinnovarsi delle
preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse che
l'anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che la
vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per
i giorni a venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva
essere annientato proprio con le sue stesse forze. Infatti ci sarebbe
sempre stato un tribuno desideroso di ottenere un successo
personale ai danni del collega e disposto a
conquistarsi il favore del patriziato rendendo un servizio allo
Stato. E, all'occorrenza, un numero più consistente di tribuni non
avrebbe esitato a spalleggiare il console; d'altra parte sarebbe
bastato uno contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori più
in vista dovevano fare era questa: cercare di portare, se non tutti,
almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato.
L'intero ordine senatoriale, seguendo le istruzioni di Appio,
cominciò a dimostrare ai tribuni gentilezza e disponibilità; e gli
ex consoli, contando sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui
singoli, in parte con favori personali, in parte con l'autorità di
cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i
loro poteri al servizio dello Stato. Così, quattro di essi,
contro un solo e ostinato avversario dell'interesse
generale, collaborarono coi consoli nella realizzazione della
leva. Fatto questo, partì la spedizione armata contro
Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti da
tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto
piuttosto perchè c'era la speranza che le discordie interne
potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte
le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che
l'egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non avessero
smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide.
Quello era l'unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti,
nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità.
A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per
la rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in
maniera incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto
di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi
c'era un'opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si
trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti.
Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la
disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma
adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda
che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. Che
considerassero l'ultima guerra da loro combattuta: quando lo
schieramento allineato era già nel pieno dello scontro, ecco che
tutti i soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la
vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi delle
insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla
base contro ogni ordine ricevuto. Nessun dubbio che se gli Equi
avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi
dei suoi stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice
dichiarazione di guerra e una dimostrazione di efficienza militare.
Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli dèi. Queste
speranze spinsero gli Etruschi a scendere in guerra, nonostante la
lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte.»
In quel periodo, i comitia tributa non avevano ancora la possibilità di legiferare e i tribuni della plebe avevano poteri molto limitati; di conseguenza, i reiterati tentativi annuali di far attuare la legge, stanno ad indicare che la legge esisteva ma era disattesa.
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 45: «45 I consoli romani, a loro volta, non
temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori
del deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran
terrorizzati all'idea di scendere in campo per affrontare
contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così stazionavano
all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel
doppio pericolo. Non era escluso che il tempo e i casi della vita
avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso.
Ma proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti,
stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime li
provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi
dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di
fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa. Dicevano
che la storia della lotta di classe era un pretesto
per coprire la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era
rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini.
Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di
leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano
altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro
razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio
da sotto il fossato e le porte. La moltitudine, invece, meno
portata a simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più
profonda e si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare
ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il patriziato
potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era tra
l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico... ...La cosa era matura:
tuttavia i consoli tergiversavano. Alla fine, Fabio, vedendo che il
collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere
per paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il
silenzio e poi disse: “Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere,
te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro.
Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se prima non
giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno
scontro, han tradito una volta il console romano: gli dèi non li
tradiranno mai”. A quel punto, un centurione di nome Marco
Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse:
“Tornerò vincitore, o Marco Fabio!” Augurò che l'ira del padre
Giove, di Marte Gradivo e degli altri dèi potesse abbattersi su di
lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini,
ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il
giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a
scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. Ora sfidano
gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a
farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto
punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza differenze,
brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al
di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella
battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso
nel corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma.»
Nel 479 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48: «48 Poi entrambe le parti, patrizi e
plebei, mostrano un'uguale propensione nel voler nominare console
Cesone Fabio (Vibulano N.d.R.) accanto a Tito
Verginio (Tricosto Rutilo, N.d.R.). Il primo, all'inizio del suo mandato, lasciando da
parte guerra, leva militare e ogni altro problema governativo, si
concentrò esclusivamente sulla realizzazione del suo progetto,
fino a quel momento solo abbozzato, della riconciliazione tra
plebe e patriziato. Così, nei primi mesi di
quell'anno, per evitare che un qualche tribuno saltasse fuori con
proposte di legge agraria, suggerì ai senatori di giocare d'anticipo
e di agire autonomamente distribuendo alla plebe la
terra conquistata e facendolo nella massima
imparzialità possibile. Era giusto diventasse proprietà di
quanti avevano dato sangue e sudore per conquistarla.
I senatori bocciarono la proposta e, anzi, alcuni di loro arrivarono
a dire che l'eccesso di gloria aveva insuperbito e offuscato la mente
di Cesone una volta molto lucida. In seguito il conflitto tra
le classi urbane conobbe un periodo di stallo. I Latini erano
tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un
esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle razzie. Gli
Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle
fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro
particolarmente memorabile. Coi Veienti, invece, si registrò
una disfatta solo a causa della temerarietà dell'altro console:
l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse
arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti
coi Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a
una sorta di reciproca scorrettezza.»
Nel 476 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 52: «52 A Roma, col ritorno della
pace (con Veio, N.d.R.), anche i prezzi degli alimentari tornarono a un livello
ragionevole, sia per l'importazione di frumento dalla Campania sia
perché, una volta cessato in tutti il terrore di una nuova carestia,
vennero rimesse in circolazione le derrate nascoste durante i tempi
bui. Però, con l'abbondanza e l'inattività tornò di nuovo negli
animi un'atmosfera di malessere e, visto che all'estero non c'era più
nulla che potesse impensierire, si presero a rispolverare in
patria gli attriti di un tempo. I tribuni sobillavano i
plebei con il veleno di sempre, cioè la legge agraria;
li incitavano contro la resistenza del patriziato, e non solo contro
l'intera classe, ma anche contro i singoli individui. Quinto Considio
e Tito Genucio, promotori della legge agraria, citarono in giudizio
Tito Menenio. Lo si accusava di aver abbandonato la
roccaforte di Cremera, quando lui, in qualità di console, aveva un
accampamento fisso non lontano da quel punto. Questo episodio gli
costò carissimo, pur essendosi i senatori fatti in quattro per lui
non meno che per Coriolano e pur essendo ancora solidissima la
popolarità di suo padre Agrippa. Nella
richiesta della pena i tribuni non vollero esagerare: nonostante
avessero chiesto la pena di morte, si limitarono tuttavia a
condannarlo a un'ammenda di duemila assi. Questo gli costò comunque
la vita: si dice che non riuscendo a sopportare un disonore così
doloroso, si ammalò e ne morì.»
Nel 475 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 52: «Durante il consolato di Caio Nauzio
(Gaio Nauzio Rutilo, N.d.R.) e Publio Valerio (Publicola,
N.d.R.), proprio all'inizio dell'anno, ci fu un altro processo, questa volta ai danni di
Spurio Servilio, appena uscito di carica. Citato in giudizio dai
tribuni Lucio Cedicio e Tito Stazio, contrariamente a Menenio che
aveva adottato come linea di difesa le suppliche sue e dei senatori,
Servilio parò le accuse dei tribuni con la grande fiducia nella
propria innocenza e nel favore che vantava presso il popolo. Anche
lui era accusato per la battaglia con gli Etruschi lungo le pendici
del Gianicolo. Ma, dimostrandosi uomo di grande temperamento non meno
nel perorare la propria causa che nella difesa della patria, con un
discorso coraggiosissimo confutò non solo le accuse dei tribuni ma
anche la plebe; a essa rinfacciò di aver preteso la condanna a morte
di Tito Menenio quando era proprio grazie a suo padre che i plebei
tempo addietro erano stati ricondotti a Roma e avevano ottenuto quei
magistrati e quelle stesse leggi di cui ora abusavano. E fu proprio
la sua audacia a salvarlo. Un grande aiuto lo ebbe anche dal collega
Verginio che, prodotto in qualità di teste, divise con lui i propri
meriti. Ma l'orientamento dell'opinione pubblica era così cambiato
che l'elemento decisivo a suo discapito fu la condanna di Menenio.»
Nel 473 a.C. - A Roma ricomincia
la lotta intestina fra le classi quando il tribuno della plebe
Gneo Genucio,
avendo citato in giudizio Lucio Furio Medullino e Gaio Manilio, i consoli dell'anno precedente, per
avere impedito l'esecuzione della legge agraria di Spurio
Cassio, la mattina del giudizio è trovato cadavere,
assassinato nel proprio letto,
nonostante l'inviolabilità
dei tribuni in
carica. Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 54-55: «In quell'anno - chiunque fossero
i consoli - Furio e Manilio, accusati di fronte al popolo,
andarono in giro vestiti a lutto visitando non meno i
plebei che i giovani senatori. Li mettevano in guardia e li
dissuadevano dall'assumere cariche onorifiche e dal lasciarsi
invischiare nella gestione dello Stato; cercavano di far capire loro
che le fasce consolari, la toga pretesta e la sella curule non erano
nient'altro che accessori da pompe funebri: quegli splendidi
ornamenti valevano le bende sulla fronte delle vittime, e portarli
significava avviarsi alla morte. Se il consolato li
affascinava tanto, almeno si rendessero conto che ormai esso era
ostaggio e schiavo dello strapotere tribunizio e che il
console, ridotto al rango di subalterno dei tribuni, era costretto a
subordinare ogni suo movimento al cenno e agli ordini dei tribuni
stessi; qualunque suo movimento, qualunque segno di reverenza nei
confronti dei senatori, qualunque concezione che non contemplasse la
plebe come unica presenza all'interno dello Stato, avrebbe dovuto
fare i conti con l'esilio di Gneo Marzio e con la condanna a morte di
Menenio. Infiammati da queste parole, i senatori
cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere pubblico ma
si svolgevano in privato e all'insaputa della maggior parte dei
cittadini. Durante questi incontri una sola era la parola d'ordine:
gli imputati andavano sottratti al giudizio
ricorrendo a procedure lecite o meno; di conseguenza, più una
proposta era turbolenta, più incontrava il favore dei convenuti e
non mancavano anche i fautori di gesti assolutamente temerari. Così,
il giorno del giudizio, con la plebe in piedi nel foro (nessuno osava
fiatare nell'attesa), sulle prime ci fu un'ondata di stupore per la
mancata comparsa del tribuno e poi, quando la sorpresa si trasformò
in sospetto, tutti cominciarono a pensare che il magistrato si fosse
venduto ai patrizi e avesse proditoriamente abbandonato la causa
dello Stato. Alla fine, quelli che erano andati ad aspettare il
tribuno davanti alla porta tornarono dicendo che lo avevano
trovato morto in casa. Appena la notizia si diffuse in
tutta l'assemblea, come un esercito che si squaglia quando il
comandante cade sul campo, così la folla si disperse in tutte le
direzioni. I più terrorizzati erano però i tribuni,
perché la morte del collega aveva chiaramente dimostrato la scarsa
protezione che veniva loro garantita dalla legge sull'inviolabilità.
Né i senatori riuscirono a mascherare la propria soddisfazione: il
crimine commesso suscitò così pochi sensi di colpa che addirittura
gli innocenti volevano far vedere di avervi preso parte e tutti ormai
parlavano della violenza come unico antidoto al potere
dei tribuni.
55 Subito dopo questa vittoria, che
costituiva un pericoloso avvertimento, viene bandita una leva
militare che i consoli riescono a portare a termine senza la minima
opposizione da parte degli spaventatissimi tribuni. In
quell'occasione la plebe andò su tutte le furie
più per il silenzio dei tribuni che per l'autorità dei consoli e
cominciò a sostenere che la sua non era più libertà, che si era
tornati ai soprusi di una volta e che con Genucio il potere
tribunizio era morto e sepolto in un colpo solo.
Per resistere ai patrizi bisognava adottare e impiegare una tecnica
diversa. La sola via praticabile sembrava però questa: difendersi
da soli visto che mancava ogni altra forma di aiuto. La
scorta dei consoli consisteva di ventiquattro littori e
anch'essi erano uomini del popolo. Niente più disprezzabile e
più instabile di costoro, se solo ci fosse stato qualcuno capace di
disprezzarli. Era l'idea che ciascuno si era fatta di loro a renderli
imponenti e inquietanti. Quando ormai gli uni e gli altri si erano
reciprocamente infiammati con questi discorsi, i consoli mandarono un
littore ad arrestare Volerone Publilio, un plebeo che
non voleva essere arruolato come soldato semplice in quanto sosteneva
di essere stato centurione. Volerone si appella ai tribuni. Ma dato
che nessuno di essi si presentò a sostenere la sua causa, i consoli
ordinarono di spogliarlo e di farlo frustare. Allora Volerone disse:
“Mi appello al popolo, perché i tribuni preferiscono assistere
alla fustigazione di un cittadino romano piuttosto che
lasciarsi trucidare da voi nel loro stesso letto”. E più si
agitava e dava in escandescenze, più il littore si accaniva a
spogliarlo e a strappargli le vesti. Allora Volerone, già di per sé
possente e in più coadiuvato da quanti aveva fatto intervenire in
suo soccorso, si scrollò di dosso il littore e,
andandosi a rifugiare nel mezzo della mischia tra quelli che urlavano
con più accanimento, disse: “Mi appello al popolo e invoco la sua
protezione! Aiuto, concittadini! Aiuto, commilitoni! Non contate sui
tribuni: sono loro che han bisogno del vostro aiuto!” La gente,
quanto mai eccitata, si prepara come per andare in battaglia: era
chiaro che la situazione poteva avere qualsiasi tipo di sviluppo e
che nessun diritto pubblico o privato sarebbe stato rispettato. I
consoli, dopo aver tenuto testa a quella bufera, si resero conto di
quanto sia insicura l'autorità senza l'impiego della forza. I
littori furono malmenati e i loro fasci fatti a
pezzi; quanto poi ai consoli stessi, vennero spinti
dal foro nella curia, senza sapere fino a che punto Volerone avrebbe
voluto sfruttare quella vittoria. Quando poi, a disordini finiti,
essi convocarono il senato, si lamentarono dell'affronto subito,
della violenza popolare e della sfrontatezza di Volerone. Nonostante
molti interventi veementi, ebbe la meglio la volontà dei più
anziani, ai quali non andava affatto a genio uno scontro tra la
rabbia dei senatori e l'irrazionalità della plebe.»
Nel 472 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56: «56 Alle elezioni successive, Volerone,
divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per
quell'anno che ebbe come consoli Lucio Pinario (Mamercino, N.d.R.)
e Publio Furio (Medullino, N.d.R.). Contrariamente a quanto
tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica
per dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la
precedenza all'interesse popolare rispetto al risentimento privato e,
senza il benché minimo attacco verbale ai consoli, presentò al
popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati
della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi
tributi. Benché a prima vista sembrasse un provvedimento del
tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto
al patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni
di suo gradimento
attraverso il voto dei clienti. Questa proposta,
salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l'opposizione
incrollabile dei senatori; dato però che né l'influenza dei consoli
né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di
uno dei membri del collegio (ed era questo l'unico tipo di
ostruzionismo praticabile), la questione, a causa della sua
intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione per
l'intera durata dell'anno.»
Nel 471 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56-58: «La plebe rielegge Volerone tribuno:
i senatori, pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono
console (nel 471 a.C.,
N.d.R.)
Appio Claudio, figlio di Appio (figlio dell'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C., N.d.R.) e già subito
detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie antidemocratiche
sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito Quinzio
(Barbato, N.d.R.).
All'inizio dell'anno non si parlava d'altro che di quella legge. E
come Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio
la sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo
del suo prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei
punti a tutti i coetanei. Mentre Volerone non aveva altro argomento
che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco contro le
persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una
filippica contro Appio e le crudeltà
antipopolari della sua arrogantissima famiglia,
arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console ma un
carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la
rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere
la franchezza del suo sentire. Così, mancandogli le parole, disse:
“Visto che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti,
vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e troviamoci qui
domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò passare
la legge.” Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri, mentre
i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col
preciso intento di impedire l'approvazione della legge. Letorio
ordina di allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani
nobili rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. Allora
Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che
l'autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si
trattava di una magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi
si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando alla
tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l'allontanamento di
nessuno in quanto la formula era questa: “Se non vi dispiace,
Quiriti, allontanatevi.” Spostando la discussione sulla sfera del
diritto e facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva
facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla
rabbia, il tribuno inviò il suo messo al console, mentre
quest'ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio
era soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura.
E il tribuno avrebbe perso la propria inviolabilità, se l'intera
assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente addosso
al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse
riversata nel foro da tutti i quartieri della città. Ciò
nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle
proporzioni e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se
Quinzio, l'altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli
di afferrare il collega e di trascinarlo fuori
dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se
egli stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi, ora
richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire
i furori. Il tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa
avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i senatori avrebbero
fatto la volontà del popolo come il console quella del senato.
57 Fu difficile per Quinzio placare la
folla, ma ancora più difficile fu per i senatori placare l'altro
console. Aggiornata finalmente l'assemblea popolare, i consoli
convocarono il senato. Durante la seduta, ci furono interventi di
senso opposto, a seconda del prevalere ora della rabbia ora della
prudenza. Col passare del tempo, però, l'animosità si trasformò in
riflessione e tutti rinunciarono alla spigolosità dell'inizio: a tal
punto che arrivarono a ringraziare Quinzio per aver placato con il
suo intervento i furori della folla. Ad Appio si richiese
di accettare che l'autorità dei consoli non superasse
il limite di tollerabilità all'interno di un paese
caratterizzato dall'armonia: finché i tribuni e i consoli
accentravano ogni cosa nelle proprie persone, c'era un vuoto di forze
nel mezzo e lo Stato si riduceva a contrasti e a divisioni interne,
visto che il problema centrale non era come garantire la sicurezza ma
in quali mani stesse il potere. Da parte sua Appio, invocando la
testimonianza degli dèi e degli uomini, dichiarò che era colpa
della codardia se lo Stato stava andando alla deriva abbandonato a se
stesso; che non era il console a mancare al senato ma il senato a
mancare al console e infine che si stavano accettando condizioni più
dure di quelle accettate sul monte Sacro. Tuttavia, piegato alla fine
dall'unanimità dei senatori, si placò e la legge passò
senza particolari opposizioni.
58 Allora, per la prima volta,
i tribuni vennero eletti dai comizi tributi.
Stando a quanto si trova in Pisone, il loro numero fu aumentato
di tre, come se in passato fossero stati due. Ci
riferisce anche i nomi dei neoeletti: Gneo Siccio, Lucio Numitorio,
Marco Duilio, Spurio Icilio, Lucio Mecilio. Mentre Roma era in piena
sedizione, scoppiò una guerra coi Volsci e con gli Equi. Essi
avevano devastato le campagne in maniera da poter offrire asilo alla
plebe nel caso di qualche secessione. Una volta però compostasi la
controversia, ritirarono le loro truppe. Appio Claudio fu
mandato contro i Volsci, mentre a Quinzio toccarono gli Equi.»
La lex
Publilia Voleronis è una lex publica votata
nel 471 a.C. su proposta dei tribuni della plebe di
quell'anno, tra i quali Publilio Volerone, primo propositore della
legge, e Gaio Letorio. Con questa legge il concilio della plebe,
costituitosi "extra ordinem" dopo la prima
secessione della plebe sul Monte Sacro del 494 a.C., è riconosciuto
ufficialmente come realtà istituzionale della Repubblica romana, ed
organizzato su base tributa (ogni tribù corrispondeva a uno dei ventuno distretti territoriali). I tribuni della plebe e gli edili vennero da allora eletti nei comizi tributi, dove votavano solo i plebei possidenti o, come scriveva Livio, erano allontanati i patrizi, che in precedenza potevano far eleggere i tribuni di loro gradimento attraverso il voto dei propri clienti.
La legge Publilia modifica il
criterio di votazione nelle assemblee: fino ad allora la plebe votava
per curia e all'interno di ogni curia si votava per persona,
indipendentemente dal patrimonio e dalla residenza. Ciò permetteva
alle grandi famiglie patrizie di ingerire nelle decisioni grazie ai
loro numerosi clienti e liberti che, facendo parte della plebe,
partecipavano alle votazioni. Con la Legge Publilia si voterà per
tribù (ogni tribù corrispondeva a uno dei ventuno distretti
territoriali) e all'interno della tribù votavano solo
i possidenti escludendo così un gran numero di schiavi, liberti e clienti dei patrizi.
Sappiamo che i comitia tributa erano molto attivi e che insieme ai concili della plebe assorbirono col tempo l'attività normativa dei comizi centuriati. Emanavano le leges della repubblica a parte quelle de potestate censoria e de bello indicendo che restarono ai comizi centuriati, adottando una ritualistica religiosa semplificata. Eleggevano i questori, gli edili curuli, le cariche ausiliarie e, da un certo periodo, anche il pontefice massimo ed altre cariche sacerdotali (anche se votavano solo 17 tribù su 35 estratte a sorte, questo per motivi religiosi).
In epoca tardo repubblicana, condussero gran parte dei processi, finché il dittatore Lucio Cornelio Silla stabilì le corti permanenti (quaestiones). Svetonio racconta che al tempo di Augusto, primo imperatore romano: «E anche durante le elezioni dei tribuni, nel caso non ci fosse un numero sufficiente di candidati tra i senatori, li prese tra i cavalieri romani, tanto poi da permettere loro, una volta scaduto il mandato, di rimanere nell'ordine che volessero.» (Svetonio, Augustus, 40.)
Ancora Svetonio aggiunge, contro i brogli elettorali: «Ristabilì anche l'antico diritto dei Comizi e, stabilite molteplici pene contro la corruzione elettorale, il giorno dei Comizi divise alle tribù Fabia e Scapzia, delle quali era membro, mille sesterzi a testa, perché non si aspettassero niente da nessun candidato.» (Svetonio, Augustus, 40.)
Sappiamo che lo stesso Augusto, ogni volta che assisteva alle elezioni dei magistrati, passava tra le tribù con i suoi candidati e chiedeva i voti per gli stessi, secondo quanto prescritto dalla tradizione. E anche lui votava nella tribù, come un normale cittadino.
Tornando al 471
a.C., approvata la legge Publilia Voleronis, ad Appio
Claudio spettò il comando della campagna contro i
Volsci e a Tito Quinzio quella contro gli Equi, popolazioni
che ogni qualvolta Roma era percorsa da tensioni e disordini sociali,
ne approfittavano per compiere razzie e ruberie nei territori romani.
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 58-60: «Appio dimostrò di avere in campo militare lo stesso rigore che aveva a Roma in quello politico, e qui godeva anche di maggiore libertà perché non era frenato dalle interferenze dei tribuni. Odiava la plebe ancor più di quanto non l'avesse odiata suo padre: ne era stato sconfitto; durante il suo mandato di console eletto appositamente per fronteggiare la plebe era stata approvata una legge che i consoli precedenti, sui quali il senato non faceva troppo affidamento, erano riusciti a non far passare senza affannarsi eccessivamente. L'ira repressa e l'indignazione istigavano il suo carattere aggressivo a imporsi alle truppe con un'autorità soffocante. La violenza non fu sufficiente a domarle, in quell'ubriacatura di odio reciproco. Mettevano in pratica ogni disposizione con pigrizia, lentezza, negligenza e ostinazione: non c'erano amor proprio e paura capaci di metterli in riga. Se lui dava ordine di accelerare il passo, i soldati rallentavano apposta; se andava di persona a esortarli sul lavoro, smettevano subito tutti ciò che avevano spontaneamente intrapreso. In sua presenza abbassavano gli occhi, al suo passaggio lo maledivano sotto voce, così che l'animo di quell'uomo, irremovibile nel suo odio verso la plebe, ne era a volte scosso. Dopo aver sperimentato senza risultati tutte le sfumature del suo rigore, non voleva più avere nulla a che fare con la truppa: diceva che era colpa dei centurioni se l'esercito era corrotto e ogni tanto, per deriderli, li chiamava “tribuni della plebe” e “Voleroni”.
59 I Volsci, al corrente di tutti
questi aspetti, aumentarono così la pressione sperando che
l'esercito romano manifestasse nei confronti di Appio la stessa
disposizione all'ammutinamento mostrata nei confronti del console
Fabio. Ma gli uomini furono molto più duri con Appio che con Fabio.
Infatti non si limitarono, come nel caso di quest'ultimo, a non
volere la vittoria, bensì desiderarono la sconfitta. Una volta
schierati in ordine di battaglia, riguadagnarono l'accampamento con
una vergognosa fuga e si fermarono soltanto quando videro i Volsci
lanciarsi all'attacco delle loro fortificazioni e seminare la morte
nella retroguardia. Fu allora che i soldati romani, respingendo a
viva forza dalla trincea il nemico già vincitore, dimostrarono che
la sola cosa che stesse loro veramente a cuore era salvare
l'accampamento, ma per il resto salutarono con entusiasmo la disfatta
subita e la vergogna. Queste cose non scoraggiarono minimamente
l'aggressività di Appio. Quando però decise di ricorrere a
mezzi ancora più rigidi sul piano disciplinare e di
convocare l'adunata, i suoi diretti subalterni e i tribuni accorsero
a frotte da lui e gli consigliarono di non fare ricorso a un'autorità
il cui fondamento risiedeva nel consenso di quelli che dovevano
obbedire. Pare che i soldati non volessero comparire in adunata e qua
e là si sentissero voci di chi reclamava l'evacuazione del
territorio dei Volsci. Il nemico vincitore era poco tempo prima
arrivato a due passi dagli ingressi e dalla trincea e un disastro di
enormi proporzioni non era più soltanto un'ipotesi probabile ma una
realtà concreta di fronte ai loro occhi. Alla fine cedette, ma la
punizione dei colpevoli era soltanto rimandata; quindi, dopo aver
sospeso l'adunata, diede ordine di mettersi in marcia il giorno
successivo. Alle prime luci dell'alba, il trombettiere diede il
segnale di partenza. Proprio quando la colonna stava uscendo dal
campo, i Volsci, come svegliati di soprassalto da quello stesso
segnale, piombarono sulle retrovie. Di qui il disordine si diffuse
tra le prime linee; drappelli e compagnie erano in preda a un terrore
tale che non era più possibile né sentire gli ordini né
allinearsi. Il pensiero di tutti fu la fuga. ra mucchi di corpi e di
armi abbandonate il fuggi-fuggi generale fu così disordinato che
l'inseguimento dei nemici cessò prima della ritirata dei Romani.
Quando al termine di quella rotta scomposta i soldati ritrovarono un
assetto, il console, che li aveva seguiti tentando invano di
richiamarli al proprio dovere, li fece accampare in una zona sicura.
Poi, convocata l'adunata, se la prese - e non a torto - con la truppa
per l'insubordinazione alla disciplina militare e per l'abbandono
delle insegne. Rivolgendosi ai singoli uomini, domandava che fine
avessero fatto le insegne e le armi. I soldati privi di
armi, i signiferi che avevano perso l'insegna
e inoltre i centurioni e i duplicari colpevoli di aver
abbandonato la propria posizione furono fustigati
e quindi decapitati. Quanto alla massa dei soldati semplici,
uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato.
60 Nella campagna contro gli Equi, al
contrario, si assistette a una gara di gentilezze e di buoni
propositi tra console e truppa. Quinzio aveva un carattere più mite,
e, visti i pessimi risultati dell'autoritarismo del collega, era
ancora più soddisfatto della propria indole. Gli Equi, di fronte a
una simile sintonia tra comandante e truppa, non osarono scendere in
campo e lasciarono che il nemico devastasse e razziasse in lungo e in
largo le loro campagne. Infatti, in nessun'altra guerra del passato
si era messo insieme un bottino così ricco. Tutto fu dato alla
truppa; si aggiunsero anche gli elogi, che - si sa - toccano l'anima
del soldato non meno delle ricompense. Al rientro dell'esercito, non
solo il comandante, ma grazie al comandante addirittura i senatori
erano visti in una luce diversa, in quanto gli uomini sostenevano di
aver avuto dal senato un padre e non un tiranno come l'altra parte
dell'armata. In questa altalena di incerti episodi militari e di
disordini a Roma e all'estero, l'anno appena concluso si segnalò
soprattutto per la creazione dei comizi tributi,
evento ben più importante per l'esito favorevole della lotta che per
i suoi risultati pratici. Infatti la riduzione di prestigio dei
comizi, dovuta all'allontanamento dei patrizi, fu più
significativa che il reale aumento di forze da parte della plebe o la
sottrazione di esse al patriziato.»
Nel 470 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 61: «61 L'anno successivo, sotto i consoli Lucio Valerio (Potito,
il questore che nel 485 a.C. aveva spinto Spurio Cassio dalla rupe
Tarpea, N.d.R.)
e Tito Emilio, ci furono disordini più gravi,
dovuti tanto allo scontro tra le classi in materia di
legge agraria, quanto al processo a carico di Appio
Claudio. Acerrimo avversario della legge e sostenitore della
causa di coloro che avevano il possesso dell'agro pubblico, come se
fosse stato un terzo console, fu citato in giudizio da Marco Duilio e
da Gneo Siccio. Di fronte al popolo, in passato, non era mai stato
processato nessun imputato così inviso alla plebe e carico come lui
era del risentimento procuratosi di persona e di quello suscitato dal
padre. I patrizi, da parte loro, non si erano mai dati tanto da fare
per nessun altro. E non a caso, visto che in lui vedevano il
difensore del senato, il guardiano della loro autorità e l'uomo che
si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei plebei, lo
stesso personaggio che in quel momento era esposto alle ire della
plebe, soltanto per avere oltrepassato la misura nel mezzo dello
scontro. Uno solo tra i senatori, lo stesso Appio Claudio, aveva un
atteggiamento di completa indifferenza nei confronti dei tribuni,
della plebe e del suo processo. Né le minacce della plebe né le
suppliche del senato ebbero su di lui alcun effetto: infatti non
soltanto rimase vestito com'era e rifiutò di andare a implorare la
pietà della gente, ma, all'atto di presentare la propria difesa di
fronte all'assemblea, non si peritò neppure di smorzare o almeno di
contenere la sua notissima virulenza verbale. Stessa
espressione disegnata sul viso, stessa smorfia arrogante sulle
labbra e stessa veemenza infiammata nella parola: il tutto
così esasperato che gran parte della plebe temeva Appio da imputato
non meno di quanto lo avesse temuto da console. Perorò la propria
causa in una sola circostanza, ma con quello stesso tono
accusatorio che era la sua caratteristica peculiare in ogni
circostanza. E la fermezza dimostrata impressionò a tal punto plebe
e tribuni da portarli ad aggiornare la seduta di propria spontanea
volontà e a permettere che la pratica si trascinasse per le lunghe.
Non passò tuttavia molto tempo: prima però della data stabilita,
Appio si ammalò gravemente e morì. Dato che un tribuno cercò
di impedire che se ne pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non
volle che una personalità simile fosse privata dell'onore solenne
proprio l'ultimo giorno e non solo ne ascoltò il suo elogio funebre
con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato l'accusa contro di
lui quando era vivo, ma partecipò in massa al suo funerale.»
Nel 469 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 63-64: «63 Durante queste guerre e con gli
scontri di classe ancora in atto a Roma, vennero eletti
consoli Tito Numicio Prisco e Aulo Verginio (Tricosto Celiomontano,
N.d.R.). Era chiaro che
la plebe non avrebbe tollerato ulteriori
dilazioni alla legge agraria e si sarebbe decisa
a un'azione di forza definitiva, quando le colonne di fumo che si
alzavano dalle fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi dei contadini
preannunciarono l'avvicinarsi dei Volsci. Questa notizia soffocò sul
nascere i fermenti di rivolta ormai prossimi a un'imminente
esplosione. I consoli, chiamati d'urgenza dal senato a occuparsi
della spedizione difensiva, guidando fuori Roma la gioventù,
contribuirono a portare una certa tranquillità nel resto della
plebe...
64 L'anno si chiuse con uno spiraglio
di pace, ma, come in tutte le precedenti occasioni, si trattò di una
situazione appesa a un filo per la rivalità tra patrizi e plebei.»
Nel 468 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 64: «La
plebe, indignata, non volle prendere parte ai
comizi consolari; grazie ai voti dei senatori e dei
loro clienti vennero nominati consoli Tito Quinzio (Barbato, N.d.R.) e Quinto Servilio
(Prisco, N.d.R.). L'anno del loro mandato assomigliò a quello
appena trascorso: disordini all'inizio, e alla fine una guerra
esterna a mettere a posto ogni cosa. I
Sabini, attraversando a marce forzate i campi Crustumini, seminarono
morte e devastazione intorno al fiume Aniene; furono respinti
soltanto a due passi dalla porta Collina e dalle mura, non prima però
di aver messo insieme un consistente bottino di prigionieri e di
bestiame.»
Nel 467 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 1: «1
Dopo la presa di Anzio, vengono eletti consoli Tito Emilio
e Quinto Fabio
(Vibulano, N.d.R.).
(Nel 467 a.C.,
N.d.R.)
Quest'ultimo era quel Fabio
unico superstite
della famiglia andata distrutta presso il Cremera.
Nel suo precedente consolato, Emilio
si era già fatto promotore
della donazione di
terre alla plebe; e
proprio per questo, anche durante il suo secondo mandato, i fautori
della distribuzione agraria avevano ricominciato a sperare nella
legge e i tribuni, pensando di poter ottenere con l'aiuto di un
console quello che non avevano ottenuto per l'opposizione dei
consoli, li sostenevano. Tito Emilio
rimaneva della sua idea. I proprietari terrieri
e gran parte dei senatori,
lamentandosi che il più autorevole cittadino assumesse atteggiamenti
tribunizi e si conquistasse la popolarità con elargizioni di
proprietà altrui, avevano trasferito dalle persone dei tribuni a
quella del console il risentimento
provocato dall'intera faccenda. E di lì a poco lo scontro sarebbe
diventato durissimo, se Fabio
non avesse risolto la questione con una proposta
che non scontentava nessuna delle parti in causa: sotto il comando e
gli auspici di Tito Quinzio, l'anno
prima era stata tolta
ai Volsci una
notevole porzione di terra.
Ad Anzio, centro
strategico sulla vicina costa, si poteva fondare una colonia.
Così facendo la plebe avrebbe ottenuto la terra senza suscitare le
proteste dei proprietari e per la città sarebbe stata la pace
interna. Questa proposta
fu accolta. In
qualità di triumviri addetti alla distribuzione delle terre Fabio
nomina Tito Quinzio, Aulo Verginio e Publio Furio. L'ordine era che
gli interessati all'assegnazione di un appezzamento andassero a dare
il proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a
disposizione creò una sorta di ripulsa e le iscrizioni
furono così limitate
che si dovettero aggiungere dei coloni volsci per completare il
numero. Il resto del popolo
preferì chiedere la terra a Roma
piuttosto che riceverne altrove. Gli Equi cercarono di ottenere la
pace da Quinto Fabio - egli era giunto là con l'esercito -, ma poi
furono loro stessi a mandare tutto in fumo con un'improvvisa
incursione in terra latina.»
Nel 465 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 3: «Col ritorno in
città del console Quinzio ebbe fine anche la sospensione delle
attività giudiziarie, rimasta in vigore per quattro giorni. In
seguito venne fatto il censimento e Quinzio ne celebrò il
sacrificio conclusivo. Pare che i cittadini registrati - fatta
eccezione per orfani e vedove - ammontassero a 104.714.»
Nel 462 a.C. - Mentre si sta concludendo una serie di vittoriose battaglie con i
vicini, Roma sta per entrare in una fase di pace
esterna che subito permette lo scoppio di violenti
contrasti politici fra patrizi e plebei,
inseribili nel contesto del conflitto degli ordini.
Il tribuno della
plebe Gaio Terentilio Arsa presenta la legge che dal suo nome sarà
chiamata, appunto, Lex Terentilia che propone la
formazione di un comitato di cinque cittadini al quale sia
affidato l'incarico di stendere definitivamente le norme che
stabiliscano il potere dei consoli, allora praticamente
senza limiti. Infatti, con la caduta dei Tarquini e del
sistema monarchico romano, la reggenza politico-militare era
affidata, ogni anno, a coppie diverse di consoli, eletti fra i
patrizi dai comizi centuriati, dove l'aristocrazia possedeva la
maggioranza. I consoli però, avevano un ventaglio di poteri
simili a quelli del rex e si discostavano da tale figura solo
per la durata annuale e non vitalizia dell'incarico e per alcune
funzioni religiose che erano state trasferite a diverse figure
sacerdotali, prima fra tutte il Pontifex Maximus.
Fra l'altro in
quei tempi, non esistevano leggi scritte
e quindi il diritto era gestito in massima parte dal
patriziato attraverso la loro conoscenza e la loro
interpretazione. E l'interpretazione spesso veniva sovrapposta
a pratiche religiose quali gli auguria. In sintesi le leggi non erano
ancora state codificate nelle famose Leggi delle XII tavole. Sappiamo
inoltre, che a Roma una legge, quando era posta in discussione,
doveva terminare il suo iter; se non veniva approvata non poteva
essere ripresentata fino all'elezione di nuovi consoli.
Nel 462 a.C.
quindi, alla presentazione della legge, l'ovvia resistenza
patrizia è condotta dal pretore Quinto Fabio. Questi, con
discorsi nel Foro e cavillando sull'assenza dei consoli impegnati in
battaglie con i "soliti" nemici, riesce a fermare la
discussione. Poi tornò il console Lucio Lucrezio Tricipitino,
che con Tito Veturio Gemino Cicurino era sceso in campo contro i
Volsci e gli Equi. Lucrezio riportò a Roma un abbondante bottino e
la plebe gli attribuì il trionfo (a Veturio solo l'ovazione). Della
Lex Terentilia, per quell'anno, non si parlò più.
Il successivo 461
a.C., con consoli Publio Volumnio Amintino Gallo e Servio
Sulpicio Camerino Cornuto, tutti i tribuni della plebe
ripresentarono la Lex Terentilia. Ma ancora una
volta giunse la voce che Volsci ed Equi, facendo base ad Anzio,
avessero ripreso le armi. I consoli indissero la consueta leva
militare e, di conseguenza, fu sospesa la discussione
legislativa. I tribuni della plebe sbraitavano che questa era una
mossa dei patrizi per fermare la discussione della legge, che i
nemici erano appena stati pesantemente sconfitti e certo non volevano
ricominciare le ostilità. Dunque vararono una generale retinenza
alla leva, difendendo quelli che su indicazione nominativa dei
consoli venivano afferrati dai littori. L'agone interno di Roma
divenne rapidamente rovente. In questo quadro si inseriscono il
processo, la condanna e la fuga di Cesone Quinzio,
figlio di Lucio Quinzio Cincinnato. Tito Livio, lo storico padovano
del I secolo così ce lo presenta:
«Vi era un
giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della
sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva
saputo aggiungere molti meriti militari e un'arte oratoria che lo
rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta
la città, più pronto di lingua e di mano. Quando si piazzava in
mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che
nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i
consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli
attacchi dei tribuni e del popolo. Più volte, quando egli ebbe in
mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la
plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli
testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente
che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge
non c'era speranza.» (Tito Livio, Ab
Urbe condita libri, III, 11., Newton Compton, Roma, trad.: G.D.
Mazzocato)
I tribuni della
plebe non erano certo dei "chierichetti" ma ben presto
quasi tutti furono ridotti al silenzio. A contrattaccare fu l'ultimo
rimasto, Aulo Virginio, che mise Cesone sotto processo per capitis;
omicidio. Nessun imprigionamento per Cesone; il giovane Quinzio fu
lasciato libero di peggiorare la sua situazione. L'accusa lo fece
diventare ancora più veemente nelle sue resistenze alla lex
Terentilia. Virginio ogni tanto ripresentava la stessa legge, non
tanto perché fosse approvata ma per dare esca alle reazioni di
Cesone Quinzio che sembrava aver dichiarato guerra a tutta la plebe.
Virginio aveva così facile agio nel sobillare poi i plebei,
generando una vera e propria escalation di azioni violente e
votazioni contrastate. Secondo Livio, questo era una delle
argomentazioni di Virginio: «Quiriti, non vi rendete conto che è
impossibile avere contemporaneamente Cesone come concittadino e la
legge approvata? Ma cosa parlo di legge, lui è nemico della libertà
e batte in superbia tutti i Tarquini. Aspettate che diventi console o
dittatore, questo che è un privato cittadino e si comporta, come
potete constatare da re prepotente e tracotante.» (Ibid., III, 11.)
Livio continua: Adsentiebantur multi... molti assentivano.
Nell'avvicinarsi
del giorno del processo Cesone cominciò a capire che, se
fosse stato condannato sarebbe stata in gioco la sua libertà e che
era giunto il momento di cambiare politica. Iniziò la ricerca di
alleati e "cum multa indignitate prensabat singulos";
cioè "mortificandosi andava in giro a raccomandarsi". E
non gli mancavano né gli alleati né supporti oggettivi. «Tito
Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console,
ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia,
affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così
grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e
aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. Spurio Furio
ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo
aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche
che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti
della battaglia. Lucio Lucrezio, console l'anno precedente, e le cui
gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti,
divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava
le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia.» (Tito
Livio, ''Ibid., III, 12)
Il padre, Lucio
Quinzio detto Cincinnato (riccioluto) chiedeva semplicemente
comprensione per gli errori giovanili e un perdono basato sul fatto
che lui Lucio Quinzio non aveva mai fatto male ad alcuno. I risultati
furono poco incoraggianti e molti dei bastonati
promettevano un giudizio poco clemente. Come si
nota, nessuna accusa e nessuna difesa per l'omicidio. A Roma si
parlava d'altro. Quello che contava era la popolarità personale e la
potenza politica della famiglia.
Marco Volscio
Fittore era stato tribuno della plebe qualche anno prima, e
testimoniava che durante la peste, un gruppo di giovani vagabondava
per la Suburra con intenzioni poco raccomandabili. Era nata una rissa
e il fratello di Marco Volscio, colpito da un pugno di Cesone, era
caduto ed era stato portato a braccia a casa sua dove era morto.
Marco Volscio era convinto che fosse morto per il colpo subito ma non
era stato possibile ottenere giustizia dai consoli degli anni
precedenti.
«Volscio gridava
queste accuse in tutte le occasioni, e l'animo della gente ne fu
tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo.
Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi
oppongono violenza a violenza.» (Ibid., III, 13.)
Tito Quinzio
dichiara che essendo ancora non condannato non si poteva imprigionare
Cesone. Il tribuno per contro lo vuole imprigionare con la scusa di
evitare che si sottragga al processo con la fuga. «I tribuni cui
Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con
una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua
carcerazione, deliberano che l'imputato compaia in giudizio e che, in
previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in
denaro al popolo.» (Ibid., III, 13.)
Per fissare
l'importo della cauzione si dovette ricorrere al Senato e fino
a quando non si fosse deliberato, Cesone Quinzio doveva essere tenuto
nel Foro. Fu deliberato che Cesone dovesse essere garantito da dieci
mallevadori che versassero ognuno una cauzione di tremila assi. A
quanto scrive Livio, questo fu il primo caso di malleveria fornita,
al pubblico erario di Roma, da un imputato in un processo. A Cesone
fu concesso di allontanarsi dal Foro e lui, durante la notte, andò
esule in Etruria. Il giorno del processo Cesone non si presentò e fu
giustificato, in quanto esule volontario. Ma la vendetta dei tribuni
della plebe non mancò di colpire: «Virginio volle tenere lo stesso
i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello,
sciolsero l'adunanza. Con grande rigore la cauzione fu
richiesta al padre il quale fu costretto a vendere
tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po' di tempo in un
tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.»
(Ibid., III, 13.)
E in quel tugurio,
solo pochi mesi dopo, i senatori di Roma trovarono Cincinnato
e la moglie quando dovettero nominare un dittatore, qualcuno
di così bravo ed integro da sconfiggere i nemici della città ed
evitare di vendicarsi.
Nel 460 a.C.
la situazione esterna migliorò. Equi e Volsci non presero le armi
contro Roma e puntualmente la lex Terentilia fu
presentata alla discussione. In tale anno ci fu la rivolta
guidata dal Appio Erdonio. I patrizi, naturalmente, presero la palla
al balzo per fermare la discussione e far cadere la legge. Il console
Publio Valerio Publicola abbandonò la seduta per esortare il popolo
alla reazione contro i rivoltosi. I tribuni della plebe minimizzavano
(forse a ragione) la portata della rivolta asserendo che i ribelli
erano clientes e ospiti dei patrizi e che, una volta approvata la
legge e resa inutile la loro azione, sarebbero scomparsi alla
chetichella. Lo stallo fu eliminato dalla comparsa a Roma del
dittatore di Tusculum, città alleata dei Romani, Lucio Mamilio, che
in pratica costrinse i romani a liberare il loro stesso Campidoglio.
Nell'azione Publio Valerio cadde colpito a morte ma prima di iniziare
la battaglia aveva promesso che non si sarebbe opposto all'adunanza
della plebe. Ovvio che il patriziato non avrebbe mantenuto la
promessa; chi aveva promesso era morto e gli altri non avevano
promesso nulla. L'altro console Gaio Claudio non volle accettare la
discussione con il pretesto di aspettare l'elezione di un collega. In
dicembre, dopo mesi di roventi e inutili discussioni fu eletto
console Lucio Quinzio Cincinnato, proprio il padre del giovane Cesone
processato l'anno precedente. Cincinnato dichiarò che avrebbe mosso
guerra a Volsci ed Equi e quindi la discussione delle leggi sarebbe
stata sospesa; i romani sarebbero stati soggetti alla legislazione
militare. L'esercito fu convocato al Lago Regillo.
La questione si
infiammò fra diatribe che vedevano protagonisti i tribuni della
plebe da una parte e i consoli dall'altra. Argomento: "Cincinnato
era un privato cittadino quando Publio Valerio aveva guidato la
riscossa contro Erdonio impegnando la plebe col giuramento di
obbedienza, quindi Cincinnato non poteva costringere il popolo ad
obbedire in forza dello stesso giuramento"; si diceva inoltre
che Cincinnato volesse portare al Lago Regillo anche degli auguri per
consacrare il luogo della riunione. Questo, secondo le leggi in
vigore, avrebbe potuto dare al patriziato la possibilità di far
abrogare dai comizi centuriati quanto deciso a Roma. Un miglio fuori
Roma non esisteva diritto di appello; perfino i tribuni che in città
erano sacrosancti (intoccabili) fuori dal pomerio sarebbero
ridiventati cittadini comuni. I littori con le loro scuri potevano
operare senza limitazioni legali. Portata in Senato la questione, i
patres salomonicamente decretarono che per quell'anno la legge non
sarebbe stata presentata ma che i consoli (Cincinnato) non facessero
uscire l'esercito dalla città. Uno stentato pareggio.
Nel 459 a.C.
i nuovi consoli, Quinto Fabio Vibulano e Lucio Cornelio Maluginense
riuscirono a sottrarsi alla pressione dei tribuni e furono
"costretti" a portare l'esercito ad Anzio, una colonia che,
sotto l'attacco di Volsci ed Equi rischiava di passare al nemico.
Eliminato che fu quel pericolo si apprese che gli Equi erano entrati
a Tusculo e Roma, che appena l'anno precedente era stata aiutata dai
Tuscolani contro Appio Erdonio non poté nemmeno pensare di non
aiutare i socii. L'esercito fu dirottato e riportò una chiara
vittoria.
Ai fini di
politica interna i tribuni continuarono a ribadire che l'esercito era
tenuto fuori dalla città con delle scuse proprio per bloccare l'iter
della legge ma che avrebbero continuato lo stesso a operare per la
discussione. Il prefetto della città Lucio Lucrezio ottenne di
attendere il ritorno dei consoli. Inoltre si scoprì che il processo
a Cesone Quinzio era stato supportato da false accuse e che il figlio
di Cincinnato era innocente. I tribuni contestarono l'apertura del
processo a Volscio, (tribuno della plebe quando aveva lanciato
l'accusa a Cesone Quinzio) come trucco per fermare la discussione
della lex Terentilia. Della legge non si parlò più per tutto l'anno
perché i tribuni si concentrarono nella campagna elettorale per la
loro rielezione.
L'anno successivo,
il 458 a.C., vide il consolato di Gaio Nauzio Rutilo e Lucio
Minucio Esquilino Augurino. Questi si ritrovarono con due questioni
in sospeso: il processo a Volscio, contestato dalla plebe e l'ormai
annosa presentazione della lex Terentilia contestata dal patriziato.
La battaglia politica infuriava con l'entrata in scena anche di Tito
Quinzio Capitolino, questore, che era stato console tre volte e che
perseguiva l'accusatore del nipote con grande decisione. Sul versante
opposto il tribuno Virginio si distingueva come il più accanito
difensore della lex Terentilia. Si arrivò alla concessione di due
mesi ai consoli perché studiassero la legge e ne comprendessero gli
inganni nascosti. Questo riportò la pace interna a Roma.
A far fermare
tutto furono nuovamente gli Equi, comandati da Gracco Clelio
attaccarono Tusculo. I tuscolani chiesero aiuto a Roma. I consoli
indissero la leva e i tribuni come prassi quasi automatica- si
preparavano a bloccarne lo svolgimento. Arrivarono però anche i
Sabini che presero a saccheggiare il territorio fino quasi alle porte
di Roma. Nonostante le proteste dei tribuni la plebe prese le armi. I
consoli in carica, però non furono in grado di guidare l'esercito in
maniera efficace. Venne eletto dittatore Lucio Quinzio Cincinnato.
Questo è il momento del famoso episodio della visita dei senatori a
Cincinnato che trovano intento a lavorare i campi. Dopo la battaglia
del Monte Algido Cincinnato ritornò vincitore a Roma e, come si sa
depose la carica di dittatore. (Celebrato per secoli per quest'atto,
non viene ricordato che Cincinnato, per deporre la carica, attese
l'esito del processo a Volscio che -ovviamente anche se, pare,
giustamente- fu dichiarato colpevole ed esiliato). Altre battaglie
sull'Algido e ad Ereto permisero al patriziato di rinviare ancora la
discussione della Terentilia col pretesto dell'assenza da Roma dei
consoli.
L'anno seguente,
457 a.C., tutto ricominciò. La plebe era riuscita a far
eleggere gli stessi tribuni. e fu ripresentata la stessa legge. Gli
Equi attaccarono e distrussero il presidio romano di Corbione. I
consoli ricevettero l'incarico di portare la guerra agli Equi. La
legge fu bloccata. Ma i tribuni con la scusa che per cinque anni
erano stati presi in giro, chiesero che il loro numero fosse portato
a dieci. I patrizi, sotto la pressione esterna dovettero accettare
chiedendo in cambio di non vedere sempre eletti gli stessi tribuni.
Le guerre esterne furono combattute e della lex Terentilia non si
parlò.
Il 456 a.C.
vide consoli Marco Valerio Massimo Lettuca e Spurio Verginio Tricosto
Celiomontano che ebbero la fortuna di non vedere i tribuni presentare
la Terentilia ma ne fu approvata la lex Icilia de Aventino pubblicando
che permetteva a tutti di costruirsi una casa sull'Aventino.
Nel 455 a.C.
gli stessi dieci tribuni dell'anno prima presentarono ai nuovi
consoli Tito Romilio Roco Vaticano e Gaio Veturio Cicurino la
proposta della lex Terentilia dicendo che si vergognavano, in dieci
di vedere bloccata la legge per un biennio dopo che per cinque anni
se ne era discusso. La lotta politica-legislativa venne al solito
fermata dall'attacco degli Equi ai Tusculani. L'esercito fu spedito
sull'Algido e tornò con un ingente bottino. La lex Terentilia non
fu, naturalmente, messa in discussione.
Il 454 a.C.
vide come fatti salienti il processo intestato agli ex consoli
dell'anno precedente. Il bottino preso agli Equi sul monte Algido era
stato versato alle esauste casse dell'Erario. Questo non fu gradito
alla plebe. I consoli appena usciti di carica furono portati in
tribunale. Nonostante l'accanita difesa da parte dei patrizi furono
condannati. Tito Romilio dovette pagare una multa di 10.000 assi e
Gaio Veturio ne dovette pagare 15.000. Il risultato del processo non
intimorì i nuovi consoli Spurio Tarpeio Montano Capitolino e Aulo
Aternio Varo Fontinale i quali affermarono che a costo di dover
pagare anch'essi enormi cifre, non avrebbero permesso l'approvazione
della legge.
«E la legge
Terentilia finì con l'essere definitivamente accantonata
perché, a forza di essere continuamente presentata, era divenuta
inadeguata. [...] Tuttavia tutti convenivano sull'opportunità di
avere leggi comuni [..] Fu mandata ad Atene una commissione formata
da Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Publio Sulpicio Camerino
perché fossero copiate le famose leggi di Solone.» (Tito Livio, Ab
Urbe condita libri, III, 33, Newton Compton, Roma, trad.: G.D.
Mazzocato)
Nel 451 a.C.
è eletto console con Tito Genucio Augurino, Appio Claudio
Crasso, figlio del famigerato Appio
Claudio che era stato console nel 471 a.C. e che nel 486 a.C. aveva
determinato la condanna a morte di Spurio Crassio Vecellino, console
dell'anno precedente, reo di avere proposto la legge Cassia agraria,
osteggiata dai patrizi con in testa lo stesso Appio Claudio
Inregillense.
Fu allora che
esplose l'esigenza di pubblicare i mos, gli usi
e costumi tramandati oralmente fra i patrizi, e di promulgarli quindi
come le ''leggi delle XII
tavole'',
mentre il solo studio delle Leggi rappresentava un altro
importante fattore di discordia. Affidate alle nozioni orali, le
leggi erano poco "trasparenti" e le sentenze potevano
variare di molto in relazione a chi era accusato o accusatore.
Nello stesso 451
a.C. quindi, è istituito il primo decemvirato per
cui, per compensare la perdita della carica consolare, i nuovi
consoli sono assegnati al decemvirato, che aveva il compito di
mettere per scritto gli antichi mos (usi
e costumi) romani delle XII tavole, che in precedenza solo i patrizi
potevano conoscere, promuovendole come leggi dell'ordinamento
romano. Finalmente si era giunti alla decisione di rendere edotti
tutti i cittadini sui loro diritti e vennero quindi istituiti i
Decemviri con poteri assoluti, a cui era affidato lo studio e la
promulgazione di questo codice di leggi. Come gli altri componenti,
oltre a contribuire alla stesura di quelle che sarebbero diventate le
Leggi delle XII tavole, Appio Claudio amministrò la giustizia della
città, con grande soddisfazione di tutti i cittadini, tanto che i
romani decisero di riproporre il decemvirato anche per
l'anno successivo.
Appio Claudio
fu l'unico ad essere rieletto anche nel secondo decemvirato
(450 a.C.), che si è caratterizzato per comportamenti
autoritari e anti plebei, storicamente tipici del
personaggio in questione, e in qualche modo anche sovversivi,
perché dopo aver emanato le leggi contenute nelle XII tavole, e
quindi aver adempiuto ai compiti per cui erano stati eletti, i
decemviri non indissero nuove elezioni,
mantenendo la carica.
«Trattavano con
impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto che era
sempre il più forte ad avere ragione, qualunque capriccio gli fosse
passato per la testa. Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le
persone: si frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà
non fosse fine a se stessa, all'esecuzione del proprietario seguiva
la confisca dei beni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita, III, 37)
«Le Idi di maggio
arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al
loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero in
pubblico facendo capire di non voler assolutamente
rinunciare alla gestione del potere, né di volersi
privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza
dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo.» (Tito
Livio, Ab Urbe condita, III, 38)
In quel frangente,
i Sabini e gli Equi, convinti di poter approfittare dei dissidi
interni a Roma, tornarono a razziare le campagne romane i primi, e
quelle tuscolane i secondi. I decemviri allora si videro
costretti a convocare i Senatori per approntare
le necessarie azioni belliche.
La riunione fu
molto contrastata per la convinzione dei Senatori del comportamento
illegale dei decemviri, che avrebbero dovuto dimettersi
al termine del proprio mandato, tanto che molti Senatori, prendendo
la parola, si rivolgevano ai decemviri come questi fossero privati
cittadini e non magistrati romani.
Sfruttando però
l'astio dei Senatori per il tribunato della
plebe, che avrebbe dovuto essere ripristinato al pari del
consolato, i decemviri riuscirono ad ottenere dai Senatori
l'indizione della leva militare, che avrebbe permesso la
costituzione di due eserciti che fronteggiassero i Sabini e gli Equi
e, con lo stato di guerra, si neutralizzavano di fatto le eventuali
istituzioni repubblicane. Mentre gli otto decemviri designati
conducevano i due eserciti nella campagna bellica, ad Appio Claudio e
Spurio Oppio Cornicene fu affidata la difesa della città.
A questo punto si
sviluppò la vicenda che portò all'uccisione di Verginia
per mano del suo stesso padre, Lucio Verginio, a causa di
Appio Claudio che aveva rivestito il ruolo negativo del
potente innamorato pazzo della ragazza, e non aveva
esitato ad utilizzare le proprie prerogative pubbliche per libidinosi
scopi privati. Appio Claudio, per possedere la ragazza, l'aveva fatta
passare per schiava di un proprio cliente, sottraendola così alla
potestà legale del padre, che piuttosto di lasciarla vittima
dell'infame Appio, l'aveva soppressa; episodio questo che ricorda
Giunio Bruto e Lucrezia.
Questi eventi
portarono all'aperta ribellione dei plebei, che
minacciando la secessione da Roma, ottennero dai Senatori la
decadenza dei decemviri e la ricostituzione delle
magistrature ordinarie, consolato e tribunato della
plebe.
Dopo la caduta
dei decemviri e ristabilite le prerogative delle istituzioni
repubblicane, con i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio
Barbato e i vari Tribuni della plebe, Appio Claudio fu
accusato da Lucio Verginio, primo degli eletti tra i Tribuni,
di aver falsamente affermato che una cittadina romana, sua figlia
Verginia, fosse una schiava.
Nonostante gli
interventi dei familiari che cercarono di intercedere per Appio
Claudio presso la plebe, e nonostante lo stesso Appio volesse far
ricorso al diritto di appello, da lui negato quando era in carica
come decemviro, Lucio Verginio mantenne viva la memoria dei torti
subiti, personalmente ma anche dalla plebe di Roma, ed ottenne che
Appio Claudio fosse tradotto in carcere, dove si
suicidò, non volendo attendere il giudizio.
Al di là dell'arroganza dei secondi
decemviri, la redazione scritta delle Leggi delle XII tavole
(Duodecim tabularum leges, 451-450 a.C.),
è stato un importante passo avanti per il diritto romano, ha
limitato le interpretazioni di parte e soprattutto le ha rese
pubbliche, essendo affisse nel Foro pubblico, mentre in precedenza
solo i patrizi conoscevano, tramandandoseli oralmente, tali mos
(= usi e costumi). Proprio per questo esse furono determinanti
per lo stato di diritto nel popolo romano, anche se ci si era
solo limitati alla pubblicazione dei mos in ius:
prevedevano per esempio ancora il divieto di matrimonio tra patrizi e
plebei. Tale divieto sarà abolito nel 445 a.C. con la promulgazione
della Lex Canuleia.
Il popolo, ad ogni modo, riprese almeno
una parte del potere che aveva perduto durante il periodo di
Decemviri tanto che dopo l'ennesima battaglia sul monte Algido contro
Sabini ed Equi, per la prima volta venne decisa dal popolo
l'attribuzione del trionfo ai consoli.
I nemici attivi rimanevano i Volsci e
gli Equi che ancora una volta vennero sconfitti in varie occasioni
fra cui la battaglia di Corbione. Ma Roma era salita in autorità se,
paradossalmente in un periodo di feroci diatribe interne, fu chiesto
ai Romani, o meglio al popolo romano, un arbitrato
nella disputa che opponeva Aricini e Ardeati sul possesso di un
terreno. Il terreno fu poi tenuto da Roma per effetto della
testimonianza di Publio Scapzio.
Fu poi approvata la legge, la Lex
Canuleia, che permetteva matrimoni "misti" fra patrizi e
plebei, vietati dai Decemviri. Come ricorda Cicerone: «(I
decemviri)... stabilirono una legge disumana che fu abrogata dalla
legge Canuleia» (Marco Tullio Cicerone, de re publica, II, 63)
Infine sembra che una
delle tre cosiddette leggi Valerie-Orazie del 449 a.C.
stabilisse la validità
delle deliberazioni
plebee per tutto
il popolo romano, ma
solo dopo la ratifica
da parte del Senato.
Nel 431 a.C. ricominciano anche
le azioni contro i Volsci e gli Equi. Questi, dopo aver quasi vinto,
ricevono una solenne sconfitta nella battaglia del Monte Algido da
parte del dittatore Cincinnato. La tranquillità dei Veienti diede a
Roma, quindi, la possibilità di operare nei quadranti meridionale e
orientale senza temere attacchi dal nord. E, ogni volta che il nemico
si ritirava, scoppiavano liti politiche in città. Cesone Quinzio, il
figlio di Cincinnato, che si opponeva alla promulgazione della lex
Terentilia, fu accusato di omicidio e costretto all'esilio (in
Etruria), il padre, per pagare la mallevadoria, dovette trasferirsi
ad arare personalmente i suoi campi oltre il Tevere. Si ebbe una
rivolta di schiavi ed
esuli, circa 2.500,
guidata dal sabino Appio Erdonio che occuparono il Campidoglio
e la rocca, impresa che nemmeno i Galli di Brenno dopo la
battaglia dell'Allia riusciranno a compiere.
Dal 409 a.C. la carica di
questore divenne accessibile alla plebe: si trattava di una conquista
importante, perché, dalla riforma di Silla del 81 a.C., chi era
stato questore entrava a far parte di diritto del Senato.
«I patrizi poi aggiunsero un dono
quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima
plebe e tribuni vi avessero fatto menzione, decretò che i soldati
ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino
a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie
spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta
gioia dalla plebe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60,
op. cit.)
Ovvie le conseguenze: ringraziamenti
dei plebei, polemiche dei Tribuni che vedevano spuntate alcune delle
loro armi, proteste di chi doveva pagare. Il vantaggio immediato fu
che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio
e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in
massima parte formato da volontari. Era il 407 a.C. Sei erano
i tribuni che condussero l'esercito e misero Veio sotto assedio.
Gli etruschi convocati al tempio della dea (o dio) Voltumna non si
accordarono per portare aiuto alla città consorella. L'anno
successivo l'assedio si prolungò senza grandi avvenimenti, anche
perché continuava la guerra contro i Volsci. Conquistata la volsca
Artena però, l'esercito romano si ripresentò sotto le
mura di Veio.
La novità importante fu che anziché
cessare l'assedio nei tempi soliti per permettere agli agricoltori di
lavorare le loro terre, un esercito stipendiato poté
essere tenuto indefinitamente sotto le mura della città
etrusca. I comandanti romani fecero costruire anche i
quartieri invernali. E fu la prima volta.
Quando a Roma si seppe della novità i tribuni della plebe insorsero
dicendo che «quello era il motivo per cui era stato assegnato lo
stipendio ai soldati, e non si erano sbagliato nell'asserire che quel
dono era intinto nel veleno. La libertà della plebe era diventata
merce da vendere e la gioventù veniva tenuta lontana e segregata
dalla città e dalla repubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V,
2, op. cit.)
La battaglia politica si scatenò fra
tribuni della plebe e Appio Claudio, lasciato a Roma proprio per
contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il
patrizio; con un contrattacco notturno distrussero le
macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per
l'ennesima volta la città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre
si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al che molti
plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler
combattere volontariamente. Iniziò una corsa al volontariato,
come spesso si vide a Roma. Il senato ringraziò e trovò
nelle pieghe del bilancio di che pagare i fanti volontari e concesse
perfino un aiuto economico ai cavalieri. Il nuovo esercito, arrivato
a Veio ricostruì le vinee e fabbricò altre e nuove macchine. Da
parte della città fu maggiormente curato il vettovagliamento.
Questa fu l'altra novità di
quell'anno: fu la prima volta che i cavalieri
prestarono servizio utilizzando cavalli di loro
proprietà. Prima il cavallo, in guerra, era fornito
dallo Stato.
Fino al 450 a.C. l'ordinamento giuridico romano era limitato ai mores, gli usi e costumi, che erano conosciuti e tramandati oralmente alla propria discendenza dai patrizi, che intrattenevano rapporti con le divinità sia attraverso i sacra delle proprie gentes che con i sacra publica come àuguri. Conseguenza di questa usanza era che solo i patrizi avevano accesso a questa conoscenza, per cui le interpretazioni delle leggi e perfino la decisione di quale fosse il giorno giusto per il dibattimento di una causa, restavano in mano ai patrizi attraverso i collegi degli àuguri che decretavano i "giorni fausti" e i "giorni infausti".
D'altra parte anche le leggi delle XII tavole non portarono che miglioramenti limitati. La fissazione su bronzo e l'apposizione del testo alle colonne del tempio di Saturno, richiedevano anche la definizione di altre decisioni accessorie. Anche i giorni infausti, dovettero essere ben definiti, poiché in quei giorni era chiusa ogni attività forense. Queste leggi, inoltre, rimanevano molto discriminatorie nei confronti della plebe. Basti citare la legge che vietava il matrimonio fra componenti dei due ordini e che fu abrogata dopo pochi anni con l'approvazione - fra immani contrasti - della Lex Canuleia nel 445 a.C. In questa situazione di oppressione i plebei riuscirono ad ottenere l'istituzione dei tribuni (rappresentanti delle tribù) della plebe, la cui autorità per proteggerli dagli eccessi dei patrizi fu da questi accettata. Queste prime forme di emancipazione furono ottenute proprio grazie alla secessione, cioè la decisione di uscire in massa dalla città e di non rientrarvi fino alla soddisfazione delle richieste, rendendo impossibile la chiamata della leva militare contro i confinanti ed eventuali nemici e convincendo così Senato e patrizi alla diminuzione del loro potere quasi assoluto.
I contrasti continuarono per anni, fino al 367 a.C. quando Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio riuscirono a far promulgare le leges Liciniae Sextiae. Con queste fu stabilito che uno dei due consoli dovesse sempre essere eletto fra i componenti dell'ordine plebeo. Non molto tempo dopo, come conseguenza, ai plebei fu aperto l'accesso alle cariche di dittatore, censore e pretore.
« La censura si era resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. » (Tito Livio, Ab urbe condita, IV, 8)
Primi a ricoprire la carica, ad appannaggio dei patrizi, furono i consoli del 444 a.C., Lucio Papirio Mugillano e Lucio Sempronio Atratino, quasi a risarcimento del fatto che il loro consolato durò meno dell'anno normalmente previsto per la carica.
"Pretori", secondo Cicerone, erano detti i consoli in età arcaica. Tale titolo li avrebbe designati come capi dell'esercito; egli riteneva che il termine contenesse le stesse componenti elementari del verbo prae-ire (andare avanti a tutti, precedere, guidare). In effetti il periodo e l'incarico di comando dei consoli poteva essere detto Pretorio e già in un frammento di una legge delle XII tavole riportato da Aulo Gellio si fa menzione del pretore come del massimo magistrato cittadino. Così anche Tito Livio, che testimonia di un'antica legge in cui si parlava di un alto magistrato detto praetor maximus. Pretore era anche il titolo di una carica presso altre comunità di Latini oltre ai Romani, ed è anche il nome che Livio dava allo stratego degli Achei.
La pretura, intesa quale magistratura distinta dal consolato, venne istituita nel 367 a.C. La carica aveva durata annuale ed era accessibile solo ai patrizi. Fu infatti creata come soluzione di compromesso tra patrizi e plebei allo scopo di controbilanciare l'ottenimento da parte dei plebei dell'accesso al consolato. Tuttavia già dieci anni dopo (356 a.C.) veniva nominato il primo pretore plebeo. Il pretore era detto "collega consulibus", e veniva eletto con gli stessi auspici nei Comitia Centuriata. I consoli venivano eletti per primi, e dopo toccava ai pretori.
Era anche un Magistratus Curulis e possedeva l'Imperium, e di conseguenza era uno dei Magistrati Maiores: ma doveva rispetto e obbedienza ai consoli. Le insegne del suo ufficio erano sei littori, la sella curule, la toga praetexta. In un periodo successivo il pretore, a Roma, aveva solo due littori. Il pretorato venne inizialmente dato al console dell'anno precedente, come risulta da Livio. L. Papirio fu pretore dopo essere stato console.
Nell'anno 242 a.C., fu nominato un altro pretore il cui incarico era di amministrare la giustizia, in materia di dispute tra peregrini e cittadini Romani. Si ebbero così due pretori: