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Stemma della Repubblica Cispadana, con 4 frecce come Reggio, Modena, Bologna e Ferrara. |
La
Repubblica Cispadana è stata
la prima “Repubblica sorella” della Repubblica Francese che era
stata originata dalla rivoluzione che ha cambiato per sempre il
diritto internazionale.
Nata da territori conquistati con
fulminee vittorie, nella Campagna d'Italia del 1794, dal generale
Napoleone Bonaparte, si era avviata, nell'ottobre 1796, a costituirsi
come Confederazione ma in seguito, nel dicembre dello stesso anno,
emerse come un vero e proprio stato unitario.
Inizialmente ne fecero parte i
territori del Reggiano, del Modenese, del Bolognese e del Ferrarese,
poi si aggiunsero quelli della Garfagnana, di Massa e di Carrara e
infine comprese anche la Romagna, allora territorio di Imola.
Riuscì, attraverso diversi incontri in
tre Congressi, a stabilire uno stendardo unitario, antesignano della
bandiera italiana, a dotarsi di un'organizzazione militare sotto la
supervisione francese, a darsi una Costituzione e a programmare una
struttura di governo che non riuscirà mai a governare.
Fu però solo nominalmente uno Stato
indipendente, restando sempre sottoposto al controllo francese ed
alle direttive impartite da Bonaparte. Durante la sua breve
esistenza, dovette affrontare consistenti difficoltà dovute
soprattutto a due fattori: da un lato una grave crisi economica
causata principalmente dalle requisizioni effettuate dai Francesi nei
territori conquistati, che portarono in qualche caso a rivolte
popolari duramente represse; dall'altra, le resistenze opposte dalle
classi dirigenti civili e religiose ad accettare i principi
rivoluzionari con relativa secolarizzazione.
Sia per la sua debolezza interna, sia
per gli sviluppi internazionali che condussero alla pace siglata a
Campoformio, Bonaparte nel luglio 1797 ne decise la soppressione,
annettendola alla Repubblica Transpadana e andando così a formare la
Repubblica Cisalpina.
Tuttavia, nonostante la sua scarsa
durata, è considerata da diversi storici come il primo esempio di
istituzione democratica italiana dell'epoca contemporanea.
Nonostante relazioni incoraggianti,
anche se condite con un certo disprezzo per «le grandi città
italiane popolate solo di padroni, servitori e gentaglia ignorante»,
fu solo nel novembre del 1795 che il Direttorio di Parigi prese
seriamente in esame la situazione italiana, quando il Ministro degli
Esteri Charles-François Delacroix chiese agli agenti francesi in
Italia se ritenessero possibile crearvi una repubblica.
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Il nord italico prima della Campagna d'Italia di Napoleone Bonaparte. |
Malgrado alcune risposte poco
incoraggianti l'
intervento fu comunque deciso per l'anno
successivo, tuttavia la conquista di territori che non fossero
Piemontesi o Austriaci veniva vista principalmente come una possibile
merce di scambio per futuri trattati di pace, tesi sulla quale ancora
il 25 luglio 1796, dopo le prime vittorie napoleoniche, era basato un
memorandum di Delacroix al Direttorio, dove si delineava per l'Italia
una sorta di assetto federativo nel quale l'area emiliano-romagnola
avrebbe potuto essere affidata all'Elettore Palatino germanico in
cambio della ricca Lombardia.
Altro importante elemento della
decisione francese erano le ricchezze dei vari Stati italiani,
che si ritenevano consistenti (anche perché il territorio
peninsulare era stato risparmiato dalle distruzioni europee della
Guerra dei sette anni) e quindi in grado di ridare ossigeno
all'erario francese in grande difficoltà a causa della grave
situazione economico-finanziaria in cui si dibatteva la Francia dopo
anni di guerra e di disordini interni: era inoltre indispensabile
sostenere con requisizioni ed indennità un esercito
che sul fronte italiano era privo di mezzi, ed a questo proposito
erano molto chiare le istruzioni che il Direttorio aveva dato a
Bonaparte, nelle quali, unendo motivazioni finanziarie e zelo
ideologico, si disponeva: «bisognerà trarre forti contribuzioni e
far mantenere l'Armata d'Italia nei e dai paesi nemici. Il Direttorio
è convinto che l'Italia debba alle opere d'arte gran parte delle
ricchezze e la sua fama, ma è arrivato il tempo che esse debbano
esser trasferite in Francia per illustrare il regno della libertà»
L'Armata d'Italia, in poco più di un
mese sconfisse i Piemontesi eliminandoli dal conflitto, forzò il
passaggio del Po a Piacenza, batté gli Austriaci a Lodi,
costringendoli a ritirarsi verso oriente ed obbligandoli a
rinchiudersi dentro la fortezza di Mantova, perdendo Milano, in cui
Bonaparte entrò il 15 aprile.
Rapidamente i francesi occuparono la
Lombardia, parte del Veneto e dilagarono lungo il corso inferiore del
Po, anche se alle loro spalle si accesero diversi focolai di rivolta,
tutti duramente repressi, come nei casi di Tortona (dal 13 al 17
giugno) e di Pavia e Binasco (23 giugno).
Di fronte a queste sorprendenti novità,
le varie città emiliane ebbero inizialmente comportamenti
autonomi e contraddittori, frutto delle loro storiche diversità,
tanto che, come si vedrà, tutte inviarono proprie delegazioni a
Parigi per chiedere al Direttorio di veder riconosciute, anche in
contrasto con i propri vicini, le rispettive aspirazioni
municipalistiche campaniliste.
Modena: fuga e destituzione del
duca - Il 7 maggio 1796, all’approssimarsi delle truppe francesi e
temendo di incorrere nella stessa sorte che aveva visto il duca di
Parma costretto a fondere gli argenti della reggia per soddisfare
un'intimazione francese di denaro e di approvvigionamenti nonché di
20 opere d'arte, tra cui un San Gerolamo del Correggio (benché
formalmente in questo caso si trattasse di un regalo del duca alla
Francia)
Ercole III d'Este fuggì assieme alla
sua amante, la cantante Chiara Marini, portando con sé un cospicuo
patrimonio e rifugiandosi a Venezia assieme al ministro Giovanni
Battista Munarini... i Francesi rifiutarono di riconoscere la
neutralità ed imposero, invece, un armistizio...
A Reggio la fuga del duca da
Modena fu accolta con un misto di sdegno per la viltà dell'atto e di
speranza che ciò agevolasse il recupero di una maggior autonomia
rispetto alla città capitale del ducato, come veniva richiesto in
alcune petizioni largamente sottoscritte che vedevano nei Francesi
dei liberatori non solo dall'antico regime, ma anche dal predominio
estense.
Bologna: gli antefatti - Antenato dell'anarchico Anteo, nel 1791 Luigi
Zamboni, studente di legge all'Università di Bologna, fu avvicinato
dal còrso sedicente "abate" Bauset, alias Antoine
Christophe Saliceti. Dopo essersi arruolato nell'Armée
révolutionnaire française, fu convinto fu convinto da Saliceti a
partecipare ad una missione segreta.
Con lui si imbarcarono sulla "Feluca
Tirrena" il toscano Filippo Buonarroti, il generale Renaux, il
Saliceti e l'avvocato Boselli di Genova, esponente di quella
massoneria che aveva appoggiato la sollevazione di Parigi del 1789 e
che ora cercava di estendere il sentimento e le idee della
Rivoluzione in tutta Europa.
Dopo tre mesi, per ordine di Saliceti,
Zamboni proseguì il viaggio e sbarcò a Roma. Gli era stato affidato
il compito di arruolarsi nell'armata pontificia di papa Pio VI per
studiarne la consistenza e la strategia militare. Per
quest'operazione informativa Zamboni prese il nome di Luigi Rinaldi.
Tornato a Bologna, riferì ogni cosa al Saliceti. Questi, sulla base
del felice risultato ottenuto a Carloforte, incitò lo Zamboni ad
organizzare una sollevazione dei bolognesi contro la dominazione
assolutista della Chiesa felsinea, arruolando alla causa studenti
della stessa Università.
Sotto la guida dell'onnipresente
Saliceti, Luigi Zamboni, convinse ad una sommossa alcuni
ragazzi, tra i quali Giovanni Battista De Rolandis, Antonio Succi,
Camillo Tomesani, Antonio Forni, Angelo Sassoli, Tomaso Bambozzi,
Pietro Gavasetti, Giovanni Osbel, Giovanni Calori.
Non tutti erano studenti, alcuni erano
già laureati, altri erano uomini di strada, tutti avversi al governo
assolutista e antidemocratico dello Stato Pontificio, allora
totalmente controllato dai prelati del Santo Uffizio.
De Rolandis (provetto spadaccino) e
Zamboni assunsero il comando. Scrissero manifesti e, con l'aiuto
della mamma e della zia di quest'ultimo, Brigida e Barbara Borghi,
confezionarono coccarde tricolore alla maniera francese, sostituendo
l'azzurro col verde.
Attuata durante la notte tra il 13 ed
il 14 novembre 1794, la sommossa non ebbe esito positivo e i
due studenti furono scoperti e catturati a Covigliaio (frazione di
Firenzuola, nella valle del Santerno) e rinchiusi nelle carceri del
Torrone, insieme ad altre diciannove persone.
Luigi Zamboni fu trovato morto il 18
agosto del 1795 all'interno di una cella soprannominata
"Inferno" nella quale si trovava segregato con due
criminali, secondo alcuni esecutori materiali dell'omicidio per
strangolamento su ordine espresso dalle guardie svizzere del
Tribunale dell'Inquisizione. Secondo altre fonti storiche, il
giovane, condannato, preferì togliersi la vita. De Rolandis fu
impiccato il 23 aprile 1796 dopo crudeli torture.
Sin dalla prima metà del maggio
1796 il Senato bolognese, a fronte delle travolgenti
vittorie di Bonaparte, aveva nominato una delegazione, composta da 12
senatori, due dei quali, Caprara e Malvasia, il giorno 12 si recarono
ad incontrare le truppe francesi impegnate nel passaggio
del Po, prima della Battaglia di Lodi; intanto il Senato, senza
tener conto del governo papale (che stava tentando, con la mediazione
della Spagna, di avviare trattative con i dirigenti francesi),
pubblicò un editto con cui di ordinava «che non ardiscano né per
sé, né per altri di far suonare le campane dell'armi, né di far
adunare gli abitanti ed i paesani contro le truppe francesi che
entrino in questa provincia, ma si vuole anzi che ognuno le rispetti
e tratti amichevolmente nel loro soggiorno». Tuttavia l'andamento
delle operazioni militari impegnava i Francesi altrove e pertanto la
città, dopo quel primo incontro, restò per oltre un mese «sospesa
nelle proprie dubbiezze»
Il 18 giugno 1796 le truppe
francesi furono segnalate a Crevalcore, nel bolognese, e lo stesso
giorno un'avanguardia di cavalleria, al comando del generale
Verdier entrò in città a Bologna, seguita il giorno dopo
da un'intera divisione, forte di 7 000 uomini, al comando di Augerau,
che attraversò la Porta San Felice proprio mentre si svolgeva la
processione del Corpus Domini, generando nei Francesi l'equivoco che
si trattasse di una cerimonia in loro onore. Francesi allestirono il
proprio campo dei soldati a Crociali, a nordovest della città,
mentre gli ufficiali furono ospitati nelle case delle famiglie più
abbienti.
Nella notte del 19 giugno 1796,
Napoleone entrò a Bologna e dichiarò decaduto il
governo Pontificio. Al parco della Montagnola, luogo dell'esecuzione
di De Rolandis, venne subito eretta una stele in memoria dei due
congiurati, sormontata da un'urna votiva. Tale cenotafio venne
demolito nel 1814, al ritorno in Bologna dell'autorità Pontificia.
Bologna dunque era di fatto occupata
dai francesi, posta sotto il controllo militare del commissario
all'Armata d'Italia Antoine Christophe Saliceti, ma alla
città fu riconosciuto l'autogoverno in cambio del
riconoscimento dell'occupazione transalpina.
Per l'occasione parecchie chiese
cessarono le loro funzioni, come S. Lucia in via Castiglione e
numerosi frontali di edifici furono rivestiti con rivestimenti
scintillanti per far bella figura col generale. Fu imposto al governo
papale di pagare un'indennità di 21 milioni di lire tornesi (la
valuta francese fino all'introduzione del franco germinale del 1803),
mentre alla città ne furono richiesti 4, di cui la metà in contanti
e l'altra in oro ed argenti, oltre alla requisizione di opere d'arte
e di altri beni di valore custoditi all'Istituto delle Scienze. Fu
necessario istituire una tassa sui facoltosi.
I Francesi si impadronirono inoltre dei
beni esistenti presso il Monte di Pietà, tra i quali i depositi in
natura dei produttori tessili, da cui, tuttavia, furono tenuti esenti
quelli d'un valore inferiore alle 200 lire che Bonaparte ordinò di
restituire, proclamando che «il vincitore mal soffrirebbe di vedere
i suoi allori bagnati colle lagrime dell'indigente».
Poi Bonaparte, «informato delle
antiche prerogative e privilegi lasciati alla città quando venne il
potere dei Pontefici e come questi siano stati in ogni tempo lesi,
intende restituire alla città stessa la sostanza del suo antico
governo: in conseguenza è abolita ogni autorità e tutto il potere
legislativo si concentra per ora nel Senato»: fu tuttavia posta la
condizione che i senatori giurassero fedeltà alla Repubblica
Francese con la formula «A laude dell'onnipotente Iddio, della beata
vergine e di tutti i Santi, ad onore eziandio e riverenza
dell'invitta repubblica di Francia ...».
Anche i religiosi dovettero
giurare di «esercitare il Sacro Ministero senza perturbazione della
pubblica tranquillità» ed i Gesuiti furono diffidati «affinché non
si mescolino nei pubblici affari, altrimenti mi troverò costretto ad
espellerli per sempre». Tra coloro che si rifiutarono di giurare vi
fu, per motivi religiosi, lo scienziato Luigi Galvani. Anche a
Bologna furono eseguite dalla Commissione incaricata dal Direttorio
asportazioni di opere d'arte ed oggetti di valore, in particolare 32
dipinti di Carracci e del Guercino custoditi presso l'Accademia
Clementina che il 2 luglio 1796 presero la via di Parigi assieme a
preziosi strumenti scientifici sottratti all'Istituto delle Scienze.
I dirigenti bolognesi, di
inclinazione fortemente municipalista, resa ancora più
radicale dall'insofferenza per il predominio negli affari civili di
una Chiesa che occupava in modo improduttivo, con monasteri e conventi, un quarto della superficie urbana, sperarono che con i provvedimenti
assunti da Bonaparte fosse arrivato il momento di poter recuperare
un'ampia autonomia, ed in quella direzione il Senato si mise
immediatamente all'opera.
Nello stesso 20 giugno
1796 Bonaparte metteva mano agli assetti bolognesi e inviava a
Ferrara un ufficiale con un ordine rivolto alle
pubbliche autorità cittadine di recarsi il giorno
successivo, alle ore 12, presso il suo comando: erano
convocati
- il legato pontificio, cardinale
Pignatelli;
- il comandante del presidio della
fortezza, Manciforte;
- il Giudice dei Savi, conte Alberico
Tedeschi.
Giunti al cospetto del Generale i primi
due furono bruscamente destituiti, ricevendo l'intimazione
di allontanarsi senza rientrare in città; Pignatelli si rifugiò a
Roma, ed il comandante se ne ritornò in Svizzera.
Al Giudice dei Savi fu concesso di
rientrare, ma a due precise condizioni: avrebbe dovuto preparare gli
alloggiamenti per le truppe francesi in arrivo e predisporre il
formale giuramento di fedeltà alla Repubblica Francese da
parte del Consiglio Centumvirale.
Dopo un paio di giorni di incertezza il
24 giugno entrò in città, a Ferrara, una brigata
al comando del generale Robert, accolta da applausi e sfoggio
di coccarde tricolori, con le principali famiglie ferraresi
che si contendevano l'ospitalità degli ufficiali; il giorno
successivo il Consiglio Centumvirale si affrettava a prestare
il richiesto giuramento, con la formula: «Noi giuriamo ai
Santi Arcangeli di Dio fedeltà alla Repubblica Francese ed
ubbidienza a chiunque verrà legittimamente destinato a
rappresentarla, e che così Dio ci aiuti» (riportato in: Silvio
Pivano, Albori costituzionali d'Italia: 1796, Torino fratelli Bocca,
1913, p.280)
Seguiva l'allestimento dell'albero
della libertà, l'abbattimento degli stemmi pontifici, la
rimozione delle porte che rinchiudevano il ghetto
e la trasformazione del "Magistrato dei savi" in governo
"municipale", cui si fecero emanare tre decreti per
ordinare l'espulsione dei religiosi francesi che si erano rifugiati a
Ferrara sin dal 1791, la consegna di tutte le armi personali e
l'obbligo di emigrazione per gli stranieri non residenti, oltre al
sequestro di tutte le proprietà inglesi. Così, in meno di 48 ore,
si sfaldava senza la minima resistenza un dominio papale
durato circa 2 secoli.
Ma l'iniziale atteggiamento di favore
dimostrato dai ferraresi verso i nuovi arrivati si scontrò
quasi subito contro i primi provvedimenti del generale Robert e del
Commissario Gustave Léorat che imposero alla città il pagamento di
una contribuzione di 4 milioni di lire tornesi e, come a Bologna, si
impadronirono del Monte di Pietà, considerato uno dei più ricchi
della regione, i cui ingenti depositi presero la via di Parigi,
facendo salvi solo i beni di modico valore e le fedi nuziali. Per
mettere insieme l'ingente somma il Magistrato, benché formalmente
governo soltanto municipale, dovette rivolgersi alle località del
territorio, il che causò disordini e proteste ad Argenta
e, soprattutto, nella cittadina di Lugo, considerata una delle
più prospere della regione.
Nella località romagnola nacque una
vera e propria insurrezione armata, che non si arrestò
neppure di fronte ad alcuni tentativi di mediazione del vescovo di
Imola Barnaba Chiaramonti (il futuro Papa Pio VII) e si concluse il 6
luglio con un bombardamento francese ed un successivo
saccheggio, con molte vittime, alcune fucilazioni
e diversi ostaggi.
Mentre a Lugo si combatteva,
la municipalità ferrarese decise ai primi di luglio di
imitare le altre città (Milano, Parma, Modena, Bologna) che già
avevano inviato proprie delegazioni a Parigi, ognuna preoccupata per
le proprie mire territoriali: nel caso di Ferrara la scelta
dei delegati non fu semplice dato che i due rappresentanti Vincenzo
Massari ed Alessandro Guiccioli, incaricati di richiedere al
Direttorio l'istituzione di una federazione degli Stati che
«rimanessero liberi in Italia», ma anche di contrastare le pretese
dei bolognesi di estendersi verso il Po e la Romagna, ottennero solo
50 voti contro 40 contrari
A Bologna il 1º luglio
venne istituita una Giunta di 30 membri con il compito di
predisporre un testo costituzionale, che, con alterne vicende,
concluse i propri lavori alla fine del settembre 1796.
Il giorno successivo i delegati
bolognesi Caprara, Aldini e Savioli incontrarono Augerau per
sottoporgli la proposta di formazione di una Guardia Civica di
600 unità: inizialmente si pensava ottimisticamente ad un forte
afflusso di volontari, ma già il 19 luglio si dovette constatare che
si erano arruolati solo in 300.
Fu pertanto necessario ricorrere alla
coscrizione obbligatoria, che diede luogo a proteste e disordini in
alcune comunità rurali (come ad Anzola il 1º settembre) e inoltre
dovette scontare anche la carenza di vestiario per le divise: furono
utilizzati abiti residui di lavorazione a righe che condusse i
bolognesi a definire questa truppa 'rigaden', oltre che 'miliziotti'.
Mentre la città veniva retta
provvisoriamente dal vecchio Senato, nel movimentato quadro
politico emersero due fazioni:
- una corrente moderata, composta
dall'aristocrazia senatoria, che tendeva a preservare il proprio
dominio politico; la loro linea politica era da ricercarsi nella
tradizione "contrattualistica" di Bologna, che doveva
mantenere le antiche forme di governo e preservare l'autonomia
cittadina sotto la protezione della Francia (al pari di quanto era
accaduto sotto il dominio pontificio).
- dall'altra parte invece, un "partito"
radicale che voleva una rottura netta con le istituzioni di antico
regime e si ispirava maggiormente ai valori della rivoluzione
francese. I radicali spingevano per la creazione di una nuova
repubblica democratica, da attuarsi secondo le nuove forme della
sovranità popolare e slegandosi dai vincoli delle vecchie
istituzioni.
In questo clima di dibattiti e
confronti si stava discutendo delle nuove forme istituzionali per la
città, nonostante il Senato volesse rimandare l'argomento.
Il 6 luglio tre delegati
bolognesi si recarono a Parigi per chiedere al Direttorio
di preservare l'autonomia cittadina.
A Reggio Emilia il 10
luglio 1796 si verifica in città un tumulto, volutamente non
contrastato dai Francesi. A quel punto è il Senato reggiano a
richiedere, invocando la libertà, una serie di provvedimenti tra i
quali la restituzione dei beni ecclesiastici degli ordini soppressi,
il mantenimento a Reggio delle risorse locali, il ripristino dei
diritti sul canale dell'Enza, l'amministrazione autonoma dei beni
pubblici e la devoluzione a Reggio d'una parte dell'Università prima
accentrata nella capitale del ducato, in modo da potervi svolgere
lezioni ed esami.
A Bologna il 13 agosto la
giunta aveva già terminato la stesura definitiva che venne
presentata al Senato il 25 dello stesso mese. Questo testo era
ispirato alla Costituzione francese del 1795, giudicando inadeguate
le vecchie strutture politiche, ma con sostanziali divergenze.
A Ferrara, la calma seguita ai
fatti di Lugo era destinata a durare poco: equivocando sulla
frettolosa partenza del contingente francese diretto all’assedio di
Mantova ed ai campi di battaglia di Lonato e Castiglione,
l'arcivescovo Mattei proclamava il ripristino del potere
papale, scontrandosi con la Municipalità che si rifiutava di
appoggiare la restaurazione.
Tuttavia fu soltanto a metà agosto
che i francesi, dopo aver respinto l’offensiva di von Wurmser
ritornarono a Ferrara, intimando a Mattei di recarsi a Brescia presso
il comando di Bonaparte, dove fu tenuto prigioniero sino al 28
settembre.
Il 20 agosto un banale diverbio
avvenuto al mercato Reggio tra una popolana ed alcuni soldati
modenesi, che la Reggenza aveva inviato a Reggio per mantenere
l'ordine, fece scoccare la scintilla della rivolta, che portò,
senza spargimento di sangue, al completo allontanamento delle
truppe ducali dalla città, avvenuto 2 giorni dopo.
Seguì la proclamazione da parte
del Senato reggiano dell'indipendenza da Modena e la
richiesta di protezione francese.
Sul municipio della città venne issato
uno striscione con scritto Repubblica di Reggio.
La sommossa reggiana diventa un punto
di riferimento anche per i patrioti presenti nelle altre città
dell'Emilia, perché «i cittadini di Reggio hanno dato il più
luminoso esempio del loro amore per la libertà: non attesero che
estranea mano sciogliesse le loro catene, ma loro stessi
coraggiosamente operarono una rivoluzione».
Con un editto del 9 settembre il
Senato reggiano comunica che «ben presto si formerà una
deputazione destinata a proporre una Costituzione tutta
democratica la quale, dopo esser stata approvata dal governo
francese, sarà messa alla cauzione del popolo tanto della città
quanto del contado e paesi riuniti»; poi il Senato si dimise
convocando nuove elezioni con la nomina di 10 nuovi membri del
governo. Ma se in città le cose procedevano velocemente, non pochi
furono invece i contrasti con le località del circondario che, in
genere, subordinarono l'adesione al "nuovo corso" alla
possibilità di veder a loro volta riconosciute autonomie e diritti,
mentre in qualche altro caso, ad esempio a Gualtieri, Novellara e
soprattutto a Scandiano, rimasta una roccaforte dei partigiani del
duca, vi furono resistenze e disordini, con vittime,
che solo a fine ottobre trovarono soluzione.
In settembre a Bologna,
il Senato varò importanti misure, su pressione dei radicali
democratici.
Il 16 venne costituita una guardia
civica, e i senatori aristocratici fecero rinuncia dei propri
titoli nobiliari. Inoltre si procedette alla convocazione dei comizi
elettorali per la ratifica del piano di costituzione.
Il 16 settembre, i Milanesi
accolgono con entusiasmo una delegazione composta dai
reggiani Paradisi, Lamberti e Re, con cui discutono d'una
possibile e comune convocazione di una convenzione nazionale
composta da 120 deputati rappresentativi di tutta l'Italia
settentrionale sotto influenza francese, escluso il Piemonte, anche
se questa iniziativa non avrà poi seguito.
Pochi giorni dopo un'analoga proposta è
avanzata anche a Bologna.
Nonostante la fedeltà dimostrata dalla
Municipalità di Ferrara ed alcuni atti di governo emanati in
linea con le nuove idee in materia di annona, igiene, moneta, guardia
nazionale, ormai i francesi non consideravano più la
municipalità di Ferrara all’altezza del compito, sia per la
presenza di elementi conservatori, sia in vista dell'imminente
Congresso di Modena: così già il 25 settembre, il
commissario Saliceti, in una lettera inviata da Firenze a Bonaparte
aveva richiesto di sciogliere i governi locali per «disporre a
Ferrara di uomini più svelti», ricevendone il consenso.
Il successivo 1 ottobre 1796
Saliceti decretò la sostituzione del Consiglio Centumvirale
di Ferrara con una "Amministrazione centrale del
Ferrarese" di 15 membri da lui nominati, e la soppressione
di tutte le altre autorità municipali.
Nei primi giorni di ottobre Bonaparte,
dopo aver respinto la controffensiva austriaca sconfiggendo le truppe
del generale von Würmser a Bassano, decise di consolidare le sue
retrovie e, senza consultarsi con il Direttorio, dichiarò «infranto»
l'armistizio di giugno e decretò la decadenza del duca di Modena
che «lungi dal rientrare nei suoi Stati ne rimane sempre assente ed
invece di pagare col suo erario la maggior parte della contribuzione,
come eravamo convenuti, ne fa portare il peso al popolo di Modena
e Reggio, nel mentre che impiega il suo denaro in pro dei
nemici della Repubblica» (proclama del 13 vendemmiatore, anno V, (4
ottobre 1796) dal quartier generale di Milano)
Il giorno prima, 2000 soldati francesi,
al comando del generale Sandoz avevano
preso possesso della
città di Modena, avvenimento che alcuni predicatori
attribuirono ad una «punizione di Dio per i peccati d'Italia».
L'entusiasmo salì al massimo quando il
5 ottobre, il giorno
successivo alla dichiarazione di decadenza del duca di Modena, un
drappello della Guardia Civica reggiana, che era stata
costituita dopo il moto del 20 agosto sino a raggiungere il migliaio
di elementi, sotto il comando dall'ex ufficiale ducale Francesco
Scaruffi, sorprese e catturò a Montechiarugolo, nei pressi di
Parma, con la perdita di un militare, un reparto austriaco di
150 soldati che, usciti dall'assedio di Mantova con una sortita,
avevano intenzione di raggiungere la Toscana. Il fatto d'arme, di per
sé scarsamente significativo nell'ambito della Campagna d'Italia,
ebbe tuttavia una grande risonanza propagandistica per l'orgoglio
delle nascenti repubbliche emiliane e lo stesso Bonaparte,
segnalandolo al Direttorio quale esempio delle ritrovate virtù
militari italiane, consentì che fossero gli stessi reggiani al
comando di Carlo Ferrarini a scortare i prigionieri sino a Milano,
dove furono accolti da grandi festeggiamenti culminati con un
concerto alla Scala. Foscolo inviò ai reggiani una
lettera con la quale dedicò loro una sua ode.
L'8 ottobre a Modena
viene soppressa la Reggenza ducale estense, con il passaggio
dello Stato alla Repubblica francese, e la nomina di un Comitato
esecutivo di 7 membri, integrati da due delegati della Garfagnana e
del Frignano, che giurano fedeltà alla Francia, mentre coloro che
avevano fatto parte della Reggenza vennero espulsi.
Con la caduta del regime ducale, non
v'era più motivo di tenere separati i due territori modenese e
reggiano - a quel punto entrambi sottomessi alla Francia - e l'11
ottobre il Direttorio ne ordina la riunione sotto un
solo governo, facendo svanire ogni ipotesi di una autonoma
repubblica reggiana e provocando non poche proteste, tanto che un
documento del governo provvisorio reggiano di quei giorni
rilevava che «coi modenesi non abbiamo e non intendiamo avere
alcuna comunione di interesse»
Napoleone, preoccupato per la
situazione strategica dove lo vedeva ancora impegnato contro
l'Austria, che per quanto già sconfitta in diverse occasioni,
continuava ad attaccarlo. Ciò rendeva necessaria una
riorganizzazione dei territori conquistati, in modo da rafforzare
e rendere sicure le retrovie e allo stesso tempo diventare minaccia
per gli Austriaci; a tale fine era possibile utilizzare
l'entusiasmo suscitato, almeno in una parte delle popolazioni, dalle
idee rivoluzionarie per concedere un'autonomia che non
fosse in contrasto con le esigenze della guerra in corso.
Dopo
aver inizialmente immaginato un incontro più vasto, Bonaparte
assunse l'iniziativa il 9 ottobre
incaricando Garrau, commissario del Direttorio presso l'Armata
d'Italia, di «riunire un Congresso
a Bologna o a Modena composto da deputati degli Stati di Ferrara,
Bologna, Modena e Reggio Emilia. I deputati saranno nominati dai
diversi Governi in modo che l'assemblea sia composta da un centinaio
di persone [...]. Bisognerebbe curare che ci siano tra i deputati
nobili, preti, cardinali, commercianti, uomini di ogni stato sociale
generalmente stimati e patrioti» (Corréspondances de Napoleon Ier,
Paris, Pion-Doumaine, 1859, IIme vol, fiche 44)
Sulla
base di queste indicazioni, si lavorò alla preparazione del
Congresso e il
12 ottobre
alcuni esponenti dei governi provvisori
furono convocati da Garrau,
suscitando negli interessati qualche apprensione sul fatto che "non
si proporrà cosa che offenda la Religione e che sugli altri aspetti
nessuna risoluzione verrà presa se non avuto riguardo ai diritti del
popolo".
A
Modena è abbattuta
la statua equestre del duca ed il 12 ottobre venne emanato
un proclama che proibiva l'uso dei titoli nobiliari, dei
blasoni e delle livree, ordinandone l'abbandono entro 8 giorni, ed
abrogava i diritti dei origine feudale come i fidecommessi ed i
maggioraschi.
Il 13 ottobre Bonaparte
arriva in città a Modena, accolto con grandi onori e
festeggiamenti e nello stesso mese si intensificarono le
manifestazioni a favore del nuovo corso: si piantano alberi della
libertà a Correggio, Carpi e Montecchio.
Le
preoccupazioni
espresse a Garrau dai
rappresentanti dei
governi provvisori
emiliani il 12 ottobre sono fugate in un incontro
che si svolge il 16 ottobre
tra Bonaparte,
affiancato dai commissari francesi Garrau e Saliceti, e quattro
delegati dei governi locali cui
si dà l'indicazione che "nulla starà più a cuore ai
rappresentanti dei quattro popoli che di mantenere la Religione e la
Proprietà".
Nella
fase preparatoria al
Congresso si
determinò la distribuzione territoriale dei delegati,
che vennero nominati non soltanto nell'ambito dei governi cittadini,
ma anche tra persone influenti delle aree rurali (rappresentando così
una novità rispetto
al passato), stabilendo inizialmente 105 deputati totali, poi
leggermente aumentati con la correzione di alcuni errori di calcolo
proporzionale.
Il
primo Congresso Cispadano
- Il 16 ottobre 1796,
alla presenza di Bonaparte, che rivolse ai convenuti un saluto in
lingua italiana, sì aprì a Modena
il Primo Congresso Cispadano.
L'inaugurazione, presso Palazzo Ducale, fu accompagnata da balli e
festeggiamenti con oltre 300 convitati. Il bolognese Antonio
Aldini è eletto alla
presidenza del
Congresso. I lavori, che si protrarranno fino al 18 ottobre, si
svolgeranno nel Palazzo Rangoni, sulla Via Emilia e ben presto quella
che doveva essere una riunione a fini di
collaborazione essenzialmente militari
diventa un evento politico.
Sono
emanati due atti: il
primo è un proclama, elaborato dal deputato Favi di Ferrara,
indirizzato «a tutte le genti della Penisola» per annunciare
la realtà della neonata Confederazione
cispadana, che si dichiara aperta all'ingresso di altri popoli;
poi
con un secondo appello più specifico, scritto dal bolognese
Ferdinando Marescalchi, il Congresso si rivolge ai popoli
della Romagna, ancora sotto lo
Stato Pontificio, invitandoli esplicitamente ad unirsi alla
federazione. Il proclama di Marescalchi in particolare, ebbe una
qualche risonanza, provocando moti a Faenza, repressi dalle autorità
provocando una vittima e alcuni arresti.
In
soli tre giorni di adunanza, il primo Congresso di Modena, su cui
ancora pesavano le secolari diffidenze tra le diverse città, non
poté andare oltre una dichiarazione solenne, votata per acclamazione
alla presenza del generale Auguste Marmont a cui Bonaparte aveva
incaricato di assistere ai lavori, di voler rendere permanente
l'unione dei territori tramite
una Confederazione.
Al
fine di istituire il nuovo ente, che comprendesse e mantenesse i
governi locali già esistenti, si decise di indire un secondo
Congresso, ovviamente con il
consenso francese. La nuova assemblea doveva svolgersi a Reggio
Emilia e a differenza della
precedente i deputati
non sarebbero più stati nominati, bensì eletti
«col motivo di assicurare la felicità e la sicurezza dei popoli di
Bologna, Modena, Reggio e Ferrara».
Il
primo Congresso Cispadano
si chiude il 18
ottobre e nonostante le
difficoltà, stretto tra le resistenze al nuovo corso di una parte
delle popolazioni e le enormi difficoltà finanziarie in cui
versavano i vari territori soggetti alle indennità belliche imposte
dai Francesi, rafforzò la visione "unitaria"
delle città che vi parteciparono, pur rivestendo un'importanza
"morale" piuttosto che pragmatica. Tutto questo suscitò
apprezzamento nello stesso Bonaparte
che il 17 ottobre aveva informato il Direttorio che i delegati «sono
animati da un entusiasmo ed un patriottismo vivissimi. Credevo che i
Lombardi fossero il popolo più patriota d'Italia, ma comincio a
credere che Bologna, Ferrara, Modena e Reggio li sorpassino in fatto
di energia» (Corréspondances de Napoleon Ier, Paris, Pion-Doumaine,
1859, 2° vol, fiche 166)
In
tal modo si era compiuto un primo passo
verso l'istituzione di una repubblica una ed indivisibile,
a cui erano più favorevoli ferraresi,
reggiani e modenesi,
molto meno i bolognesi.
L'esito del Congresso si diffuse nel panorama italiano, suscitando
notevoli entusiasmi e diventando un esempio per altre realtà, come
ne è testimonianza il periodico milanese che scrisse: «L'Italia
sarà finalmente libera. Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara
hanno stabilito le basi della Confederazione Cispadana, risorta
dall'antica Lega Lombarda» (Termometro politico della Lombardia, 25
ottobre 1796)
A Bologna il clima politico si
fa sempre più teso e il 18 ottobre, i democratici passano
all'azione con un'insurrezione, innalzando l'albero della
libertà in Piazza Maggiore, con grande mobilitazione
popolare. Intervenuto direttamente Bonaparte, che ordina il rispetto
delle autorità cittadine e dell'albero della libertà, si procede
alla presentazione definitiva della nuova costituzione.
I provvedimenti rivoluzionari a Ferrara
ebbero un'accelerazione quando Bonaparte, giunto nella città
estense per una sosta il 20 e 21 ottobre, ordinò la
soppressione della Inquisizione, l’abrogazione del Tribunale
Ecclesiastico e del diritto di asilo nelle chiese, la proibizione dei
titoli nobiliari, l’incameramento da parte dell’erario dei
crediti vantati dai monasteri e l'istituzione di una amministrazione
civile per i parroci meno abbienti, da sostenere con una indennità
annua di 120 scudi (quest’ultima decisione non fu mai attuata).
Venne anche pubblicato un decreto con cui si proclamava la totale
libertà di stampa per "fornire attraverso di essa i lumi e
tutti quei mezzi atti a promuovere la pubblica felicità in tutti i
campi: l’agricoltura, il commercio, il sistema daziario, la
pubblica istruzione, i costumi". Durante i due giorni di visita
del Generale, si tennero feste da ballo al Castello Estense e
veglioni all'aperto, con distribuzione di cibo al popolo. Ma le
condizioni della zona restavano tutt’altro che tranquille sia
economicamente, a causa delle requisizioni francesi, sia
politicamente, per via delle forti, anche se latenti, resistenze che
emergeranno quando si tratterà di votare per la nuova Repubblica,
mostrando una situazione di malcontento delle campagne, non colta dai
fautori del nuovo corso, prevalentemente di estrazione urbana,
intellettuale e borghese.
A Modena, chiesto ed ottenuto
l'assenso di Garrau, il 23 ottobre al Teatro anatomico si
tiene la prima riunione della Società di Pubblica Istruzione
con lo scopo di «illuminare il popolo sui suoi diritti e doveri onde
metterlo in stato di sapersi dare e ricevere una buona legislazione»,
ove vennero invitati i soldati francesi feriti e degenti negli
ospedali ai quali si prometteva «un'eterna riconoscenza [in quanto]
l'Italia è libera e la libertà è opera vostra».
A
Bologna, il 30
ottobre, la giunta incaricata presenta il piano di Costituzione e
il sistema elettorale. Le elezioni si tennero tra il 6 e il 7
novembre.
La Costituzione della Repubblica
Bolognese fu ratificata il 4 dicembre con 454 voti a favore e 30
contrari, la prima in Italia ad essere ispirata ai valori della
Rivoluzione francese; ma non entrò mai in vigore.
La causa principale delle
difficoltà economiche restavano le contribuzioni
intimate dall'Armata d'Italia, che raggiunsero cifre enormi.
Solo nel 1796, nel giro di circa 9 mesi, i Francesi trassero
dall'Italia 45 milioni e 708 000 franchi in denaro, più 12 milioni e
120 000 in oro, argento ed altri beni, a cui andava aggiunto il
valore, anche se in gran parte immateriale, delle centinaia di opere
d'arte sottratte alle strutture pubbliche o private. Benché il
denaro non provenisse tutto dall'area emiliana, tali importi erano
comunque in grado di mettere in ginocchio, per la quota ad essa
riferita, anche un'economia florida come quella della pianura
inferiore del Po. Le requisizioni erano aggravate, nonostante
provvedimenti severi assunti in qualche caso dalle autorità militari
francesi, da «spoliazioni, ruberie, violenze e soprusi» e l'insieme
dei due fattori causò carenze di generi alimentari, cereali e
soprattutto di bovini da lavoro, dei quali fu persino bloccata
l'importazione per motivi sanitari.
Il 23 novembre il governo
provvisorio bolognese dovette intervenire in quanto diversi
parroci si erano rifiutati di tenere i comizi elettorali, spargendo
la voce che i registri servivano per una temuta leva militare. Nel
modenese, mentre i vescovi giurarono fedeltà alla Repubblica
Francese, il clero delle campagne restava ostile e lo manifestò in
vario modo, in particolare a Formigine, Spezzano, Maranello e
Nonantola.
Come già accaduto a Lugo durante
l'estate, l'insofferenza per il comportamento francese provocò
in qualche caso vere e proprie insurrezioni, scoppiate già in
autunno e proseguite nell'inverno del 1796. La prima di queste
avvenne all'inizio del dicembre 1796 a Concordia sulla Secchia
e venne agevolmente repressa dal generale Rusca, che impose la
consegna di 2 ostaggi deportati a Milano, sequestrò tutte le armi e
pretese una penale di 4 000 lire modenesi.
Fatti più gravi occorsero a Carrara,
occupata da giugno con 300 fanti e 25 ussari dal generale Lannes. Il
6 dicembre i carraresi, benché inizialmente avessero accolto con
favore e con speranze di autonomia l'arrivo dei Francesi, di fronte
alla brutalità dell'occupazione che li aveva costretti a pagare
un'indennità di 10 000 pezze ed intendeva disporre l'abbattimento,
sempre per denaro, della pineta cresciuta sull'arenile di
Marina di Carrara che fungeva da protezione dei coltivi dal
salmastro, si ribellarono abbattendo l'albero della libertà.
La repressione francese fu anche in questo caso demandata a Rusca da
Bonaparte, che ordinò: «Milano, 11 dicembre 1796, (...) Vi
recherete a Carrara e farete fucilare tre dei capi, bruciare le case
dei più in vista tra coloro che han preso parte alla ribellione e
prenderete 6 ostaggi che invierete al Castello di Milano. Bisogna far
passare al popolo la voglia di ribellarsi e di farsi sviare dai
malintezionati» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris,
Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1261)
Di tutte le sommosse antifrancesi
avvenute tra l'ottobre del 1796 e il gennaio dell'anno successivo, la
più grave fu senz'altro quella che riguardò la Garfagnana.
Per più di un mese tra novembre e gennaio, le rivolte isolarono
questa vallata, nota per la sua storica fedeltà alla dinastia
Estense, costringendo alla fuga i rappresentanti del governo modenese
di cui faceva parte anche il poeta Giovanni Fantoni. La situazione
rischiava di provocare un indebolimento strategico alle spalle
dell'Armata d'Italia e Bonaparte affidò ancora una volta al generale
Rusca il compito di riconquistare la zona. Sebbene gli insorti,
al contrario di quanto successo a Lugo, all'arrivo delle colonne
francesi si disperdessero senza opporre alcuna resistenza armata,
la repressione che ne seguì fu particolarmente dura,
con fucilazioni ordinate dalle Corti marziali, ostaggi deportati sino
a Milano, abitazioni distrutte.
Il 10 dicembre, Napoleone
riceve a Milano alcuni rappresentanti dei governi
provvisori, concedendo una mitigazione dei pesanti
carichi finanziari dell'occupazione francese ed accogliendo
alcune rimostranze per i molti abusi a cui essa stava dando
luogo.
Nonostante le crisi e l'incertezza che
caratterizzavano l'Italia settentrionale alla fine del 1796, proseguì
il cammino per l'istituzione di un soggetto istituzionale
cispadano avviata con il Congresso di Modena, e mise in evidenza
come Bonaparte non intendesse più svolgere un mero ruolo
militare, ma stesse ormai diventando una guida politica,
rendendosi sempre più autonomo dal Direttorio. Di questa
strategia faceva parte l'istituzione in Italia di nuovi Stati
basati sugli strati sociali moderati e la rinuncia ad ogni
velleità di instaurare nuovi culti o di assecondare le idee più
intransigenti. Questi propositi emersero chiaramente in una lettera
inviata a Parigi in occasione dell'apertura del secondo Congresso
Cispadano, con la quale delineava gli obiettivi politici che
riguardavano i territori emiliani, in contrasto col governo
locale che preferiva puntare sulla nobiltà e sulla borghesia
abbiente, diffidando al contrario dell'azione dei patrioti:
«Milano, 28 dicembre 1796. Le Repubbliche Cispadane sono divise in
tre partiti: 1) gli amici dei vecchi regimi, 2) i sostenitori di una
Costituzione indipendente, ma un po' aristocratica, 3) i sostenitori
della Costituzione francese o della democrazia assoluta. Io reprimo
il primo, sostengo il secondo e modero il terzo» (Correspondances de
Napoleon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1321)
Il Secondo Congresso Cispadano -
A Reggio Emilia, dopo la solenne funzione religiosa propiziatoria dei
lavori del 26 dicembre e la legatura delle campane per non disturbare
le sedute, il Congresso
inizia ufficialmente i propri lavori la mattina del 27
dicembre 1796 con la presenza
dei 102 deputati eletti, non nominati come a Modena, al cospetto di
Marmont, ufficiale di fiducia di Bonaparte, da questi delegato a
seguirne (e, secondo alcuni storici, indirizzarne) i lavori.
Lo stesso
Bonaparte aveva rivolto da Milano, al Congresso di Reggio, un saluto
augurale nel quale scriveva che «Se gli italiani d'oggi sono degni
di riscoprire i loro diritti e di darsi un libero governo, vedremo un
giorno vedere la loro patria figurare tra le potenze del globo. Siete
in una posizione più fortunata del popolo francese, potete arrivare
alla libertà senza la rivoluzione ed i suoi crimini» (Fiorini,
Introduzione, p.II)
Era quindi in un clima di grande
ottimismo, non guastato neppure dalle manifestazioni di ostilità
di una parte della popolazione reggiana verso i deputati provenienti
da Modena, che si riuniva un Congresso con cui, nel pensiero di
molti, si poteva superare la Confederazione Cispadana definita ad
ottobre a Modena creando al suo posto una vera e propria Repubblica
dotata di un proprio assetto istituzionale.
L'ondata iniziale di entusiasmo
tuttavia si scontrò sin dalla prima giornata con un ostacolo:
i deputati bolognesi insistevano per voler applicare la
costituzione della Repubblica Bolognese, votata in San Petronio
il 4 dicembre, che implicava di fatto il mantenimento di un assetto
federativo per il nuovo Stato. La soluzione, dopo non poche
discussioni, fu trovata in un cavillo che prevedeva una deroga al
mandato stesso «nel caso di urgenze». La proposta, fatta dal
deputato bolognese Anselmo Spezziani, fu di considerare la stessa
prosecuzione del congresso come un caso d'urgenza.
Questa mediazione però non impedì che
i deputati felsinei votassero contro il proclama che
stabiliva il blocco della Carta bolognese ed ordinava la
sospensione dei comizi elettorali già previsti per il 10 gennaio; la
decisione passò infatti con una maggioranza di 68 voti contro i 34
dei rappresentanti bolognesi. La votazione fu accolta con «slanci di
esaltazione e di giubilo per la concordia», e per non esacerbare gli
animi si incaricò Giuseppe Compagnoni (giornalista
di Lugo che aveva abiurato i voti sacerdotali in segno di protesta
contro le torture inferte dal Tribunale dell'Inquisizione ai
detenuti) di redigere un appello conciliante verso la città
di Bologna, nel quale si riconosceva che «voi siete una delle più
belle porzioni di questo popolo e la Costituzione che da questo
Congresso sarà posta in approvazione dovrà essere pure la vostra
[in] quello spirito patriottico per cui voi, primi tra tutti, vi
siete costituiti in popolo libero».
Superate le prime difficoltà, il
Congresso nella seduta del 30 dicembre giunge alla tanto
attesa proclamazione di una «repubblica una ed
indivisibile, in modo che le popolazioni formino un solo popolo,
una sola famiglia, per tutti gli effetti tanto passati, quanto futuri
[e che] la dolcezza di una fraterna unione succeda adunque alle
antiche rivalità fomentate dall'inumana politica del dispotismo».
Anche il debito dei quattro Stati venne dichiarato
comune. Queste decisioni furono votate nel tardo pomeriggio
per territori, e successivamente vennero approvate all'unanimità
ottenendo l'aperto applauso di Marmont; il congresso deliberò di
informarne immediatamente Bonaparte: «accettate, o generale invitto,
questa nuova repubblica; Voi ne siete il padre, Voi il protettore»,
il quale due giorni dopo rispose con la seguente lettera (che il
Congresso deliberò immediatamente di stampare e distribuire
ovunque): «Milano, 1 gennaio 1797, Al Cittadino Presidente del
Congresso Cispadano, ho appreso con vivo interesse che le repubbliche
cispadane si erano riunite in una sola e che, prendendo come simbolo
un turcasso, si siano convinte che la loro forza sta nell'unità ed
indivisibilità. La povera Italia è da tempo esclusa dai tavoli
delle potenze europee: se gli italiani, oggi, sono degni di
riscoprire i propri diritti e darsi un libero governo, si vedrà un
giorno la loro patria figurare gloriosamente tra le potenze del
globo. Ma non dimenticate che le leggi sono nulla senza la forza. La
vostra prima preoccupazione deve riguardare l'organizzazione
militare» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine,
1859, 2° vol, fiche 1349)
Nonostante questo risultato si
manifestò ancora incertezza sul ruolo del Congresso, tanto che
riemerse ancora la posizione, del bolognese Ignazio Magnani, che
sottilizzando sulla differenza tra Repubblica "formata" ed
"attivata", propose di sciogliere l'assemblea, facendo
salva la Costituzione bolognese. Ad essa si contrappose la proposta
di Bertolani di dichiarare invece il Congresso stesso quale
organo permanente della Repubblica, mozione che fu approvata
seppure con i 30 voti contrari dei bolognesi, il che indusse un
deputato reggiano, Notari, ad accusarli di «voler giudaicamente
preservare le idee dell'aristocrazia», causando nella sala
confusione ed alterchi.
 |
Repubblica Cispadana con confini verdi nella carta, che inizialmente comprende i 4 territori di Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara, a cui in seguito si aggiungeranno Garfagnana, Massa, Carrara e infine Imola, la Romagna. Con confini in rosso la Repubblica di Venezia, in giallo il Ducato di Milano degli Asburgo d'Austria.
|
Nei giorni seguenti, il Congresso di
Reggio proseguì faticosamente e confusamente, segnato
ancora da molti contrasti. Al conflitto tra la visione
unitaria e quella localistica-federale, che già
aveva caratterizzato lo scontro iniziale con i Bolognesi, e
che aveva portato alla decisione di far decadere le autorità locali,
prevalsa con solo 51 voti contro 49, si aggiunse e si intrecciò il
contrasto tra la tendenza democratica e la prevalente
estrazione moderata dei deputati, sia sui principi sociali
ed economici che su quelli relativi alla libertà di culto.
In questo contesto di incertezza ed
improvvisazione, il Congresso trovò comunque altri due
momenti altamente unitari:
- il primo avvenne il 7 gennaio 1797
e fu l'unanime approvazione, su mozione del deputato
ex sacerdote lughese Giuseppe Compagnoni, del vessillo
tricolore che egli propose di rendere «universale»,
rispetto a quelle delle coorti cispadane dei vari territori, formato
dai colori verde, bianco e rosso disposti orizzontalmente e con al
centro le 4 frecce rappresentanti i territori della repubblica.
- Il secondo fu l'arrivo a Reggio, l'8
gennaio, dei deputati provenienti dalla Garfagnana,
che a seguito della sommossa non avevano potuto essere eletti, per
cui furono nominati dal generale Rusca nelle persone di Giuseppe
Cozza e Paolo Venturelli in quanto «assolutamente devoti al governo
di Modena ed alla Repubblica Francese». Accolti «tra i giubbili e
gli applausi, [essi] vengono a riunirsi sotto le insegne della
libertà e raccontano come Rusca abbia ristabilito l'ordine».
 |
Bandiera della Repubblica Cispadana al Museo del Tricolore di Reggio Emilia. |
Nel frattempo il Congresso aveva
deliberato l'invio di due suoi componenti, Lamberti e Natali, a Massa
per sostenere l'unione alla Cispadana, poi avvenuta, di quella
città e della più riottosa Carrara.
A causa dei tentennamenti che
caratterizzarono il Congresso di Reggio, cui pure si doveva la
proclamazione della Repubblica e dei suoi simboli, esso non riuscì
affrontare la questione più importante, quella
costituzionale. Solo dopo diversi giorni fu votata, su
proposta del reggiano Pistorini, la proposta di formare una
commissione che redigesse un Piano di Costituzione - composta da 8
membri, 2 per territorio - salvo poi, qualche giorno dopo, incaricare
invece di tale adempimento il Comitato di governo provvisorio nel
frattempo nominato e concedendogli ben 2 mesi di tempo.
Del resto lo stesso Napoleone aveva
scritto a Marmont già il 1º gennaio: «sarebbe meglio che
lasciassero i quattro governi provvisori come sono sino a che abbiano
maturato la loro Costituzione e riunito una convenzione nazionale»
(Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2°
vol, fiche 1361)
Il "consiglio" di
Bonaparte annullava molta parte del faticoso lavoro
intrapreso dal Congresso nel corso di ben sedici sedute,
salvando solo la proclamazione della Repubblica e del suo stendardo,
cancellando l'istituzione del Governo provvisorio e le relative
nomine, e restringeva a soli dieci giorni il tempo per predisporre il
testo costituzionale.
La Commissione nominata per
preparare il testo della Costituzione era composta
da:
- l'avvocato Antonio Aldini ed il marchese Federico Angelelli per
Bologna;
- il letterato Giovanni Paradisi ed il
magistrato Pellegrino Nobili, per Reggio Emilia;
- l'avvocato Benedetto Medici ed il
canonico Carmine Contri per Modena;
- il notaio Onorio Pasetti ed il giurista
Carlo Facci per Ferrara.
Tuttavia Bonaparte non si dimostrò
molto convinto della loro preparazione, al punto che chiese, senza
poi ottenerlo, che da Parigi venissero inviati tre giuristi francesi,
tra i quali l'abate Sieyès.
Il Terzo Congresso Cispadano
- In seguito all'intervento di Bonaparte, che aveva
bruscamente sospeso il Congresso di Reggio, gli stessi deputati si
ritrovarono a Modena il 21 gennaio.
Nel frattempo i francesi avevano vinto
a Rivoli, e da lì a poco si sarebbe arrivati alla resa di Mantova,
contemporaneamente all'attacco di Napoleone allo Stato
Pontificio. Questi avvenimenti rafforzarono il dominio francese
nel nord Italia, al riparo del quale il Congresso cispadano poté
dedicarsi ad elaborare la Costituzione.
Intanto la Repubblica si stava
ingrandendo: il 30 gennaio erano arrivati, tra gli applausi, i
deputati di Massa e Carrara, e il 1º febbraio Imola
fu unita alla Cispadana.
Ma ciò non impedì che il Congresso
fosse pervaso, su molti temi, da scontri tra le diverse
tendenze, impegnandosi in una discussione così lunga da suscitare la
crescente impazienza di Bonaparte.
Il principale argomento di
contrasto per tutta la durata del terzo Congresso riguardò il
ruolo costituzionale da assegnare alla religione, per
il quale si fronteggiarono i fautori della definizione del
cattolicesimo quale "culto dominante" e coloro che invece
sostenevano che la Carta non doveva menzionare tale aspetto. Questo
dibattito mise in evidenza anche il più generale conflitto
tra le tendenze socialmente moderate e quelle più
radicali, come emerse dalle opposte tesi dei deputati Niccolò
Fava, di Bologna, ed ancora Giuseppe Compagnoni, di Ferrara: «Vi
siete impegnati al dare al popolo cispadano una Costituzione fondata
sul principio di libertà ed eguaglianza: ora, se proclamate
nell'atto costituzionale una religione, voi violereste libertà ed
eguaglianza....La libertà di religione è anche necessaria per
rendere quella cattolica vigorosa e florida» (Giuseppe Compagnoni,
dall'opuscolo Intervento del deputato Giuseppe Compagnoni al
Congresso di Modena, 4 febbraio 1797, stampato in Modena)
Alla fine i sostenitori della
menzione al cattolicesimo in Costituzione si imposero largamente
con 70 voti a 31, mentre l'unico successo dei fautori della libertà
di culto fu la votazione (76 a favore e 23 contrari) che escluse i
religiosi da ogni elettorato passivo, anche per le amministrazioni
locali, laddove emerse l'ostilità dei bolognesi verso il trascorso
dominio papale. In merito alla libertà di culto, in Costituzione
rimase solo un generico diritto a «non essere inquietati per
opinione religiosa»
Nel corso delle 38 sedute del
Congresso di Modena, numerosi scontri evidenziarono che le
tendenze moderate prevalevano su quelle più
progressiste, che rimanevano
minoritarie.
In
particolare, nel corso della 21ª sessione, il 12 febbraio
1797, quando si trattò della pubblica istruzione. La proposta
del deputato Contri, che prevedeva come la Repubblica fosse tenuta «a
prender cura dell'istruzione dei cittadini» rimuovendo la cause
socioeconomiche che potessero impedire l'esercizio del diritto allo
studio, ottenne solo 10 voti a favore contro 78, benché venissero
comunque previste in ogni circondario scuole primarie laiche per
fanciulli e fanciulle, con maestri pagati dallo Stato.
Non poche sedute del Congresso furono
impegnate a determinare l'assetto territoriale della nascente
Repubblica in quanto riemersero tutte le antiche gelosie e diffidenze
tra i territori.
Tra il 14 ed il 25 febbraio la
discussione fu più volte rinviata e ripresa dedicandovi ben sei
sedute senza che si riuscisse a raggiungere una definizione
territoriale compiuta, per la preoccupazione di molti
congressisti di scongiurare un peso eccessivo di Bologna, che
contava 197.000 abitanti rispetto ai circa 950.000 dell'intera
Repubblica.
Il protrarsi di queste discussioni
causò la crescente irritazione di Bonaparte che dopo aveva
concesso, senza esito, altri 10 giorni per chiudere i lavori con
scadenza al 12 febbraio, finché all'una di notte del 24 febbraio, il
Generale apportò alcune modifiche al testo che furono accolte senza
discussioni dal Congresso, tra cui la definizione della sezione,
in luogo della parrocchie, quale unità elettorale di base e
la riduzione del Direttorio da 5 a 3 membri.
Alla fine, dopo un'ulteriore
minaccia di Bonaparte di imporre un governo militare qualora la
Carta non fosse stata approvata, il 1º marzo la Costituzione,
composta di 404 articoli suddivisi in 16 Titoli più 12 disposizioni
provvisorie, era pronta per essere votata dal Congresso,
suggellata dal suo articolo finale: «La presente Costituzione si
affida alla saviezza e fedeltà del Corpo Legislativo, del Direttorio
Esecutivo, degli amministratori, dei Giudici, alla vigilanza dei
padri di famiglia, all'affetto delle madri e delle spose, al coraggio
dei giovani ed all'unione e virtù di tutti i cispadani»
Napoleone, dopo i precedenti
interventi sul testo, anche al momento di apporre la sua firma
di ratifica manifestò incertezze a proposito dell'articolo
sulla religione, poi diede il via libera con un assenso poco
convinto che, secondo qualche storico, già prefigurava la sua
scarsa stima per la neonata Repubblica, come misero in luce le
decisioni assunte in seguito, di annetterla a quella Cisalpina. Il
Congresso, dopo oltre due mesi di esistenza tra Reggio Emilia e
Modena, si sciolse alle 19:15 dello stesso 1º marzo.
Nonostante i
tre Congressi avessero
comportato una
rottura epocale rispetto a regimi secolari
trattandosi della «prima ed unica Costituente delle repubbliche
italiane create dalla Francia rivoluzionaria, di importanza storica
per l'Italia», il
testo costituzionale che faticosamente ne
scaturì raccolse a suo tempo
non poche critiche sia
all'interno che fuori dalla Cispadana.
Si accusarono i costituenti di
eccessivo moderatismo e di non aver saputo interpretare
correttamente i principi rivoluzionari, per cui «ogni buon italiano
non può vedere senza indignazione l'attitudine nulla e quasi
liberticida del Congresso: gli italiani rigenerati hanno bisogno di
poche leggi semplici ed egualmente favorevoli a tutti e d'una base
democratica, cioè eguaglianza perfetta dei diritti».
A Milano si scrisse che «
non può
sentirsi all'orecchio, a meno di scandalizzare ogni amico della
buona filosofia,
di una religione "
dominante",
parola troppo lesiva dei diritti degli uomini per non meritare la più
severa censura e la più sollecita emenda».
Voti contrari ed astensionismo
- Il diffuso dissenso,
frutto di opposte tendenze, che aveva segnato la nascita della
Costituzione Cispadana emerse con chiarezza quando il 19 marzo 1797
si svolsero i comizi indetti per approvarla, dopo che si era
costituito un Comitato di verificazione dei risultati.
Le votazioni si
svolsero tra non pochi problemi: in alcuni centri si verificarono dei
tumulti ed in qualche località prevalsero i voti contrari.
In
molti centri, tra cui Lugo, Cotignola, Fusignano e qualche frazione
di Imola, si segnalarono comportamenti ostili, quasi di boicottaggio,
da parte dei parroci
cui spettava la tenuta dei registri elettorali.
Nel Dipartimento
del Po (il Ferrarese) su 185 parrocchie si votò solo in 73 e dei
231.000 elettori solo 99.000, meno della metà, si recarono alle
urne; nel reggiano vi furono molte contestazioni dato che la carta
non prevedeva nulla in merito ai fitti agricoli.
Per contro
altrove, in particolare a Modena, prevalevano opposizioni contrarie
di impronta giacobina, che si riconoscevano nell'azione della Società
di Pubblica Istruzione animata da Giovanni Fantoni, nella quale si
arrivò a costituire formazioni militari composte da fanciulli di età
inferiore a 12 anni.
Tutto
questo fece temere il peggio ai fautori della Costituzione ed indusse
alcuni di loro, tra i quali il Compagnoni, ad ipotizzare anche alcuni
accorgimenti tecnici, al limite del broglio, per raggiungere comunque
il risultato.
Ci
vollero ancora otto difficili giorni perché il 27 marzo
venisse proclamato un risultato che
assegnava alla Costituzione 76.382 voti favorevoli a fronte di 14.259
voti contrari: non proprio un plebiscito, tenuto conto della notevole
astensione e del regime di occupazione militare dei territori; ma sul
momento prevalse la soddisfazione che indusse il Comitato di
verificazione ad emanare, con un ottimismo destinato a durare poco,
un proclama con cui annunciava «Siamo a quest'ora un popolo
costituito, abbiamo un patto sociale solennemente sanzionato, avremo
tra poco un governo stabile, una rappresentanza legale, un corpo di
magistrati e di funzionari pubblici eletti»
Bologna,
per un breve periodo, tra aprile e maggio 1797, sarà la
capitale della
neonata Repubblica.
Elezioni del Parlamento e
del Direttorio Cispadano -
Il passo successivo sul cammino della Repubblica furono le elezioni
indette dall'1 al 3 aprile
per il Corpo Legislativo
organizzato in un sistema bicamerale
composto da una camera bassa, il Consiglio dei Sessanta, ed una
Camera alta, il Consiglio dei Trenta.
Se
l'approvazione della
Costituzione aveva
dimostrato l'esistenza di un blocco
"moderato"
scontento della nuova realtà, il risultato elettorale
fu, da
questo punto di vista, ancora più evidente poiché
gli eletti risultarono in netta prevalenza provenire
dall'ambiente aristocratico,
al cui successo aveva contribuito l'azione
di molti ecclesiastici.
Erano infatti
numerosi coloro che avevano abbracciato il nuovo corso solo
per poterlo indirizzare, ma vi furono anche casi di aperta ostilità
come accadde a Lugo dove fu eletto Matteo Manzoni, uno dei capi della
rivolta del luglio 1796, oppure come quello del cardinal Mattei di
Ferrara, che definì "eretica" la Repubblica in quanto vi
era consentita la libertà di pensiero.
Analoga
tendenza prevalse per le altre numerosissime cariche in palio in
quella tornata elettorale, dai Giurati della Corte di Giustizia
all'Accusatore Pubblico, dai Giudici Civili al Cancelliere Criminale,
ai membri del Tribunale di Cassazione.
La fine della Repubblica
Cispadana - L'annessione alla Cisalpina era ormai
imminente (la nuova Repubblica fu solennemente inaugurata il 9
luglio) quando i dirigenti in carica a Bologna
proposero che fosse almeno,
per il territorio cispadano, l'efficacia dell'articolo della
Costituzione Cisalpina sulla religione. Questa
richiesta fu però scavalcata da una petizione, che raccolse
decine di migliaia di firme, con cui si chiedeva l'unione delle
due repubbliche; essa peraltro andava incontro ad una indicazione
del Direttorio che da Parigi aveva scritto in tal senso al Generale,
per impaurire l'Austria.
Anche Bonaparte, in una fase in cui le
trattative di pace con l'Austria andavano a rilento, «prese partito
di creare la Repubblica Cisalpina fondendo Cispadana e Transpadana,
così riunendo sotto lo stesso governo 3 o 4 milioni di abitanti,
garantendo una forza capace di influire sugli eventi a venire».
L'unione infine era caldeggiata,
oltre che dalla Amministrazione Centrale del Ferrarese, anche dai
dirigenti della Legione Cispadana, che lamentavano le precarie
condizioni in cui veniva lasciata la truppa ed assicuravano il
Generale sugli «auspici universali di quei liberi territori per una
vasta unione». Di fronte alle petizioni ed agli ordini del
Direttorio, Napoleone non ritenne necessaria una seconda imposizione:
«Ho ricevuto nuovi ordini dal Direttorio per riunire Bologna e
Ferrara con la Cisalpina. Ho preso un "mezzo termine"
di lasciare che quei Paesi facciano quello che vogliono [...] Se
vogliono unirsi non possiamo impedirglielo. Milano, 18 luglio 1797»
(Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2°
vol, fiche 2025)
Ma fu solo a seguito del proclama
pubblicato il 26 luglio, a firma di Gian Galeazzo Serbelloni, con cui
il Direttorio Cisalpino dichiarava di accettare l'offerta
di unione «in una sola e medesima famiglia per il vantaggio
comune ed il bene della libertà», che il Generale si mosse,
inviando a Bologna il fido aiutante di campo Eugenio di Beauharnais,
con i dispacci che disponevano di cessare ogni attività di
governo: quando essi vennero consegnati ai dirigenti bolognesi
ancora in carica, erano le 22:30 del 29 luglio 1797 e in quel
momento la Repubblica Cispadana cessò di esistere.
 |
La Repubblica Cisalpina. |
I giacobini reagirono con
manifestazioni di giubilo poiché da sempre ostili alle resistenze
frapposte dai governanti cispadani, e già da qualche giorno avevano
annunciato:
«Siamo Cisalpini! La cabala
dell'egoismo, dell'impostura, del fanatismo è sventata.
Alza infine, o Bologna, il franco. Se
una catena di fatali circostanze ti ha tratta a porre confidenza
negli agenti della mai estinta senatoria oligarchia, ora che i tuoi
segreti voti sono stati esauditi, spiega arditi voli e lanciati
coraggiosa nella carriera delle solide libertà.»
Con il termine giacobinismo si
intende un movimento e un'ideologia politica variegata, ma unita dal
repubblicanesimo, dalla sovranità popolare, dal
dirigismo economico e dall'anticlericalismo, risalenti
in origine all'esperienza del “Club dei Giacobini”, (Club des
Jacobins), associazione politica fondata a Parigi, nel novembre 1789,
con sede nel convento domenicano di San Giacomo
(Saint-Jacobus), in rue Saint-Honoré. Il nome ufficiale del loro
movimento, dall'8 febbraio 1790, fu “Società degli Amici della
Costituzione”
I rivoluzionari più radicali, non solo
giacobini, ritenevano la religione cristiana dominante, in
particolare quella cattolica, superstiziosa e tirannica, sostenendo
che ogni essere umano si sarebbe dovuto ispirare a ideali illuministi
come la ragione, la libertà e la natura.
Durante la Rivoluzione francese,
soprattutto nella sua fase più radicale (durante il regime del
Terrore: fine 1792 - luglio 1794) guidata dal leader del Club
Maximilien de Robespierre, membro del Comitato di Salute Pubblica e
della Convenzione nazionale, la vita della Repubblica francese era
dominata soprattutto da membri appartenenti al Club, che sopravvisse
a stento alla caduta di Robespierre e fu soppresso dalle autorità il
12 novembre 1794.
I Giacobini, come i Cordiglieri
con cui formavano i Montagnardi (ad un certo punto li egemonizzarono
facendoli coincidere), si distinguevano dai Girondini soprattutto per
l'opposizione al liberismo e al federalismo, sostenendo
lo statalismo, la democrazia e il centralismo, oltre che la
radicalizzazione della rivoluzione, senza raggiungere gli estremi dei
movimenti non partitici come gli Enragés e della fazione degli
hebertisti (che pur appoggiata fortemente dai Sanculotti, rimase un
movimento più legato alla borghesia del Terzo stato), ma spazzando
via anche violentemente ogni residuo dell'Antico Regime e tutto ciò
che era considerato controrivoluzionario.
Nel momento di massimo potere, il Club
era considerabile come il partito istituzionale più radicale della
Rivoluzione, situato all'estrema sinistra della Convenzione
nazionale, da cui è nata la distinzione fra destra e sinistra.
La Convenzione Nazionale, durante la
Rivoluzione Francese, segnò la nascita della distinzione tra
destra e sinistra politica, principalmente per la disposizione
dei seggi all'interno dell'aula. I deputati che sedevano alla destra
del presidente erano i Girondini, più moderati, mentre quelli alla
sinistra erano i Montagnardi, più radicali. Al centro, senza una
posizione politica ben definita, si trovava la Pianura (o Palude).
In sintesi, i Giacobini erano più
orientati verso le riforme sociali e un forte potere centrale, mentre
i Girondini erano più propensi al decentramento, al libero mercato e
alla moderazione.
Ispirato alle teorie di Jean-Jacques
Rousseau e di alcuni illuministi, ma nella prassi ideata e attuata
dai rivoluzionari come Marat e Robespierre (ispirati anche dalla
visione rousseauiana idealizzata delle virtù antiche come tramandate
da Plutarco, dagli stoici e da Cicerone e prendendo inoltre a modello
parziale l'antica Repubblica Romana), il giacobinismo si diffuse in
buona parte dell'Europa durante l'epoca rivoluzionaria, dopo il 1794
in forma più moderata (come nel triennio giacobino italiano del
1796-99 con la nascita delle repubbliche sorelle realizzate da
Napoleone), diventando quasi un sinonimo di repubblicanesimo, ed ebbe
un'influenza politica notevole nella storia francese per tutto il XIX
secolo, in particolare negli eventi della Rivoluzione di luglio
del 1830 contro assolutista
Carlo X, ultimo sovrano della dinastia dei Borbone-Francia,
della Rivoluzione francese del 1848 che portò alla Seconda
Repubblica e, soprattutto, nell'esperienza della Comune di Parigi,
la forma di organizzazione autogestita di stampo socialista
libertario di Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871, riconosciuta
come la prima grande esperienza di autogoverno della storia
contemporanea.
A livello europeo
il giacobinismo stimolò i movimenti patriottici rivoluzionari
(i giacobini si autodefinivano anche come "Patrioti")
e di ispirazione democratica, come la primavera dei popoli del
1848.
Successivamente, filosofi e politici
marxisti comunisti come Lenin e Antonio Gramsci sostennero un
rapporto di filiazione
del bolscevismo dal giacobinismo e tale tesi è stata poi
fatta propria, sia pure con notazioni e valutazioni diverse, dalla
storiografia, a partire da Albert Mathiez (che vi ha visto anche gli
elementi fondativi ideologici della socialdemocrazia e del socialismo
democratico) e Jacob Talmon.
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