Roma arcaica, Veio, le saline alla foce del Tevere e i 7 pagi di Veio, da http://odysseus-viaggio nellastoria.blogspot.com/2006/ 04/roma-si-rafforza-le-guerre -sannitiche.html. |
In verde i territori degli Etruschi nel 800 a.C. - 500 a.C. e loro espansioni. |
In verde, Veio e le altre cittadine etrusche, in giallo le latine, da ht tps://upload.wikimedia.org/wiki pedia/commons/3/30/Carte_Gu erresRomanoVeies._ 482avJC.png. |
Lazio arcaico nel 600 a.C., da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/8/89/. Albe_planlatium.jpg |
Con il regno di Anco Marzio, i cent'anni di tregua fra Roma e Veio erano di certo scaduti. Infatti si legge in Livio che uno dei metodi del re romano per ingrandire lo Stato, oltre alla deportazione a Roma delle genti latine sconfitte, fu l'acquisizione territoriale: «la Selva Mesia, strappata ai Veienti, fece arrivare il dominio romano fino al mare. Alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia e tutt'intorno vennero create delle saline.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 33, op. cit.). Infatti i Romani combatterono e vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus salinarum) contro la città di Veio, che pretendeva di riottenere i possedimenti persi all'epoca di Romolo.
Si assistette così alla graduale spoliazione del territorio veiente e ad un sovrapporsi di Roma nella produzione e nel commercio del sale. La creazione di Ostia alla foce del fiume mostrò come il controllo del Tevere fosse determinante per la ricchezza delle città etrusche dell'interno.
Gli intervalli degli scontri fra Roma e Veio, potevano essere dovuti all'osservanza di tregue (come quella della durata di cento anni) o all'impegno sostenuto nel combattere altri nemici. Roma era sempre impegnata militarmente con i vari vicini Sabini, Latini, Ernici, Rutuli, Volsci ecc. e anche Veio aveva dei vicini turbolenti, ed essendo ripetutamente sconfitta dai Romani, certamente doveva pagare anche le conseguenti riparazioni economiche, in genere con perdite di territorio e di conseguenza si andava via via impoverendo.
Il re Etrusco Tarquinio Prisco si batté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle e Vetulonia, corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica. Gli scontri continuarono anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che occuparono Fidenae con una propria guarnigione per poi continuare gli scontri. Gli scontri tra i Romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni e si risolsero con un grande scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinto dai romani. In seguito a questo scontro gli etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città, Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.
Con re Servio Tullio (che ha regnato dal 578 a.C. al 535 a.C., per 43 anni) Roma continuerà comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia, che non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio Prisco; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord. I Veienti videro così Roma tornare a farsi minacciosa. In effetti, anche se gli etruschi che comandavano a Roma provenivano da Tarquinia, per Veio la situazione non era certo migliorata, tutt'altro. Nonostante la comune discendenza, Veio si trovò circondata da concorrenti: l'etrusca Tarquinia a nord, e Roma a sud, guidata da etruschi ma padrona dell'intera area latina. Può essere anche che l'influenza etrusca su Roma, cominciasse già a scemare e la figura di Servio Tullio adombrasse i primi rivolgimenti politici (come l'eliminazione dei figli di Tarquinio) che riporteranno la città fuori dall'orbita etrusca. E infatti Servio Tullio, per mantenere il potere e volgere verso l'esterno l'attenzione delle forze politiche e militari dell'Urbe, riprese le ostilità con Veio e con gli altri etruschi. «Molto accortamente mantenne tranquille le vicende interne a Roma, affrontando la guerra contro i Veienti (con i quali era già terminata la tregua) e con gli altri etruschi. Tullio in quella guerra brillò per valore e fortuna.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 42).
Con l'ultimo dei Tarquini, Veio vide ritornare la tranquillità. Tarquinio il Superbo si dedicò a rafforzare la supremazia di Roma sull'etnia latina, spostando la direttrice degli attacchi romani da nord a est, verso Gabi e poi contro Ardea, capitale dei Rutuli. La sua cacciata non ci permette di appurare quali fossero i suoi intenti politico-militari nei confronti di Veio, però i prodromi erano evidentemente rivolti a imporre la supremazia romana sulle popolazioni non-etrusche in generale e latine in particolare mentre con gli Etruschi rinnovò il trattato di non belligeranza.
Ad organizzare un nuovo conflitto fra Roma e gli Etruschi di Veio, ci pensò Tarquinio il Superbo dopo la sua cacciata dal trono, che prima provò a riottenerlo con un colpo di Stato eseguito da alcuni giovani esponenti dell'aristocrazia romana, fra cui i Vitelli, che però fallì per la delazione di un loro schiavo, dall'"eloquente" nome di Vindicio (= vendicatore).
La battaglia (nel 509 a.C.) si scatenò appena gli eserciti delle due città entrarono nel territorio di Roma. Il console Publio Valerio, che aveva sostituito il dimissionario Tarquinio Collantino, avanzò al comando della fanteria che marciava in formazione quadrata, mentre l'altro console Giunio Bruto guidò la cavalleria e, nello scontro con Arrunte Tarquinio, figlio del re detronizzato, fu mortalmente ferito. La battaglia si protrasse nell'incertezza di chi avrebbe vinto finché, mentre l'ala tarquiniese faceva indietreggiare i Romani, «I Veienti furono sbaragliati e messi in fuga...» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 6, op. cit.)
Così Tarquinio coinvolse contro Roma lars Porsenna, il potente lucumone di Chiusi, che infine «ottenne che a Veio fosse restituito il territorio e i Romani furono anche costretti a dare degli ostaggi se volevano che il Gianicolo fosse liberato dal presidio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 13)
L'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante.
Stando a Tito Livio, due anni dopo il ritorno a Chiusi, Porsenna, ammirato dal rigido e coerente atteggiamento romano, non solo promise di non aiutare più Tarquinio il Superbo nelle sue pretese, ma "restituì gli ostaggi e quella porzione di territorio che era tornata a Veio in virtù del trattato del Gianicolo".
Nel 485 a.C., Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense furono i consoli, mentre Spurio Cassio Vecellino, il console dell'anno precedente che aveva proposto di distribuire parte della terra del demanio, era condannato e in seguito giustiziato. Con la sua morte, la questione agraria non veniva dimenticata e si levava da più parti la richiesta di dare corso alla legge agraria che era stata promulgata.
Per la necessità di distrarre l'attenzione del popolo dalla loro sudditanza cittadina per rivolgerla al di fuori del pomerium, da dove potevano invece arrivare nuove ricchezze, l'aristocrazia romana organizzava quindi azioni militari contro i vicini e cessava di conseguenza anche la tranquillità di Veio, il nemico più ovvio di Roma.
I due consoli Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense infatti, temendo l'insorgere di disordini e approfittando di razzie e incursioni nemiche effettuate in territorio romano, chiamarono alla leva contro le città vicine, distogliendo così la plebe dalla questione agraria; Servio avrebbe condotto i romani contro Veio, mentre Quinto Fabio li avrebbe guidati contro i Volsci e gli Equi. Alla testa dell'esercito costituitosi, Fabio prima invase il territorio degli Equi, poi da lì quello dei Volsci, razziando e saccheggiando il territorio. Solo i Volsci provarono a resistere sul campo contro l'esercito romano, venendo però da questo sconfitto. Fabio però si inimicò il popolo, quando tornato a Roma con il bottino di guerra, ordinò che questo fosse interamente incamerato nelle casse dell'erario, senza che i soldati ne ricevessero alcuna parte.
Le discordie interne occuparono quindi, fin dagli inizi della repubblica, un ampio spazio nella politica di Roma. L'aristocrazia sembrava conoscere un solo modo di frenare le tensioni e i prodromi di rivolta dei plebei. Ogniqualvolta la tensione interna saliva oltre un limite considerato pericoloso, molto opportunamente giungevano notizie di attacchi di qualche popolazione vicina. La leva veniva chiamata, la plebe resisteva e non prendeva le armi, poi il nemico arrivava troppo vicino e la decisione di prendere le armi era inevitabile se non si voleva che Roma venisse sconfitta senza nemmeno combattere. Quando l'esercito era tenuto in armi fuori dal pomerium, le tensioni politiche scomparivano per riapparire alla fine della campagna militare.
In questo modo, gli attacchi dei Veienti erano funzionali alla politica romana, funzionalità che veniva meno quando Roma doveva affrontare nemici più pericolosi. Poi, per qualche anno, essendo Roma impegnata con gli eserciti ben più pericolosi dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, si trattenne dall'infierire, limitandosi a frenare le incursioni dei Veienti senza cercare l'affondo risolutivo.
In “Ab Urbe Condita libri” Tito Livio scrive che al tempo dei consolati di Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio Iullo, quindi nell'anno 482 a.C.: «Quell'anno la lotta di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e accesa della guerra combattuta all'estero. Gli Equi presero le armi; le scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro romano.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43)
L'anno successivo (481 a.C.), consoli Cesone Fabio Vibulano e Spurio Furio Medullino Fuso: «Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti, già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti questi campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con la politica del boicottaggio del servizio militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento in poi il tradizionale odio nei confronti del tribunato si concentrò esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva militare. Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio sarebbe stato il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande figura, il console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in tutti i modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo esempio: dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità nella strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un assalto della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la vergogna che in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui propri passi, nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura o, se non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini, ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti, rientrano alla base maledicendo a turno il generale e l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì a rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai cittadini che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna quindi a Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43, op. cit.)
«I consoli romani, a loro volta, non temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori del deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran terrorizzati all'idea di scendere in campo per affrontare contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così stazionavano all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel doppio pericolo. Non era escluso che il tempo e i casi della vita avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso. Ma proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti, stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime li provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa. Dicevano che la storia della lotta di classe era un pretesto per coprire la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini. Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio da sotto il fossato e le porte. La moltitudine, invece, meno portata a simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più profonda e si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il patriziato potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era tra l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico. Alla fin fine ebbe la meglio il secondo, tanto insolente e arrogante era diventato lo scherno dei nemici. Si accalcano davanti al pretorio, reclamano la battaglia, chiedono che si dia il segnale. I consoli confabulano, come se fossero in piena riunione di consiglio. La discussione dura a lungo. Il loro desiderio era combattere; nel contempo, però, frenavano e dissimulavano il desiderio stesso in odo tale che crescesse l'impeto dei soldati ostacolati e trattenuti. Gli uomini si sentirono rispondere che attaccare sarebbe stato prematuro perché gli sviluppi della situazione non erano ancora arrivati al punto giusto. Quindi che rimanessero nell'accampamento. Seguì l'ordine di astenersi dal combattere: se qualcuno, violando la consegna, avesse combattuto sarebbe stato trattato come un nemico. Con queste parole li congedarono: ma il loro apparente rifiuto fece crescere negli uomini l'impazienza di buttarsi all'assalto. Quando i nemici vennero a sapere che il console aveva interdetto ai suoi di scendere in campo, si accanirono ulteriormente nella provocazione, infiammando cos? ancora di pi? i soldati romani. Era evidente che li potevano schernire senza correre rischi: godevano di cos? poca fiducia che venivano negate loro persino le armi. La conclusione sarebbe stato un ammutinamento generale con il conseguente crollo della potenza romana. Forti di queste convinzioni, vanno a lanciare grida di scherno davanti alle porte dell'accampamento e si trattengono a stento dall'assalirlo. A quel punto i Romani non poterono sopportare oltre gli insulti e da tutti i punti del campo si riversarono di corsa davanti ai consoli: le loro non erano più come prima richieste disciplinate e presentate per bocca dei primi centurioni, ma un coro di voci scomposte. La cosa era matura: tuttavia i consoli tergiversavano. Alla fine, Fabio, vedendo che il collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere per paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il silenzio e poi disse: “Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere, te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro. Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se prima non giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno scontro, han tradito una volta il console romano: gli dèi non li tradiranno mai”. A quel punto, un centurione di nome Marco Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse: “Tornerò vincitore, o Marco Fabio!” Augurò che l'ira del padre Giove, di Marte Gradivo e degli altri dèi potesse abbattersi su di lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini, ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. Ora sfidano gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza differenze, brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso nel corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 45.)
«L'esercito viene schierato e né i Veienti né le legioni etrusche si tirano indietro. La loro certezza quasi assoluta era questa: i Romani non li avrebbero affrontati con maggiore determinazione di quanta ne avevano dimostrata con gli Equi; oltretutto, vista l'esasperazione degli animi e la totale incertezza dello scontro, non era escluso che commettessero qualche nuovo e imprevedibile errore. Ma le cose andarono in tutt'altra maniera: in nessuna delle guerre del passato i Romani si erano prodotti in un attacco così violento, tanto li avevano esasperati sia gli insulti del nemico sia gli indugi dei consoli. Gli Etruschi avevano appena avuto il tempo di spiegare il proprio schieramento che i Romani, nel pieno della concitazione iniziale, prima avevano lanciato a caso le aste più che prendendo la mira, e poi erano arrivati al corpo a corpo con la spada, cioè proprio il tipo più pericoloso di duello. Nelle prime file le prodezze straordinarie dei Fabi erano un esempio per i concittadini. Uno di essi, quel Quinto Fabio che era stato console due anni prima, stava guidando l'attacco contro un gruppo compatto di Veienti, quando un etrusco fortissimo e particolarmente esperto nel maneggiare le armi lo sorprese mentre incautamente si spingeva tra un nugolo di nemici e lo passò da parte a parte in pieno petto. E una volta estratta la spada, Fabio crollò a terra riverso sulla ferita. Anche se si trattava di un uomo solo, la notizia della sua morte fece scalpore in entrambi gli schieramenti e i Romani stavano già per cedere, quando il console Marco Fabio, scavalcandone il cadavere e proteggendosi con lo scudo, gridò: “È questo che avete giurato, soldati? Fuggire e ritornare al campo? Allora vuol dire che temete quei gran codardi dei nemici più di Giove o Marte, in nome dei quali avete giurato? Benissimo: io non ho giurato, eppure o tornerò indietro vincitore o cadrò battendomi qui accanto a te, Quinto Fabio!” Alle parole del console replicò allora Cesone Fabio, console l'anno precedente: “Credi, fratello, che diano retta alle tue parole e tornino a combattere? Daranno retta agli dèi, è su di loro che han giurato. Quanto a noi, per il rango sociale che occupiamo e per il nome che portiamo (siamo o non siamo dei Fabi?), è nostro dovere infiammare l'animo dei soldati più con l'esempio concreto che con tanti discorsi”. Detto questo, i due Fabi volarono in prima linea con le lance in resta e si trascinarono dietro tutto l'esercito.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 46.)
«Così furono risollevate le sorti della battaglia da quella parte. Dall'altra ala dello schieramento il console Gneo Manlio stava impegnandosi con non meno ardore a sostenere il combattimento, quando accadde un episodio quasi del tutto analogo. Infatti, come prima Quinto Fabio all'ala opposta, così adesso da questa parte Manlio, mentre stava guidando l'attacco impetuoso dei suoi soldati contro il nemico già quasi allo sbaraglio, fu ferito gravemente e dovette abbandonare la battaglia. La truppa, credendolo morto, cominciò a vacillare e avrebbe ceduto la posizione se l'altro console, arrivato al galoppo da quella parte con alcuni squadroni di cavalieri, gridando che il suo collega era vivo e che egli stesso aveva piegato e messo in fuga i nemici dall'altro versante dello schieramento, non avesse raddrizzato la situazione. Anche Manlio, facendosi vedere in mezzo a loro, contribuisce a rimettere in sesto la linea di battaglia. E il morale degli uomini riprende subito quota appena riconoscono i lineamenti dei due consoli. Nello stesso istante si riduce anche la pressione del nemico perché essi, contando sulla superiorità numerica, avevano ritirato le riserve e le avevano mandate ad attaccare l'accampamento romano. Lì la resistenza è di breve durata, nonostante la violenza relativamente modesta dell'urto. Mentre però i nemici si davano da fare col bottino più che preoccuparsi degli sviluppi della battaglia, i triarii romani, che non erano stati capaci di sostenere l'impeto iniziale, mandarono dei messaggeri per riferire ai consoli come andavano le cose; quindi, riunitisi di nuovo nei pressi del pretorio, lanciarono un contrattacco senza aspettare i rinforzi e di loro spontanea volontà. Nel frattempo il console Manlio era rientrato nell'accampamento e, piazzando degli uomini in corrispondenza di tutte le porte, aveva tagliato al nemico ogni via d'uscita. Gli Etruschi allora, in quella situazione disperata, invece di dare una dimostrazione di coraggio, persero la testa. Infatti, dopo aver più volte tentato invano di sfondare dove speravano che fosse possibile una sortita, un gruppo compatto di giovani si lanciò dritto sul console, dopo averlo individuato per il tipo di armamento che aveva addosso. I primi colpi furono parati dai soldati del suo seguito, ma l'urto era troppo violento per poterlo reggere più a lungo e il console cadde, ferito a morte, mentre gli uomini del suo presidio personale fuggirono. Gli Etruschi ripresero allora coraggio e il panico si impadronì dei Romani che correvano all'impazzata per l'accampamento: la situazione sarebbe veramente precipitata, se alcuni ufficiali superiori, dopo essersi impadroniti del corpo del console, non avessero dato via libera ai nemici da una delle porte. Fu di là che si lanciarono fuori, andando però a cozzare senza più nessun ordine nel console vincitore che li massacrò di nuovo e quindi li disperse. Fu una grande vittoria, anche se funestata dalla morte di due uomini di quella statura. Così il console, quando il senato autorizzò il trionfo, disse in risposta che se le truppe lo potevano celebrare senza il loro generale, egli avrebbe dato volentieri il proprio consenso per l'eccellente prestazione da esse offerta in quella guerra. Quanto a se stesso, con la famiglia in pieno lutto per la morte del fratello Quinto Fabio e lo Stato mutilato in una delle sue parti per la perdita dell'altro console, non avrebbe potuto accettare la corona d'alloro in quel momento di grande cordoglio pubblico e privato. Il rifiuto del trionfo fu un titolo di merito superiore a qualsiasi altro trionfo mai celebrato, com'è vero che rifiutare la gloria al momento giusto significa raddoppiarla col tempo. Poi celebrò uno dopo l'altro i funerali del collega e del fratello, e in entrambi i casi pronunciò l'orazione funebre: pur non togliendo ai due uomini alcun merito, riuscì a concentrare su se stesso buona parte delle lodi. E senza perdere di vista quella politica di riconciliazione con la plebe che era stata uno dei suoi obiettivi principali all'inizio del consolato, affidò ai patrizi il compito di curare i soldati feriti. La maggior parte toccò ai Fabi e le attenzioni che essi ricevettero in questa casa non ebbero uguali nel resto della città. Da quel momento i Fabi cominciarono a essere popolari presso la plebe e fu soltanto servendo lo Stato che essi raggiunsero un simile obiettivo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 47.)
Nel 477 a.C. i veienti razziarono i terreni della gens Fabia sulla sponda destra del Tevere. Siccome la civitas se ne disinteressava, i Fabi si organizzarono. Visto che gli eserciti di Roma erano spesso impegnati in vari altri fronti, i Fabii giunsero a chiedere una sorta di appalto della guerra contro Veio. La città poteva portare i suoi eserciti contro Equi e Volsci; la gens Fabia avrebbe preso su di sé l'intero peso della guerra con Veio, impegnandosi a «salvaguardare l'autorità di Roma nel settore e condurre la guerra come un affare di famiglia finanziandola privatamente senza che la città dovesse impegnare né denaro né uomini.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48, op. cit.)
La guerra con Veio diventò endemica generando un famoso episodio della storia di Roma. I Fabii condussero la guerra, una sorta di bracconaggio invero, provocando i Veienti, rubando le loro messi e le loro mandrie, resistendo agli attacchi dei nemici, fino a quando questi, stanchi dello stillicidio di azioni ostili, non si organizzarono, attirando in una trappola e trucidando tutti i componenti della gens Fabia nella Battaglia del Cremera. Era il 13 luglio del 477 a.C.; dei Fabii sopravvisse un solo componente, il futuro console Quinto Fabio Vibulano. Come conseguenza i Veienti ripresero coraggio e arrivarono fino al Gianicolo, senza saper approfittare dell'occasione. Si fecero sconfiggere nuovamente con un trucco simile a quello utilizzato contro i Fabii e vennero sterminati.
Ogni volta che una popolazione si metteva in pesante contrasto con Roma, Veio approfittava della difficoltà. Nel 475 a.C. si arrivò all'alleanza con i Sabini. Publio Valerio Publicola, il console, si fece aiutare dai socii Latini ed Ernici ed entrò in contatto con Veienti e Sabini. Per prima cosa si scagliò contro i Sabini, ne espugnò l'accampamento mettendo in crisi anche la fiducia dei Veienti che stentarono ad organizzare una difesa comune. La cavalleria di Valerio riuscì a scompaginare i difensori e a sbaragliare gli etruschi Veienti, appena in tempo per fermare un attacco dei Volsci che a loro volta approfittavano delle difficoltà romane per compiere razzie e devastazioni.
I consoli dell'anno successivo (474 a.C.) furono Lucio Furio Medullino e Aulo Manlio Vulsone. A quest'ultimo fu affidata l'ennesima guerra con Veio. I risultati furono notevoli; i Veienti, senza combattere, chiesero e ottennero una tregua di quarant'anni.
Nel 445 a.C. i Veienti si rifecero vivi; i consoli erano Marco Genucio Augurino e Gaio Curzio Filone ma Livio non approfondisce limitandosi a parlare di "scorrerie ai confini del territorio romano". I nemici più pericolosi rimasero i Volsci e gli Equi e all'interno delle mura la divisione fra patrizi e plebei scatenava movimenti inusitati, e si vide persino un tentativo di Spurio Melio di farsi proclamare re (almeno questa fu l'accusa) approfittando della fama raggiunta regalando cibo al popolo durante una carestia.
Nel 438 a.C. la colonia romana di Fidene, da anni stabilita nella città etrusca, «passò al re di Veio, Larte Tolumnio. Alla defezione si aggiunse un delitto ancora maggiore: i Veienti uccisero, per ordine di Tolumnio [...] ambasciatori che erano venuti per chiedere le motivazioni di quel mutato atteggiamento.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)
Livio prospetta la possibilità che il delitto, commesso contro ogni diritto delle genti, fosse stato commissionato dal lars di Veio per legare maggiormente a sé i nuovi alleati. Un risultato, certo, lo raggiunse: i Romani divennero ancora più adirati verso gli Etruschi. Furono eletti consoli (carica che era spesso contestata in quel periodo) Marco Geganio Macerino e Lucio Sergio Fidenate. Quest'ultimo condusse la guerra contro Veio e per primo combatté «al di qua dell'Aniene contro il re dei Veienti in una battaglia coronata da successo anche se pagò quella vittoria a carissimo prezzo tanto che a Roma maggiore fu il dolore per i cittadini perduti che la gioia per la dispersione dei nemici.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)
La situazione, pur se vittoriosa, non doveva essere tanto felice se fu nominato (come accadeva solo nei momenti più gravi) un dittatore nella persona di Mamerco Emilio Mamercino che scelse come magister equitum Lucio Quinzio Cincinnato, degno figlio di un padre così illustre. Il dittatore raccolse, quali legati, i più celebrati nomi di Roma. La scelta convinse gli etruschi e i loro alleati a ritirarsi e attestarsi sotto le mura di Fidene dove furono raggiunti anche dai Falisci. La battaglia, nella descrizione di Livio, fu accesa in poco tempo perché il re dei Veienti temeva la defezione dei Falisci, che intendevano ritornare in fretta a Falerii, a casa loro. E Larte Tolumnio combatté anche in modo acceso correndo in ogni punto del fronte per rincuorare i suoi fino a quando il tribuno militare Aulo Cornelio Cosso non lo attaccò direttamente, uccidendolo e ne spogliò il cadavere portando a Roma le spoglie opime.
I Veienti ci riprovarono due anni dopo, nel 435 a.C., durante una pestilenza e senza l'aiuto dei Falisci. Veienti e Fidenati arrivarono quasi fino a Porta Collina per poi essere respinti dalle legioni guidate dal dittatore Quinto Servilio Strutto. Questa volta gli etruschi si barricarono a Fidene, ma la città fu conquistata con una guerra di mina. Con falsi attacchi da quattro diverse direzioni in quattro
La caduta di Fidene mise in grande allarme gli Etruschi e vennero inviati messaggeri alle dodici città per indire un convegno al tempio di Voltumna. Anche i Romani prepararono la guerra eleggendo un dittatore, Mamerco Emilio. La guerra non ci fu. Alcuni mercanti portarono la notizia che i Veienti non avevano ricevuto la solidarietà degli altri etruschi, in quanto avevano iniziato le ostilità di propria iniziativa. Mamerco Emilio approfittò per diminuire la durata della carica dei censori, si dimise da dittatore e fu quindi accusato di aver limitato la magistratura altrui. Condannato, fu espulso dalla tribù, iscritto fra gli erarii si vide aumentate le tasse di otto volte. Continuarono gli scontri con Volsci ed Equi che permisero ai Veienti di recuperare le forze e ancora prima di veder scadere i tempi della tregua concessa dopo la presa di Fidene, Veio aveva ricominciato con le scorrerie.
Dopo aver inutilmente inviato i feziali Roma decise di mandare l'esercito contro Veio. Questa volta i Veienti ebbero la meglio su un esercito comandato non dai consoli, ma da tre tribuni militari i quali, in disaccordo fra di loro, adottarono tre strategie diverse e favorirono l'attacco etrusco e la disfatta dei Romani. La rotta favorì il ritorno di Mamerco Emilio alla dittatura, i Veienti raccolsero molti volontari etruschi sotto le loro insegne e il popolo di Fidene, che fece strage dei coloni romani inviati dopo la caduta della città. Fu deciso che era preferibile combattere da Fidene e l'esercito veiente vi fu trasferito. L'esercito romano sconfitto fu richiamato da Veio e schierato fuori Porta Collina. La battaglia infuriò sotto le mura e i Romani stavano avendo il sopravvento quando da Fidene «uscì un esercito del tutto nuovo quale mai si era visto o sentito raccontare: era una gran folla armata di fuochi e tutta fiammeggiante di torce accese che eccitata e quasi invasata, si lanciò contro il nemico.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 17, op. cit.)
L'esercito romano, guidato da Mamerco Emilio con l'aiuto della cavalleria di Aulo Cornelio Cosso, riuscì a resistere e gli attaccanti furono circondati e massacrati. Molti Veienti finirono per annegare nel Tevere, i Fidenati tentarono di resistere nella loro città che però fu nuovamente espugnata e questa volta, distrutta; la popolazione fu venduta schiava. Il pendolo delle guerre tornò dalla parte dei Volsci e degli Equi. Si aggiunsero anche i Labicani (presto sconfitti) e tutto il Lazio da Roma ad Anzio e fino al Monte Algido, roccaforte degli Equi era costantemente percorso da eserciti impegnati in battaglie dagli esisti altalenanti.
Quest'anno segnò una svolta importante nella gestione delle guerre romane. Nel 408 a.C. scadeva la tregua con Veio e vennero inviati ambasciatori per riscuotere i danni di guerra. Una delegazione di Veienti chiese di poter conferire con il Senato di Roma, e in senato ottenne di differire il pagamento dei debiti in quanto presi da grosse difficoltà: anche a Veio si avevano lotte intestine.
Tito Livio (IV,58) esalta la magnanimità dei Romani, ma c'è anche da ricordare come una guerra con Veio, per quanto dai risultati quasi scontati, avrebbe distolto molte forze dal fronte sud-orientale. Tanta magnanimità non fu poi ricompensata. O più probabilmente la debolezza fu riconosciuta come tale. L'anno successivo, infatti, ambasciatori romani furono mandati a Veio per riscuotere, i Veienti li minacciarono di riservare loro lo stesso trattamento usato da Lars Tolumnio. Si cercò di dichiarare guerra, ma le proteste della plebe ricordarono che non si era ancora conclusa quella con i Volsci, che due guarnigioni erano state sterminate, che altri luoghi erano in pericolo e che Veio poteva coinvolgere l'intera Etruria nel conflitto.
Venne quindi deciso di concentrare le azioni sui Volsci, l'esercito romano fu diviso in tre parti e mandato a saccheggiare il territorio dei nemici sotto il comando di tre dei quattro tribuni militari. Lucio Valerio Potito si diresse su Anzio, Gneo Cornelio Cosso si diresse su Ecetra e Numerio Fabio Ambusto attaccò e conquistò Anxur (Terracina) lasciando la preda ai soldati di tutti e tre gli eserciti.
«I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima plebe e tribuni vi avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.)
Ovvie le conseguenze: ringraziamenti dei plebei, polemiche dei Tribuni che vedevano spuntate alcune delle loro armi, proteste di chi doveva pagare. Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari. Era il 407 a.C. Sei erano i tribuni che condussero l'esercito e misero Veio sotto assedio. Gli Etruschi convocati al tempio della dea (o dio) Voltumna non si accordarono per portare aiuto alla città consorella. L'anno successivo (406 a.C.) l'assedio si prolungò senza grandi avvenimenti, anche perché continuava la guerra contro i Volsci. Conquistata la volsca Artena però, l'esercito romano si ripresentò sotto le mura di Veio.
Veio era, come Roma, percorsa da discordie interne che però non cessavano con l'insorgere del pericolo comune. Con Roma in armi alla loro porta e che aveva portato a otto i tribuni militari, i Veienti non trovarono di meglio, per sopire le discordie interne, che eleggere un re inviso alle altre città etrusche per il suo carattere prepotente e superbo. Inoltre aveva compiuto diversi sgarbi, interrompendo giochi e spettacoli, che per gli Etruschi avevano carattere religioso.
Sempre divisi, gli Etruschi furono concordi nel negare gli aiuti a Veio finché quel re fosse stato al potere. Questo non tranquillizzò i Romani che nel 403 a.C. iniziarono a fortificarsi in entrambe le direzioni; verso Veio per proteggersi dagli abitanti e verso l'esterno per prevenire interventi esterni.
La novità importante fu che anziché cessare l'assedio nei tempi soliti per permettere agli agricoltori di lavorare le loro terre, un esercito stipendiato poté essere tenuto indefinitamente sotto le mura della città etrusca. I comandanti romani fecero costruire anche i quartieri invernali. E fu la prima volta. Quando a Roma si seppe della novità, i tribuni della plebe insorsero dicendo che «quello era il motivo per cui era stato assegnato lo stipendio ai soldati, e non si erano sbagliati nell'asserire che quel dono era intinto nel veleno. La libertà della plebe era diventata merce da vendere e la gioventù veniva tenuta lontana e segregata dalla città e dalla repubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 2, op. cit.)
La battaglia politica si scatenò fra i tribuni della plebe e Appio Claudio, lasciato a Roma proprio per contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il patrizio; con un contrattacco notturno distrussero le macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per l'ennesima volta la città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al che molti plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler combattere volontariamente. Iniziò una corsa al volontariato, come spesso si vide a Roma. Il senato ringraziò e trovò nelle pieghe del bilancio di che pagare i fanti volontari e concesse perfino un aiuto economico ai cavalieri. Il nuovo esercito, arrivato a Veio ricostruì le linee e fabbricò altre e diverse macchine. Da parte della città inoltre, fu maggiormente curato il vettovagliamento.
Questa fu l'altra novità di quell'anno: fu la prima volta che i cavalieri prestarono servizio utilizzando cavalli di loro proprietà. Prima il cavallo, in guerra, era fornito dallo Stato.
L'anno successivo Roma, che contestualmente stava assediando Anzio, vide trucidato il presidio di Anxur. Ma anche a Veio, somma preoccupazione della repubblica, le cose non miglioravano; i tribuni militari romani non andavano d'accordo e a Veio nel 402 a.C. arrivarono rinforzi dai Falisci e dai Capenati che avevano finalmente compreso come, una volta espugnata Veio, i Romani avrebbero avuto via libera per altre conquiste.
Un altro problema venne dal soldo per l'esercito. Più soldati servivano maggiori erano le uscite per il soldo; ma più soldati erano in guerra meno contribuenti potevano essere tassati per finanziare la guerra. Chi restava in città doveva servire lo Stato come presidio e anche pagare la tassa. Le polemiche, naturalmente erano continue e ruggenti.
Gli eserciti che assediavano Veio e Anxur cominciarono a protestare per una paga che non arrivava, le razzie nei territori dei Falisci, dei Capenati e dei Volsci non bastavano a fermare il dissenso e il malumore. Infine con l'elezione anche di un plebeo (ma era un diritto acquisito) come Tribuno Militare la plebe si calmò, la paghe arrivarono agli eserciti, Anxur fu riconquistata. L'anno seguente la pace sociale sembrava acquisita, al tribunato militare fu eletto un solo patrizio e cinque plebei. La punizione di Manlio e Virginio si rivelò utile quando sotto Veio arrivarono due eserciti, uno da Falerii e uno da Capena. La resistenza fu comune e tutto l'esercito romano si impegnò riuscendo a respingere gli attaccanti e perfino a massacrare molti Veienti che, usciti dalla città e messi in fuga, erano rimasti chiusi fuori dalle mura.
La guerra con Veio si trascinò stancamente per anni tanto che perfino da Tarquinia vennero mandate delle coorti armate alla leggera per saccheggiare l'agro romano. Tentativo mandato in fumo dalla reazione romana che inviò dei volontari i quali sorpresero i Tarquiniesi di ritorno verso casa oberati di bottino. Li uccisero, li spogliarono del carico e riportarono a Roma sia quanto avevano razziato sia i beni stessi degli etruschi. Se le discordie interne di Roma non cessavano, anche le città etrusche non erano in accordo.
Nel solito consesso al tempio di Volumna, Veio, Falerii e Capena chiesero aiuto alle altre città etrusche che lo rifiutarono perché Veio aveva iniziato la lotta (anni prima) senza chiedere il loro parere, ma soprattutto perché un nuovo nemico si stava affacciando sull'Etruria: i Galli Senoni guidati da Brenno. L'unica concessione era la non-interferenza dei governanti se i giovani volevano recarsi a Veio come volontari. Andarono in molti. La notizia delle dimensioni dell'esercito veiente fece tacere le polemiche interne di Roma.
Due tribuni militari, inviati contro Falerii e Capena subirono una sconfitta, la notizia giunse ingigantita sia all'esercito che assediava Veio sia a Roma. Il popolo si gettò a pregare nei templi, le matrone ne spazzavano i pavimenti con i capelli. Sembrava che, anziché chiusi fra le loro mura, i Veienti fossero alle porte. Fu deciso di nominare un dittatore, Marco Furio Camillo.
La caduta di Veio (396 a.C.) sarà cantata da Tito Livio col seguente incipit: «Già i Giochi e le Ferie Latine erano stati rinnovati, già l'acqua del lago Albano era stata dispersa per i campi, già il destino incombeva su Veio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 19., op. cit.)
Furio Camillo scelse come magister equitum Publio Cornelio Scipione (antenato dell'Africano). Il nuovo comandante cambiò l'andamento della guerra. Distribuì punizioni per chi era fuggito, indisse una nuova leva, si recò personalmente a Veio per controllare la situazione sul campo e incoraggiare i soldati. Accettò persino l'aiuto di "giovani stranieri" (Latini ed Ernici). Camillo fece grandi voti di organizzare sacri giochi alla fine della guerra e di restaurare e riconsacrare un tempio alla Madre Matuta che si trovava nel Foro Boario.
Partito con le nuove truppe, Camillo si scontrò con Falisci e Capenati nei pressi di Nepi, li sbaragliò e si mise a restaurare e potenziare le fortificazioni romane sotto Veio. Vietò i duelli e le scaramucce con i Veienti e concentrò l'esercito sullo scavo di una galleria che portasse dentro Veio passando sotto le mura. I soldati lavorarono in turni di sei ore senza mai fermare lo scavo. Quando Camillo capì che si era vicini all'epilogo di quella guerra, pose al Senato la domanda di cosa fare dell'immenso bottino che la ricchissima città avrebbe certamente fornito.
Una distribuzione troppo avara avrebbe creato malumore nella plebe, una troppo ricca avrebbe creato risentimento fra i patrizi. Lo Stato non poteva incamerare tutto, anche perché la plebe riteneva – non del tutto a torto – che Stato fosse mancipio dell'aristocrazia. In senato si formarono due partiti: uno, guidato da Appio Claudio, riteneva giusto incamerare il bottino nell'erario (i soldati erano stati pagati con il soldo) e rendere meno gravoso il tributo che la plebe doveva pagare, con vantaggio di tutti. L'altro partito, guidato da Publio Licinio, chiedeva che con pubblico editto si annunciasse al popolo che chi voleva del bottino se lo doveva andare a prendere a Veio. Vinse questa interpretazione e turbe di Romani si avviarono verso nord, verso la città condannata.
Il dittatore ordinò ai soldati di prendere le armi, pregò Apollo Pitico, che aveva "aiutato" i Romani con un favorevole responso dell'oracolo di Delfi, offrendogli la decima parte del bottino e pregò Giunone Regina di seguirlo da Veio a Roma dove avrebbe costruito un tempio degno della sua grandezza. Poi scatenò l'esercito sulle mura per nascondere i rumori degli ultimi scavi della galleria. I Veienti, non più abituati agli assalti in massa, accorsero sulle mura.
Si era circa nel 396 a.C., Veio cadde definitivamente per opera delle truppe entrate dal cunicolo che aprirono ai Romani le porte della città etrusca.
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