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domenica 13 luglio 2025

Repubblica Cispadana: scintille rivoluzionarie sopite dal moderatismo opportunista bolognese

Stemma della Repubblica Cispadana,
con 4 frecce come Reggio, Modena,
Bologna e Ferrara.

La Repubblica Cispadana è stata la prima “Repubblica sorella” della Repubblica Francese che era stata originata dalla rivoluzione che ha cambiato per sempre il diritto internazionale.

Nata da territori conquistati con fulminee vittorie, nella Campagna d'Italia del 1794, dal generale Napoleone Bonaparte, si era avviata, nell'ottobre 1796, a costituirsi come Confederazione ma in seguito, nel dicembre dello stesso anno, emerse come un vero e proprio stato unitario.

Inizialmente ne fecero parte i territori del Reggiano, del Modenese, del Bolognese e del Ferrarese, poi si aggiunsero quelli della Garfagnana, di Massa e di Carrara e infine comprese anche la Romagna, allora territorio di Imola.

Riuscì, attraverso diversi incontri in tre Congressi, a stabilire uno stendardo unitario, antesignano della bandiera italiana, a dotarsi di un'organizzazione militare sotto la supervisione francese, a darsi una Costituzione e a programmare una struttura di governo che non riuscirà mai a governare.

Fu però solo nominalmente uno Stato indipendente, restando sempre sottoposto al controllo francese ed alle direttive impartite da Bonaparte. Durante la sua breve esistenza, dovette affrontare consistenti difficoltà dovute soprattutto a due fattori: da un lato una grave crisi economica causata principalmente dalle requisizioni effettuate dai Francesi nei territori conquistati, che portarono in qualche caso a rivolte popolari duramente represse; dall'altra, le resistenze opposte dalle classi dirigenti civili e religiose ad accettare i principi rivoluzionari con relativa secolarizzazione.

Sia per la sua debolezza interna, sia per gli sviluppi internazionali che condussero alla pace siglata a Campoformio, Bonaparte nel luglio 1797 ne decise la soppressione, annettendola alla Repubblica Transpadana e andando così a formare la Repubblica Cisalpina.

Tuttavia, nonostante la sua scarsa durata, è considerata da diversi storici come il primo esempio di istituzione democratica italiana dell'epoca contemporanea.

Nonostante relazioni incoraggianti, anche se condite con un certo disprezzo per «le grandi città italiane popolate solo di padroni, servitori e gentaglia ignorante», fu solo nel novembre del 1795 che il Direttorio di Parigi prese seriamente in esame la situazione italiana, quando il Ministro degli Esteri Charles-François Delacroix chiese agli agenti francesi in Italia se ritenessero possibile crearvi una repubblica.

Il nord italico prima della Campagna
d'Italia di Napoleone Bonaparte.
Malgrado alcune risposte poco incoraggianti l'intervento fu comunque deciso per l'anno successivo, tuttavia la conquista di territori che non fossero Piemontesi o Austriaci veniva vista principalmente come una possibile merce di scambio per futuri trattati di pace, tesi sulla quale ancora il 25 luglio 1796, dopo le prime vittorie napoleoniche, era basato un memorandum di Delacroix al Direttorio, dove si delineava per l'Italia una sorta di assetto federativo nel quale l'area emiliano-romagnola avrebbe potuto essere affidata all'Elettore Palatino germanico in cambio della ricca Lombardia.

Altro importante elemento della decisione francese erano le ricchezze dei vari Stati italiani, che si ritenevano consistenti (anche perché il territorio peninsulare era stato risparmiato dalle distruzioni europee della Guerra dei sette anni) e quindi in grado di ridare ossigeno all'erario francese in grande difficoltà a causa della grave situazione economico-finanziaria in cui si dibatteva la Francia dopo anni di guerra e di disordini interni: era inoltre indispensabile sostenere con requisizioni ed indennità un esercito che sul fronte italiano era privo di mezzi, ed a questo proposito erano molto chiare le istruzioni che il Direttorio aveva dato a Bonaparte, nelle quali, unendo motivazioni finanziarie e zelo ideologico, si disponeva: «bisognerà trarre forti contribuzioni e far mantenere l'Armata d'Italia nei e dai paesi nemici. Il Direttorio è convinto che l'Italia debba alle opere d'arte gran parte delle ricchezze e la sua fama, ma è arrivato il tempo che esse debbano esser trasferite in Francia per illustrare il regno della libertà»

L'Armata d'Italia, in poco più di un mese sconfisse i Piemontesi eliminandoli dal conflitto, forzò il passaggio del Po a Piacenza, batté gli Austriaci a Lodi, costringendoli a ritirarsi verso oriente ed obbligandoli a rinchiudersi dentro la fortezza di Mantova, perdendo Milano, in cui Bonaparte entrò il 15 aprile.

Rapidamente i francesi occuparono la Lombardia, parte del Veneto e dilagarono lungo il corso inferiore del Po, anche se alle loro spalle si accesero diversi focolai di rivolta, tutti duramente repressi, come nei casi di Tortona (dal 13 al 17 giugno) e di Pavia e Binasco (23 giugno).
Di fronte a queste sorprendenti novità, le varie città emiliane ebbero inizialmente comportamenti autonomi e contraddittori, frutto delle loro storiche diversità, tanto che, come si vedrà, tutte inviarono proprie delegazioni a Parigi per chiedere al Direttorio di veder riconosciute, anche in contrasto con i propri vicini, le rispettive aspirazioni municipalistiche campaniliste.

Modena: fuga e destituzione del duca - Il 7 maggio 1796, all’approssimarsi delle truppe francesi e temendo di incorrere nella stessa sorte che aveva visto il duca di Parma costretto a fondere gli argenti della reggia per soddisfare un'intimazione francese di denaro e di approvvigionamenti nonché di 20 opere d'arte, tra cui un San Gerolamo del Correggio (benché formalmente in questo caso si trattasse di un regalo del duca alla Francia)

Ercole III d'Este fuggì assieme alla sua amante, la cantante Chiara Marini, portando con sé un cospicuo patrimonio e rifugiandosi a Venezia assieme al ministro Giovanni Battista Munarini... i Francesi rifiutarono di riconoscere la neutralità ed imposero, invece, un armistizio...

A Reggio la fuga del duca da Modena fu accolta con un misto di sdegno per la viltà dell'atto e di speranza che ciò agevolasse il recupero di una maggior autonomia rispetto alla città capitale del ducato, come veniva richiesto in alcune petizioni largamente sottoscritte che vedevano nei Francesi dei liberatori non solo dall'antico regime, ma anche dal predominio estense.

Bologna: gli antefatti - Antenato dell'anarchico Anteo, nel 1791 Luigi Zamboni, studente di legge all'Università di Bologna, fu avvicinato dal còrso sedicente "abate" Bauset, alias Antoine Christophe Saliceti. Dopo essersi arruolato nell'Armée révolutionnaire française, fu convinto fu convinto da Saliceti a partecipare ad una missione segreta.

Con lui si imbarcarono sulla "Feluca Tirrena" il toscano Filippo Buonarroti, il generale Renaux, il Saliceti e l'avvocato Boselli di Genova, esponente di quella massoneria che aveva appoggiato la sollevazione di Parigi del 1789 e che ora cercava di estendere il sentimento e le idee della Rivoluzione in tutta Europa.
Dopo tre mesi, per ordine di Saliceti, Zamboni proseguì il viaggio e sbarcò a Roma. Gli era stato affidato il compito di arruolarsi nell'armata pontificia di papa Pio VI per studiarne la consistenza e la strategia militare. Per quest'operazione informativa Zamboni prese il nome di Luigi Rinaldi. Tornato a Bologna, riferì ogni cosa al Saliceti. Questi, sulla base del felice risultato ottenuto a Carloforte, incitò lo Zamboni ad organizzare una sollevazione dei bolognesi contro la dominazione assolutista della Chiesa felsinea, arruolando alla causa studenti della stessa Università.
Sotto la guida dell'onnipresente Saliceti, Luigi Zamboni, convinse ad una sommossa alcuni ragazzi, tra i quali Giovanni Battista De Rolandis, Antonio Succi, Camillo Tomesani, Antonio Forni, Angelo Sassoli, Tomaso Bambozzi, Pietro Gavasetti, Giovanni Osbel, Giovanni Calori.
Non tutti erano studenti, alcuni erano già laureati, altri erano uomini di strada, tutti avversi al governo assolutista e antidemocratico dello Stato Pontificio, allora totalmente controllato dai prelati del Santo Uffizio.
De Rolandis (provetto spadaccino) e Zamboni assunsero il comando. Scrissero manifesti e, con l'aiuto della mamma e della zia di quest'ultimo, Brigida e Barbara Borghi, confezionarono coccarde tricolore alla maniera francese, sostituendo l'azzurro col verde.
Attuata durante la notte tra il 13 ed il 14 novembre 1794, la sommossa non ebbe esito positivo e i due studenti furono scoperti e catturati a Covigliaio (frazione di Firenzuola, nella valle del Santerno) e rinchiusi nelle carceri del Torrone, insieme ad altre diciannove persone.
Luigi Zamboni fu trovato morto il 18 agosto del 1795 all'interno di una cella soprannominata "Inferno" nella quale si trovava segregato con due criminali, secondo alcuni esecutori materiali dell'omicidio per strangolamento su ordine espresso dalle guardie svizzere del Tribunale dell'Inquisizione. Secondo altre fonti storiche, il giovane, condannato, preferì togliersi la vita. De Rolandis fu impiccato il 23 aprile 1796 dopo crudeli torture.

Sin dalla prima metà del maggio 1796 il Senato bolognese, a fronte delle travolgenti vittorie di Bonaparte, aveva nominato una delegazione, composta da 12 senatori, due dei quali, Caprara e Malvasia, il giorno 12 si recarono ad incontrare le truppe francesi impegnate nel passaggio del Po, prima della Battaglia di Lodi; intanto il Senato, senza tener conto del governo papale (che stava tentando, con la mediazione della Spagna, di avviare trattative con i dirigenti francesi), pubblicò un editto con cui di ordinava «che non ardiscano né per sé, né per altri di far suonare le campane dell'armi, né di far adunare gli abitanti ed i paesani contro le truppe francesi che entrino in questa provincia, ma si vuole anzi che ognuno le rispetti e tratti amichevolmente nel loro soggiorno». Tuttavia l'andamento delle operazioni militari impegnava i Francesi altrove e pertanto la città, dopo quel primo incontro, restò per oltre un mese «sospesa nelle proprie dubbiezze»

Il 18 giugno 1796 le truppe francesi furono segnalate a Crevalcore, nel bolognese, e lo stesso giorno un'avanguardia di cavalleria, al comando del generale Verdier entrò in città a Bologna, seguita il giorno dopo da un'intera divisione, forte di 7 000 uomini, al comando di Augerau, che attraversò la Porta San Felice proprio mentre si svolgeva la processione del Corpus Domini, generando nei Francesi l'equivoco che si trattasse di una cerimonia in loro onore. Francesi allestirono il proprio campo dei soldati a Crociali, a nordovest della città, mentre gli ufficiali furono ospitati nelle case delle famiglie più abbienti.

Nella notte del 19 giugno 1796, Napoleone entrò a Bologna e dichiarò decaduto il governo Pontificio. Al parco della Montagnola, luogo dell'esecuzione di De Rolandis, venne subito eretta una stele in memoria dei due congiurati, sormontata da un'urna votiva. Tale cenotafio venne demolito nel 1814, al ritorno in Bologna dell'autorità Pontificia.
Bologna dunque era di fatto occupata dai francesi, posta sotto il controllo militare del commissario all'Armata d'Italia Antoine Christophe Saliceti, ma alla città fu riconosciuto l'autogoverno in cambio del riconoscimento dell'occupazione transalpina.

Per l'occasione parecchie chiese cessarono le loro funzioni, come S. Lucia in via Castiglione e numerosi frontali di edifici furono rivestiti con rivestimenti scintillanti per far bella figura col generale. Fu imposto al governo papale di pagare un'indennità di 21 milioni di lire tornesi (la valuta francese fino all'introduzione del franco germinale del 1803), mentre alla città ne furono richiesti 4, di cui la metà in contanti e l'altra in oro ed argenti, oltre alla requisizione di opere d'arte e di altri beni di valore custoditi all'Istituto delle Scienze. Fu necessario istituire una tassa sui facoltosi.

I Francesi si impadronirono inoltre dei beni esistenti presso il Monte di Pietà, tra i quali i depositi in natura dei produttori tessili, da cui, tuttavia, furono tenuti esenti quelli d'un valore inferiore alle 200 lire che Bonaparte ordinò di restituire, proclamando che «il vincitore mal soffrirebbe di vedere i suoi allori bagnati colle lagrime dell'indigente».

Poi Bonaparte, «informato delle antiche prerogative e privilegi lasciati alla città quando venne il potere dei Pontefici e come questi siano stati in ogni tempo lesi, intende restituire alla città stessa la sostanza del suo antico governo: in conseguenza è abolita ogni autorità e tutto il potere legislativo si concentra per ora nel Senato»: fu tuttavia posta la condizione che i senatori giurassero fedeltà alla Repubblica Francese con la formula «A laude dell'onnipotente Iddio, della beata vergine e di tutti i Santi, ad onore eziandio e riverenza dell'invitta repubblica di Francia ...». 

Anche i religiosi dovettero giurare di «esercitare il Sacro Ministero senza perturbazione della pubblica tranquillità» ed i Gesuiti furono diffidati «affinché non si mescolino nei pubblici affari, altrimenti mi troverò costretto ad espellerli per sempre». Tra coloro che si rifiutarono di giurare vi fu, per motivi religiosi, lo scienziato Luigi Galvani. Anche a Bologna furono eseguite dalla Commissione incaricata dal Direttorio asportazioni di opere d'arte ed oggetti di valore, in particolare 32 dipinti di Carracci e del Guercino custoditi presso l'Accademia Clementina che il 2 luglio 1796 presero la via di Parigi assieme a preziosi strumenti scientifici sottratti all'Istituto delle Scienze.

I dirigenti bolognesi, di inclinazione fortemente municipalista, resa ancora più radicale dall'insofferenza per il predominio negli affari civili di una Chiesa che occupava in modo improduttivo, con monasteri e conventi, un quarto della superficie urbana, sperarono che con i provvedimenti assunti da Bonaparte fosse arrivato il momento di poter recuperare un'ampia autonomia, ed in quella direzione il Senato si mise immediatamente all'opera.

Nello stesso 20 giugno 1796 Bonaparte metteva mano agli assetti bolognesi e inviava a Ferrara un ufficiale con un ordine rivolto alle pubbliche autorità cittadine di recarsi il giorno successivo, alle ore 12, presso il suo comando: erano convocati

- il legato pontificio, cardinale Pignatelli;
- il comandante del presidio della fortezza, Manciforte;
- il Giudice dei Savi, conte Alberico Tedeschi.
Giunti al cospetto del Generale i primi due furono bruscamente destituiti, ricevendo l'intimazione di allontanarsi senza rientrare in città; Pignatelli si rifugiò a Roma, ed il comandante se ne ritornò in Svizzera.
Al Giudice dei Savi fu concesso di rientrare, ma a due precise condizioni: avrebbe dovuto preparare gli alloggiamenti per le truppe francesi in arrivo e predisporre il formale giuramento di fedeltà alla Repubblica Francese da parte del Consiglio Centumvirale.

Dopo un paio di giorni di incertezza il 24 giugno entrò in città, a Ferrara, una brigata al comando del generale Robert, accolta da applausi e sfoggio di coccarde tricolori, con le principali famiglie ferraresi che si contendevano l'ospitalità degli ufficiali; il giorno successivo il Consiglio Centumvirale si affrettava a prestare il richiesto giuramento, con la formula: «Noi giuriamo ai Santi Arcangeli di Dio fedeltà alla Repubblica Francese ed ubbidienza a chiunque verrà legittimamente destinato a rappresentarla, e che così Dio ci aiuti» (riportato in: Silvio Pivano, Albori costituzionali d'Italia: 1796, Torino fratelli Bocca, 1913, p.280)

Seguiva l'allestimento dell'albero della libertà, l'abbattimento degli stemmi pontifici, la rimozione delle porte che rinchiudevano il ghetto e la trasformazione del "Magistrato dei savi" in governo "municipale", cui si fecero emanare tre decreti per ordinare l'espulsione dei religiosi francesi che si erano rifugiati a Ferrara sin dal 1791, la consegna di tutte le armi personali e l'obbligo di emigrazione per gli stranieri non residenti, oltre al sequestro di tutte le proprietà inglesi. Così, in meno di 48 ore, si sfaldava senza la minima resistenza un dominio papale durato circa 2 secoli.

Ma l'iniziale atteggiamento di favore dimostrato dai ferraresi verso i nuovi arrivati si scontrò quasi subito contro i primi provvedimenti del generale Robert e del Commissario Gustave Léorat che imposero alla città il pagamento di una contribuzione di 4 milioni di lire tornesi e, come a Bologna, si impadronirono del Monte di Pietà, considerato uno dei più ricchi della regione, i cui ingenti depositi presero la via di Parigi, facendo salvi solo i beni di modico valore e le fedi nuziali. Per mettere insieme l'ingente somma il Magistrato, benché formalmente governo soltanto municipale, dovette rivolgersi alle località del territorio, il che causò disordini e proteste ad Argenta e, soprattutto, nella cittadina di Lugo, considerata una delle più prospere della regione.

Nella località romagnola nacque una vera e propria insurrezione armata, che non si arrestò neppure di fronte ad alcuni tentativi di mediazione del vescovo di Imola Barnaba Chiaramonti (il futuro Papa Pio VII) e si concluse il 6 luglio con un bombardamento francese ed un successivo saccheggio, con molte vittime, alcune fucilazioni e diversi ostaggi.

Mentre a Lugo si combatteva, la municipalità ferrarese decise ai primi di luglio di imitare le altre città (Milano, Parma, Modena, Bologna) che già avevano inviato proprie delegazioni a Parigi, ognuna preoccupata per le proprie mire territoriali: nel caso di Ferrara la scelta dei delegati non fu semplice dato che i due rappresentanti Vincenzo Massari ed Alessandro Guiccioli, incaricati di richiedere al Direttorio l'istituzione di una federazione degli Stati che «rimanessero liberi in Italia», ma anche di contrastare le pretese dei bolognesi di estendersi verso il Po e la Romagna, ottennero solo 50 voti contro 40 contrari

A Bologna il 1º luglio venne istituita una Giunta di 30 membri con il compito di predisporre un testo costituzionale, che, con alterne vicende, concluse i propri lavori alla fine del settembre 1796.

Il giorno successivo i delegati bolognesi Caprara, Aldini e Savioli incontrarono Augerau per sottoporgli la proposta di formazione di una Guardia Civica di 600 unità: inizialmente si pensava ottimisticamente ad un forte afflusso di volontari, ma già il 19 luglio si dovette constatare che si erano arruolati solo in 300.
Fu pertanto necessario ricorrere alla coscrizione obbligatoria, che diede luogo a proteste e disordini in alcune comunità rurali (come ad Anzola il 1º settembre) e inoltre dovette scontare anche la carenza di vestiario per le divise: furono utilizzati abiti residui di lavorazione a righe che condusse i bolognesi a definire questa truppa 'rigaden', oltre che 'miliziotti'.
Mentre la città veniva retta provvisoriamente dal vecchio Senato, nel movimentato quadro politico emersero due fazioni:
- una corrente moderata, composta dall'aristocrazia senatoria, che tendeva a preservare il proprio dominio politico; la loro linea politica era da ricercarsi nella tradizione "contrattualistica" di Bologna, che doveva mantenere le antiche forme di governo e preservare l'autonomia cittadina sotto la protezione della Francia (al pari di quanto era accaduto sotto il dominio pontificio).
- dall'altra parte invece, un "partito" radicale che voleva una rottura netta con le istituzioni di antico regime e si ispirava maggiormente ai valori della rivoluzione francese. I radicali spingevano per la creazione di una nuova repubblica democratica, da attuarsi secondo le nuove forme della sovranità popolare e slegandosi dai vincoli delle vecchie istituzioni.
In questo clima di dibattiti e confronti si stava discutendo delle nuove forme istituzionali per la città, nonostante il Senato volesse rimandare l'argomento.

Il 6 luglio tre delegati bolognesi si recarono a Parigi per chiedere al Direttorio di preservare l'autonomia cittadina.

A Reggio Emilia il 10 luglio 1796 si verifica in città un tumulto, volutamente non contrastato dai Francesi. A quel punto è il Senato reggiano a richiedere, invocando la libertà, una serie di provvedimenti tra i quali la restituzione dei beni ecclesiastici degli ordini soppressi, il mantenimento a Reggio delle risorse locali, il ripristino dei diritti sul canale dell'Enza, l'amministrazione autonoma dei beni pubblici e la devoluzione a Reggio d'una parte dell'Università prima accentrata nella capitale del ducato, in modo da potervi svolgere lezioni ed esami.

A Bologna il 13 agosto la giunta aveva già terminato la stesura definitiva che venne presentata al Senato il 25 dello stesso mese. Questo testo era ispirato alla Costituzione francese del 1795, giudicando inadeguate le vecchie strutture politiche, ma con sostanziali divergenze.

A Ferrara, la calma seguita ai fatti di Lugo era destinata a durare poco: equivocando sulla frettolosa partenza del contingente francese diretto all’assedio di Mantova ed ai campi di battaglia di Lonato e Castiglione, l'arcivescovo Mattei proclamava il ripristino del potere papale, scontrandosi con la Municipalità che si rifiutava di appoggiare la restaurazione.

Tuttavia fu soltanto a metà agosto che i francesi, dopo aver respinto l’offensiva di von Wurmser ritornarono a Ferrara, intimando a Mattei di recarsi a Brescia presso il comando di Bonaparte, dove fu tenuto prigioniero sino al 28 settembre.

Il 20 agosto un banale diverbio avvenuto al mercato Reggio tra una popolana ed alcuni soldati modenesi, che la Reggenza aveva inviato a Reggio per mantenere l'ordine, fece scoccare la scintilla della rivolta, che portò, senza spargimento di sangue, al completo allontanamento delle truppe ducali dalla città, avvenuto 2 giorni dopo.

Seguì la proclamazione da parte del Senato reggiano dell'indipendenza da Modena e la richiesta di protezione francese.
Sul municipio della città venne issato uno striscione con scritto Repubblica di Reggio.
La sommossa reggiana diventa un punto di riferimento anche per i patrioti presenti nelle altre città dell'Emilia, perché «i cittadini di Reggio hanno dato il più luminoso esempio del loro amore per la libertà: non attesero che estranea mano sciogliesse le loro catene, ma loro stessi coraggiosamente operarono una rivoluzione».

Con un editto del 9 settembre il Senato reggiano comunica che «ben presto si formerà una deputazione destinata a proporre una Costituzione tutta democratica la quale, dopo esser stata approvata dal governo francese, sarà messa alla cauzione del popolo tanto della città quanto del contado e paesi riuniti»; poi il Senato si dimise convocando nuove elezioni con la nomina di 10 nuovi membri del governo. Ma se in città le cose procedevano velocemente, non pochi furono invece i contrasti con le località del circondario che, in genere, subordinarono l'adesione al "nuovo corso" alla possibilità di veder a loro volta riconosciute autonomie e diritti, mentre in qualche altro caso, ad esempio a Gualtieri, Novellara e soprattutto a Scandiano, rimasta una roccaforte dei partigiani del duca, vi furono resistenze e disordini, con vittime, che solo a fine ottobre trovarono soluzione.

In settembre a Bologna, il Senato varò importanti misure, su pressione dei radicali democratici.

Il 16 venne costituita una guardia civica, e i senatori aristocratici fecero rinuncia dei propri titoli nobiliari. Inoltre si procedette alla convocazione dei comizi elettorali per la ratifica del piano di costituzione.

Il 16 settembre, i Milanesi accolgono con entusiasmo una delegazione composta dai reggiani Paradisi, Lamberti e Re, con cui discutono d'una possibile e comune convocazione di una convenzione nazionale composta da 120 deputati rappresentativi di tutta l'Italia settentrionale sotto influenza francese, escluso il Piemonte, anche se questa iniziativa non avrà poi seguito.

Pochi giorni dopo un'analoga proposta è avanzata anche a Bologna.

Nonostante la fedeltà dimostrata dalla Municipalità di Ferrara ed alcuni atti di governo emanati in linea con le nuove idee in materia di annona, igiene, moneta, guardia nazionale, ormai i francesi non consideravano più la municipalità di Ferrara all’altezza del compito, sia per la presenza di elementi conservatori, sia in vista dell'imminente Congresso di Modena: così già il 25 settembre, il commissario Saliceti, in una lettera inviata da Firenze a Bonaparte aveva richiesto di sciogliere i governi locali per «disporre a Ferrara di uomini più svelti», ricevendone il consenso.

Il successivo 1 ottobre 1796 Saliceti decretò la sostituzione del Consiglio Centumvirale di Ferrara con una "Amministrazione centrale del Ferrarese" di 15 membri da lui nominati, e la soppressione di tutte le altre autorità municipali.

Nei primi giorni di ottobre Bonaparte, dopo aver respinto la controffensiva austriaca sconfiggendo le truppe del generale von Würmser a Bassano, decise di consolidare le sue retrovie e, senza consultarsi con il Direttorio, dichiarò «infranto» l'armistizio di giugno e decretò la decadenza del duca di Modena che «lungi dal rientrare nei suoi Stati ne rimane sempre assente ed invece di pagare col suo erario la maggior parte della contribuzione, come eravamo convenuti, ne fa portare il peso al popolo di Modena e Reggio, nel mentre che impiega il suo denaro in pro dei nemici della Repubblica» (proclama del 13 vendemmiatore, anno V, (4 ottobre 1796) dal quartier generale di Milano)

Il giorno prima, 2000 soldati francesi, al comando del generale Sandoz avevano preso possesso della città di Modena, avvenimento che alcuni predicatori attribuirono ad una «punizione di Dio per i peccati d'Italia».

L'entusiasmo salì al massimo quando il 5 ottobre, il giorno successivo alla dichiarazione di decadenza del duca di Modena, un drappello della Guardia Civica reggiana, che era stata costituita dopo il moto del 20 agosto sino a raggiungere il migliaio di elementi, sotto il comando dall'ex ufficiale ducale Francesco Scaruffi, sorprese e catturò a Montechiarugolo, nei pressi di Parma, con la perdita di un militare, un reparto austriaco di 150 soldati che, usciti dall'assedio di Mantova con una sortita, avevano intenzione di raggiungere la Toscana. Il fatto d'arme, di per sé scarsamente significativo nell'ambito della Campagna d'Italia, ebbe tuttavia una grande risonanza propagandistica per l'orgoglio delle nascenti repubbliche emiliane e lo stesso Bonaparte, segnalandolo al Direttorio quale esempio delle ritrovate virtù militari italiane, consentì che fossero gli stessi reggiani al comando di Carlo Ferrarini a scortare i prigionieri sino a Milano, dove furono accolti da grandi festeggiamenti culminati con un concerto alla Scala. Foscolo inviò ai reggiani una lettera con la quale dedicò loro una sua ode.

L'8 ottobre a Modena viene soppressa la Reggenza ducale estense, con il passaggio dello Stato alla Repubblica francese, e la nomina di un Comitato esecutivo di 7 membri, integrati da due delegati della Garfagnana e del Frignano, che giurano fedeltà alla Francia, mentre coloro che avevano fatto parte della Reggenza vennero espulsi.

Con la caduta del regime ducale, non v'era più motivo di tenere separati i due territori modenese e reggiano - a quel punto entrambi sottomessi alla Francia - e l'11 ottobre il Direttorio ne ordina la riunione sotto un solo governo, facendo svanire ogni ipotesi di una autonoma repubblica reggiana e provocando non poche proteste, tanto che un documento del governo provvisorio reggiano di quei giorni rilevava che «coi modenesi non abbiamo e non intendiamo avere alcuna comunione di interesse»

Napoleone, preoccupato per la situazione strategica dove lo vedeva ancora impegnato contro l'Austria, che per quanto già sconfitta in diverse occasioni, continuava ad attaccarlo. Ciò rendeva necessaria una riorganizzazione dei territori conquistati, in modo da rafforzare e rendere sicure le retrovie e allo stesso tempo diventare minaccia per gli Austriaci; a tale fine era possibile utilizzare l'entusiasmo suscitato, almeno in una parte delle popolazioni, dalle idee rivoluzionarie per concedere un'autonomia che non fosse in contrasto con le esigenze della guerra in corso.

Dopo aver inizialmente immaginato un incontro più vasto, Bonaparte assunse l'iniziativa il 9 ottobre incaricando Garrau, commissario del Direttorio presso l'Armata d'Italia, di «riunire un Congresso a Bologna o a Modena composto da deputati degli Stati di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio Emilia. I deputati saranno nominati dai diversi Governi in modo che l'assemblea sia composta da un centinaio di persone [...]. Bisognerebbe curare che ci siano tra i deputati nobili, preti, cardinali, commercianti, uomini di ogni stato sociale generalmente stimati e patrioti» (Corréspondances de Napoleon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, IIme vol, fiche 44)

Sulla base di queste indicazioni, si lavorò alla preparazione del Congresso e il 12 ottobre alcuni esponenti dei governi provvisori furono convocati da Garrau, suscitando negli interessati qualche apprensione sul fatto che "non si proporrà cosa che offenda la Religione e che sugli altri aspetti nessuna risoluzione verrà presa se non avuto riguardo ai diritti del popolo".

A Modena è abbattuta la statua equestre del duca ed il 12 ottobre venne emanato un proclama che proibiva l'uso dei titoli nobiliari, dei blasoni e delle livree, ordinandone l'abbandono entro 8 giorni, ed abrogava i diritti dei origine feudale come i fidecommessi ed i maggioraschi.

Il 13 ottobre Bonaparte arriva in città a Modena, accolto con grandi onori e festeggiamenti e nello stesso mese si intensificarono le manifestazioni a favore del nuovo corso: si piantano alberi della libertà a Correggio, Carpi e Montecchio.

Le preoccupazioni espresse a Garrau dai rappresentanti dei governi provvisori emiliani il 12 ottobre sono fugate in un incontro che si svolge il 16 ottobre tra Bonaparte, affiancato dai commissari francesi Garrau e Saliceti, e quattro delegati dei governi locali cui si dà l'indicazione che "nulla starà più a cuore ai rappresentanti dei quattro popoli che di mantenere la Religione e la Proprietà".

Nella fase preparatoria al Congresso si determinò la distribuzione territoriale dei delegati, che vennero nominati non soltanto nell'ambito dei governi cittadini, ma anche tra persone influenti delle aree rurali (rappresentando così una novità rispetto al passato), stabilendo inizialmente 105 deputati totali, poi leggermente aumentati con la correzione di alcuni errori di calcolo proporzionale.

Il primo Congresso Cispadano - Il 16 ottobre 1796, alla presenza di Bonaparte, che rivolse ai convenuti un saluto in lingua italiana, sì aprì a Modena il Primo Congresso Cispadano. L'inaugurazione, presso Palazzo Ducale, fu accompagnata da balli e festeggiamenti con oltre 300 convitati. Il bolognese Antonio Aldini è eletto alla presidenza del Congresso. I lavori, che si protrarranno fino al 18 ottobre, si svolgeranno nel Palazzo Rangoni, sulla Via Emilia e ben presto quella che doveva essere una riunione a fini di collaborazione essenzialmente militari diventa un evento politico.

Sono emanati due atti: il primo è un proclama, elaborato dal deputato Favi di Ferrara, indirizzato «a tutte le genti della Penisola» per annunciare la realtà della neonata Confederazione cispadana, che si dichiara aperta all'ingresso di altri popoli;
poi con un secondo appello più specifico, scritto dal bolognese Ferdinando Marescalchi, il Congresso si rivolge ai popoli della Romagna, ancora sotto lo Stato Pontificio, invitandoli esplicitamente ad unirsi alla federazione. Il proclama di Marescalchi in particolare, ebbe una qualche risonanza, provocando moti a Faenza, repressi dalle autorità provocando una vittima e alcuni arresti.

In soli tre giorni di adunanza, il primo Congresso di Modena, su cui ancora pesavano le secolari diffidenze tra le diverse città, non poté andare oltre una dichiarazione solenne, votata per acclamazione alla presenza del generale Auguste Marmont a cui Bonaparte aveva incaricato di assistere ai lavori, di voler rendere permanente l'unione dei territori tramite una Confederazione.

Al fine di istituire il nuovo ente, che comprendesse e mantenesse i governi locali già esistenti, si decise di indire un secondo Congresso, ovviamente con il consenso francese. La nuova assemblea doveva svolgersi a Reggio Emilia e a differenza della precedente i deputati non sarebbero più stati nominati, bensì eletti «col motivo di assicurare la felicità e la sicurezza dei popoli di Bologna, Modena, Reggio e Ferrara».

Il primo Congresso Cispadano si chiude il 18 ottobre e nonostante le difficoltà, stretto tra le resistenze al nuovo corso di una parte delle popolazioni e le enormi difficoltà finanziarie in cui versavano i vari territori soggetti alle indennità belliche imposte dai Francesi, rafforzò la visione "unitaria" delle città che vi parteciparono, pur rivestendo un'importanza "morale" piuttosto che pragmatica. Tutto questo suscitò apprezzamento nello stesso Bonaparte che il 17 ottobre aveva informato il Direttorio che i delegati «sono animati da un entusiasmo ed un patriottismo vivissimi. Credevo che i Lombardi fossero il popolo più patriota d'Italia, ma comincio a credere che Bologna, Ferrara, Modena e Reggio li sorpassino in fatto di energia» (Corréspondances de Napoleon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 166)

In tal modo si era compiuto un primo passo verso l'istituzione di una repubblica una ed indivisibile, a cui erano più favorevoli ferraresi, reggiani e modenesi, molto meno i bolognesi. L'esito del Congresso si diffuse nel panorama italiano, suscitando notevoli entusiasmi e diventando un esempio per altre realtà, come ne è testimonianza il periodico milanese che scrisse: «L'Italia sarà finalmente libera. Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara hanno stabilito le basi della Confederazione Cispadana, risorta dall'antica Lega Lombarda» (Termometro politico della Lombardia, 25 ottobre 1796)

A Bologna il clima politico si fa sempre più teso e il 18 ottobre, i democratici passano all'azione con un'insurrezione, innalzando l'albero della libertà in Piazza Maggiore, con grande mobilitazione popolare. Intervenuto direttamente Bonaparte, che ordina il rispetto delle autorità cittadine e dell'albero della libertà, si procede alla presentazione definitiva della nuova costituzione.

I provvedimenti rivoluzionari a Ferrara ebbero un'accelerazione quando Bonaparte, giunto nella città estense per una sosta il 20 e 21 ottobre, ordinò la soppressione della Inquisizione, l’abrogazione del Tribunale Ecclesiastico e del diritto di asilo nelle chiese, la proibizione dei titoli nobiliari, l’incameramento da parte dell’erario dei crediti vantati dai monasteri e l'istituzione di una amministrazione civile per i parroci meno abbienti, da sostenere con una indennità annua di 120 scudi (quest’ultima decisione non fu mai attuata). Venne anche pubblicato un decreto con cui si proclamava la totale libertà di stampa per "fornire attraverso di essa i lumi e tutti quei mezzi atti a promuovere la pubblica felicità in tutti i campi: l’agricoltura, il commercio, il sistema daziario, la pubblica istruzione, i costumi". Durante i due giorni di visita del Generale, si tennero feste da ballo al Castello Estense e veglioni all'aperto, con distribuzione di cibo al popolo. Ma le condizioni della zona restavano tutt’altro che tranquille sia economicamente, a causa delle requisizioni francesi, sia politicamente, per via delle forti, anche se latenti, resistenze che emergeranno quando si tratterà di votare per la nuova Repubblica, mostrando una situazione di malcontento delle campagne, non colta dai fautori del nuovo corso, prevalentemente di estrazione urbana, intellettuale e borghese.

A Modena, chiesto ed ottenuto l'assenso di Garrau, il 23 ottobre al Teatro anatomico si tiene la prima riunione della Società di Pubblica Istruzione con lo scopo di «illuminare il popolo sui suoi diritti e doveri onde metterlo in stato di sapersi dare e ricevere una buona legislazione», ove vennero invitati i soldati francesi feriti e degenti negli ospedali ai quali si prometteva «un'eterna riconoscenza [in quanto] l'Italia è libera e la libertà è opera vostra».

A Bologna, il 30 ottobre, la giunta incaricata presenta il piano di Costituzione e il sistema elettorale. Le elezioni si tennero tra il 6 e il 7 novembre.

La Costituzione della Repubblica Bolognese fu ratificata il 4 dicembre con 454 voti a favore e 30 contrari, la prima in Italia ad essere ispirata ai valori della Rivoluzione francese; ma non entrò mai in vigore.

La causa principale delle difficoltà economiche restavano le contribuzioni intimate dall'Armata d'Italia, che raggiunsero cifre enormi. Solo nel 1796, nel giro di circa 9 mesi, i Francesi trassero dall'Italia 45 milioni e 708 000 franchi in denaro, più 12 milioni e 120 000 in oro, argento ed altri beni, a cui andava aggiunto il valore, anche se in gran parte immateriale, delle centinaia di opere d'arte sottratte alle strutture pubbliche o private. Benché il denaro non provenisse tutto dall'area emiliana, tali importi erano comunque in grado di mettere in ginocchio, per la quota ad essa riferita, anche un'economia florida come quella della pianura inferiore del Po. Le requisizioni erano aggravate, nonostante provvedimenti severi assunti in qualche caso dalle autorità militari francesi, da «spoliazioni, ruberie, violenze e soprusi» e l'insieme dei due fattori causò carenze di generi alimentari, cereali e soprattutto di bovini da lavoro, dei quali fu persino bloccata l'importazione per motivi sanitari.

Il 23 novembre il governo provvisorio bolognese dovette intervenire in quanto diversi parroci si erano rifiutati di tenere i comizi elettorali, spargendo la voce che i registri servivano per una temuta leva militare. Nel modenese, mentre i vescovi giurarono fedeltà alla Repubblica Francese, il clero delle campagne restava ostile e lo manifestò in vario modo, in particolare a Formigine, Spezzano, Maranello e Nonantola.

Come già accaduto a Lugo durante l'estate, l'insofferenza per il comportamento francese provocò in qualche caso vere e proprie insurrezioni, scoppiate già in autunno e proseguite nell'inverno del 1796. La prima di queste avvenne all'inizio del dicembre 1796 a Concordia sulla Secchia e venne agevolmente repressa dal generale Rusca, che impose la consegna di 2 ostaggi deportati a Milano, sequestrò tutte le armi e pretese una penale di 4 000 lire modenesi.

Fatti più gravi occorsero a Carrara, occupata da giugno con 300 fanti e 25 ussari dal generale Lannes. Il 6 dicembre i carraresi, benché inizialmente avessero accolto con favore e con speranze di autonomia l'arrivo dei Francesi, di fronte alla brutalità dell'occupazione che li aveva costretti a pagare un'indennità di 10 000 pezze ed intendeva disporre l'abbattimento, sempre per denaro, della pineta cresciuta sull'arenile di Marina di Carrara che fungeva da protezione dei coltivi dal salmastro, si ribellarono abbattendo l'albero della libertà. La repressione francese fu anche in questo caso demandata a Rusca da Bonaparte, che ordinò: «Milano, 11 dicembre 1796, (...) Vi recherete a Carrara e farete fucilare tre dei capi, bruciare le case dei più in vista tra coloro che han preso parte alla ribellione e prenderete 6 ostaggi che invierete al Castello di Milano. Bisogna far passare al popolo la voglia di ribellarsi e di farsi sviare dai malintezionati» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1261)

Di tutte le sommosse antifrancesi avvenute tra l'ottobre del 1796 e il gennaio dell'anno successivo, la più grave fu senz'altro quella che riguardò la Garfagnana. Per più di un mese tra novembre e gennaio, le rivolte isolarono questa vallata, nota per la sua storica fedeltà alla dinastia Estense, costringendo alla fuga i rappresentanti del governo modenese di cui faceva parte anche il poeta Giovanni Fantoni. La situazione rischiava di provocare un indebolimento strategico alle spalle dell'Armata d'Italia e Bonaparte affidò ancora una volta al generale Rusca il compito di riconquistare la zona. Sebbene gli insorti, al contrario di quanto successo a Lugo, all'arrivo delle colonne francesi si disperdessero senza opporre alcuna resistenza armata, la repressione che ne seguì fu particolarmente dura, con fucilazioni ordinate dalle Corti marziali, ostaggi deportati sino a Milano, abitazioni distrutte.

Il 10 dicembre, Napoleone riceve a Milano alcuni rappresentanti dei governi provvisori, concedendo una mitigazione dei pesanti carichi finanziari dell'occupazione francese ed accogliendo alcune rimostranze per i molti abusi a cui essa stava dando luogo.

Nonostante le crisi e l'incertezza che caratterizzavano l'Italia settentrionale alla fine del 1796, proseguì il cammino per l'istituzione di un soggetto istituzionale cispadano avviata con il Congresso di Modena, e mise in evidenza come Bonaparte non intendesse più svolgere un mero ruolo militare, ma stesse ormai diventando una guida politica, rendendosi sempre più autonomo dal Direttorio. Di questa strategia faceva parte l'istituzione in Italia di nuovi Stati basati sugli strati sociali moderati e la rinuncia ad ogni velleità di instaurare nuovi culti o di assecondare le idee più intransigenti. Questi propositi emersero chiaramente in una lettera inviata a Parigi in occasione dell'apertura del secondo Congresso Cispadano, con la quale delineava gli obiettivi politici che riguardavano i territori emiliani, in contrasto col governo locale che preferiva puntare sulla nobiltà e sulla borghesia abbiente, diffidando al contrario dell'azione dei patrioti: «Milano, 28 dicembre 1796. Le Repubbliche Cispadane sono divise in tre partiti: 1) gli amici dei vecchi regimi, 2) i sostenitori di una Costituzione indipendente, ma un po' aristocratica, 3) i sostenitori della Costituzione francese o della democrazia assoluta. Io reprimo il primo, sostengo il secondo e modero il terzo» (Correspondances de Napoleon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1321)

Il Secondo Congresso Cispadano - A Reggio Emilia, dopo la solenne funzione religiosa propiziatoria dei lavori del 26 dicembre e la legatura delle campane per non disturbare le sedute, il Congresso inizia ufficialmente i propri lavori la mattina del 27 dicembre 1796 con la presenza dei 102 deputati eletti, non nominati come a Modena, al cospetto di Marmont, ufficiale di fiducia di Bonaparte, da questi delegato a seguirne (e, secondo alcuni storici, indirizzarne) i lavori.

Lo stesso Bonaparte aveva rivolto da Milano, al Congresso di Reggio, un saluto augurale nel quale scriveva che «Se gli italiani d'oggi sono degni di riscoprire i loro diritti e di darsi un libero governo, vedremo un giorno vedere la loro patria figurare tra le potenze del globo. Siete in una posizione più fortunata del popolo francese, potete arrivare alla libertà senza la rivoluzione ed i suoi crimini» (Fiorini, Introduzione, p.II)

Era quindi in un clima di grande ottimismo, non guastato neppure dalle manifestazioni di ostilità di una parte della popolazione reggiana verso i deputati provenienti da Modena, che si riuniva un Congresso con cui, nel pensiero di molti, si poteva superare la Confederazione Cispadana definita ad ottobre a Modena creando al suo posto una vera e propria Repubblica dotata di un proprio assetto istituzionale.

L'ondata iniziale di entusiasmo tuttavia si scontrò sin dalla prima giornata con un ostacolo: i deputati bolognesi insistevano per voler applicare la costituzione della Repubblica Bolognese, votata in San Petronio il 4 dicembre, che implicava di fatto il mantenimento di un assetto federativo per il nuovo Stato. La soluzione, dopo non poche discussioni, fu trovata in un cavillo che prevedeva una deroga al mandato stesso «nel caso di urgenze». La proposta, fatta dal deputato bolognese Anselmo Spezziani, fu di considerare la stessa prosecuzione del congresso come un caso d'urgenza.

Questa mediazione però non impedì che i deputati felsinei votassero contro il proclama che stabiliva il blocco della Carta bolognese ed ordinava la sospensione dei comizi elettorali già previsti per il 10 gennaio; la decisione passò infatti con una maggioranza di 68 voti contro i 34 dei rappresentanti bolognesi. La votazione fu accolta con «slanci di esaltazione e di giubilo per la concordia», e per non esacerbare gli animi si incaricò Giuseppe Compagnoni (giornalista di Lugo che aveva abiurato i voti sacerdotali in segno di protesta contro le torture inferte dal Tribunale dell'Inquisizione ai detenuti) di redigere un appello conciliante verso la città di Bologna, nel quale si riconosceva che «voi siete una delle più belle porzioni di questo popolo e la Costituzione che da questo Congresso sarà posta in approvazione dovrà essere pure la vostra [in] quello spirito patriottico per cui voi, primi tra tutti, vi siete costituiti in popolo libero».

Superate le prime difficoltà, il Congresso nella seduta del 30 dicembre giunge alla tanto attesa proclamazione di una «repubblica una ed indivisibile, in modo che le popolazioni formino un solo popolo, una sola famiglia, per tutti gli effetti tanto passati, quanto futuri [e che] la dolcezza di una fraterna unione succeda adunque alle antiche rivalità fomentate dall'inumana politica del dispotismo». Anche il debito dei quattro Stati venne dichiarato comune. Queste decisioni furono votate nel tardo pomeriggio per territori, e successivamente vennero approvate all'unanimità ottenendo l'aperto applauso di Marmont; il congresso deliberò di informarne immediatamente Bonaparte: «accettate, o generale invitto, questa nuova repubblica; Voi ne siete il padre, Voi il protettore», il quale due giorni dopo rispose con la seguente lettera (che il Congresso deliberò immediatamente di stampare e distribuire ovunque): «Milano, 1 gennaio 1797, Al Cittadino Presidente del Congresso Cispadano, ho appreso con vivo interesse che le repubbliche cispadane si erano riunite in una sola e che, prendendo come simbolo un turcasso, si siano convinte che la loro forza sta nell'unità ed indivisibilità. La povera Italia è da tempo esclusa dai tavoli delle potenze europee: se gli italiani, oggi, sono degni di riscoprire i propri diritti e darsi un libero governo, si vedrà un giorno la loro patria figurare gloriosamente tra le potenze del globo. Ma non dimenticate che le leggi sono nulla senza la forza. La vostra prima preoccupazione deve riguardare l'organizzazione militare» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1349)

Nonostante questo risultato si manifestò ancora incertezza sul ruolo del Congresso, tanto che riemerse ancora la posizione, del bolognese Ignazio Magnani, che sottilizzando sulla differenza tra Repubblica "formata" ed "attivata", propose di sciogliere l'assemblea, facendo salva la Costituzione bolognese. Ad essa si contrappose la proposta di Bertolani di dichiarare invece il Congresso stesso quale organo permanente della Repubblica, mozione che fu approvata seppure con i 30 voti contrari dei bolognesi, il che indusse un deputato reggiano, Notari, ad accusarli di «voler giudaicamente preservare le idee dell'aristocrazia», causando nella sala confusione ed alterchi.

Repubblica Cispadana con confini verdi nella carta,
che inizialmente comprende i 4 territori di Reggio Emilia,
Modena, Bologna e Ferrara, a cui in seguito si aggiungeranno
Garfagnana, Massa, Carrara e infine Imola, la Romagna. 
Con confini in rosso la Repubblica di Venezia,
in giallo il Ducato di Milano degli Asburgo d'Austria.

Nei giorni seguenti, il Congresso di Reggio proseguì faticosamente e confusamente, segnato ancora da molti contrasti. Al conflitto tra la visione unitaria e quella localistica-federale, che già aveva caratterizzato lo scontro iniziale con i Bolognesi, e che aveva portato alla decisione di far decadere le autorità locali, prevalsa con solo 51 voti contro 49, si aggiunse e si intrecciò il contrasto tra la tendenza democratica e la prevalente estrazione moderata dei deputati, sia sui principi sociali ed economici che su quelli relativi alla libertà di culto.

In questo contesto di incertezza ed improvvisazione, il Congresso trovò comunque altri due momenti altamente unitari:

- il primo avvenne il 7 gennaio 1797 e fu l'unanime approvazione, su mozione del deputato ex sacerdote lughese Giuseppe Compagnoni, del vessillo tricolore che egli propose di rendere «universale», rispetto a quelle delle coorti cispadane dei vari territori, formato dai colori verde, bianco e rosso disposti orizzontalmente e con al centro le 4 frecce rappresentanti i territori della repubblica.
- Il secondo fu l'arrivo a Reggio, l'8 gennaio, dei deputati provenienti dalla Garfagnana, che a seguito della sommossa non avevano potuto essere eletti, per cui furono nominati dal generale Rusca nelle persone di Giuseppe Cozza e Paolo Venturelli in quanto «assolutamente devoti al governo di Modena ed alla Repubblica Francese». Accolti «tra i giubbili e gli applausi, [essi] vengono a riunirsi sotto le insegne della libertà e raccontano come Rusca abbia ristabilito l'ordine».

Bandiera della Repubblica Cispadana
al Museo del Tricolore di Reggio Emilia.

Nel frattempo il Congresso aveva deliberato l'invio di due suoi componenti, Lamberti e Natali, a Massa per sostenere l'unione alla Cispadana, poi avvenuta, di quella città e della più riottosa Carrara.

A causa dei tentennamenti che caratterizzarono il Congresso di Reggio, cui pure si doveva la proclamazione della Repubblica e dei suoi simboli, esso non riuscì affrontare la questione più importante, quella costituzionale. Solo dopo diversi giorni fu votata, su proposta del reggiano Pistorini, la proposta di formare una commissione che redigesse un Piano di Costituzione - composta da 8 membri, 2 per territorio - salvo poi, qualche giorno dopo, incaricare invece di tale adempimento il Comitato di governo provvisorio nel frattempo nominato e concedendogli ben 2 mesi di tempo.

Del resto lo stesso Napoleone aveva scritto a Marmont già il 1º gennaio: «sarebbe meglio che lasciassero i quattro governi provvisori come sono sino a che abbiano maturato la loro Costituzione e riunito una convenzione nazionale» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 1361)

Il "consiglio" di Bonaparte annullava molta parte del faticoso lavoro intrapreso dal Congresso nel corso di ben sedici sedute, salvando solo la proclamazione della Repubblica e del suo stendardo, cancellando l'istituzione del Governo provvisorio e le relative nomine, e restringeva a soli dieci giorni il tempo per predisporre il testo costituzionale.

La Commissione nominata per preparare il testo della Costituzione era composta da:
- l'avvocato Antonio Aldini ed il marchese Federico Angelelli per Bologna;
- il letterato Giovanni Paradisi ed il magistrato Pellegrino Nobili, per Reggio Emilia;
- l'avvocato Benedetto Medici ed il canonico Carmine Contri per Modena;
- il notaio Onorio Pasetti ed il giurista Carlo Facci per Ferrara.
Tuttavia Bonaparte non si dimostrò molto convinto della loro preparazione, al punto che chiese, senza poi ottenerlo, che da Parigi venissero inviati tre giuristi francesi, tra i quali l'abate Sieyès.

Il Terzo Congresso Cispadano - In seguito all'intervento di Bonaparte, che aveva bruscamente sospeso il Congresso di Reggio, gli stessi deputati si ritrovarono a Modena il 21 gennaio.

Nel frattempo i francesi avevano vinto a Rivoli, e da lì a poco si sarebbe arrivati alla resa di Mantova, contemporaneamente all'attacco di Napoleone allo Stato Pontificio. Questi avvenimenti rafforzarono il dominio francese nel nord Italia, al riparo del quale il Congresso cispadano poté dedicarsi ad elaborare la Costituzione.

Intanto la Repubblica si stava ingrandendo: il 30 gennaio erano arrivati, tra gli applausi, i deputati di Massa e Carrara, e il 1º febbraio Imola fu unita alla Cispadana.

Ma ciò non impedì che il Congresso fosse pervaso, su molti temi, da scontri tra le diverse tendenze, impegnandosi in una discussione così lunga da suscitare la crescente impazienza di Bonaparte.

Il principale argomento di contrasto per tutta la durata del terzo Congresso riguardò il ruolo costituzionale da assegnare alla religione, per il quale si fronteggiarono i fautori della definizione del cattolicesimo quale "culto dominante" e coloro che invece sostenevano che la Carta non doveva menzionare tale aspetto. Questo dibattito mise in evidenza anche il più generale conflitto tra le tendenze socialmente moderate e quelle più radicali, come emerse dalle opposte tesi dei deputati Niccolò Fava, di Bologna, ed ancora Giuseppe Compagnoni, di Ferrara: «Vi siete impegnati al dare al popolo cispadano una Costituzione fondata sul principio di libertà ed eguaglianza: ora, se proclamate nell'atto costituzionale una religione, voi violereste libertà ed eguaglianza....La libertà di religione è anche necessaria per rendere quella cattolica vigorosa e florida» (Giuseppe Compagnoni, dall'opuscolo Intervento del deputato Giuseppe Compagnoni al Congresso di Modena, 4 febbraio 1797, stampato in Modena)

Alla fine i sostenitori della menzione al cattolicesimo in Costituzione si imposero largamente con 70 voti a 31, mentre l'unico successo dei fautori della libertà di culto fu la votazione (76 a favore e 23 contrari) che escluse i religiosi da ogni elettorato passivo, anche per le amministrazioni locali, laddove emerse l'ostilità dei bolognesi verso il trascorso dominio papale. In merito alla libertà di culto, in Costituzione rimase solo un generico diritto a «non essere inquietati per opinione religiosa»

Nel corso delle 38 sedute del Congresso di Modena, numerosi scontri evidenziarono che le tendenze moderate prevalevano su quelle più progressiste, che rimanevano minoritarie.

In particolare, nel corso della 21ª sessione, il 12 febbraio 1797, quando si trattò della pubblica istruzione. La proposta del deputato Contri, che prevedeva come la Repubblica fosse tenuta «a prender cura dell'istruzione dei cittadini» rimuovendo la cause socioeconomiche che potessero impedire l'esercizio del diritto allo studio, ottenne solo 10 voti a favore contro 78, benché venissero comunque previste in ogni circondario scuole primarie laiche per fanciulli e fanciulle, con maestri pagati dallo Stato.

Non poche sedute del Congresso furono impegnate a determinare l'assetto territoriale della nascente Repubblica in quanto riemersero tutte le antiche gelosie e diffidenze tra i territori.

Tra il 14 ed il 25 febbraio la discussione fu più volte rinviata e ripresa dedicandovi ben sei sedute senza che si riuscisse a raggiungere una definizione territoriale compiuta, per la preoccupazione di molti congressisti di scongiurare un peso eccessivo di Bologna, che contava 197.000 abitanti rispetto ai circa 950.000 dell'intera Repubblica.

Il protrarsi di queste discussioni causò la crescente irritazione di Bonaparte che dopo aveva concesso, senza esito, altri 10 giorni per chiudere i lavori con scadenza al 12 febbraio, finché all'una di notte del 24 febbraio, il Generale apportò alcune modifiche al testo che furono accolte senza discussioni dal Congresso, tra cui la definizione della sezione, in luogo della parrocchie, quale unità elettorale di base e la riduzione del Direttorio da 5 a 3 membri.

Alla fine, dopo un'ulteriore minaccia di Bonaparte di imporre un governo militare qualora la Carta non fosse stata approvata, il 1º marzo la Costituzione, composta di 404 articoli suddivisi in 16 Titoli più 12 disposizioni provvisorie, era pronta per essere votata dal Congresso, suggellata dal suo articolo finale: «La presente Costituzione si affida alla saviezza e fedeltà del Corpo Legislativo, del Direttorio Esecutivo, degli amministratori, dei Giudici, alla vigilanza dei padri di famiglia, all'affetto delle madri e delle spose, al coraggio dei giovani ed all'unione e virtù di tutti i cispadani»

Napoleone, dopo i precedenti interventi sul testo, anche al momento di apporre la sua firma di ratifica manifestò incertezze a proposito dell'articolo sulla religione, poi diede il via libera con un assenso poco convinto che, secondo qualche storico, già prefigurava la sua scarsa stima per la neonata Repubblica, come misero in luce le decisioni assunte in seguito, di annetterla a quella Cisalpina. Il Congresso, dopo oltre due mesi di esistenza tra Reggio Emilia e Modena, si sciolse alle 19:15 dello stesso 1º marzo.

Nonostante i tre Congressi avessero comportato una rottura epocale rispetto a regimi secolari trattandosi della «prima ed unica Costituente delle repubbliche italiane create dalla Francia rivoluzionaria, di importanza storica per l'Italia», il testo costituzionale che faticosamente ne scaturì raccolse a suo tempo non poche critiche sia all'interno che fuori dalla Cispadana.

Si accusarono i costituenti di eccessivo moderatismo e di non aver saputo interpretare correttamente i principi rivoluzionari, per cui «ogni buon italiano non può vedere senza indignazione l'attitudine nulla e quasi liberticida del Congresso: gli italiani rigenerati hanno bisogno di poche leggi semplici ed egualmente favorevoli a tutti e d'una base democratica, cioè eguaglianza perfetta dei diritti».

A Milano si scrisse che «non può sentirsi all'orecchio, a meno di scandalizzare ogni amico della buona filosofia, di una religione "dominante", parola troppo lesiva dei diritti degli uomini per non meritare la più severa censura e la più sollecita emenda».

Voti contrari ed astensionismo - Il diffuso dissenso, frutto di opposte tendenze, che aveva segnato la nascita della Costituzione Cispadana emerse con chiarezza quando il 19 marzo 1797 si svolsero i comizi indetti per approvarla, dopo che si era costituito un Comitato di verificazione dei risultati.


Le votazioni si svolsero tra non pochi problemi: in alcuni centri si verificarono dei tumulti ed in qualche località prevalsero i voti contrari.
In molti centri, tra cui Lugo, Cotignola, Fusignano e qualche frazione di Imola, si segnalarono comportamenti ostili, quasi di boicottaggio, da parte dei parroci cui spettava la tenuta dei registri elettorali.
Nel Dipartimento del Po (il Ferrarese) su 185 parrocchie si votò solo in 73 e dei 231.000 elettori solo 99.000, meno della metà, si recarono alle urne; nel reggiano vi furono molte contestazioni dato che la carta non prevedeva nulla in merito ai fitti agricoli.
Per contro altrove, in particolare a Modena, prevalevano opposizioni contrarie di impronta giacobina, che si riconoscevano nell'azione della Società di Pubblica Istruzione animata da Giovanni Fantoni, nella quale si arrivò a costituire formazioni militari composte da fanciulli di età inferiore a 12 anni.
Tutto questo fece temere il peggio ai fautori della Costituzione ed indusse alcuni di loro, tra i quali il Compagnoni, ad ipotizzare anche alcuni accorgimenti tecnici, al limite del broglio, per raggiungere comunque il risultato.
Ci vollero ancora otto difficili giorni perché il 27 marzo venisse proclamato un risultato che assegnava alla Costituzione 76.382 voti favorevoli a fronte di 14.259 voti contrari: non proprio un plebiscito, tenuto conto della notevole astensione e del regime di occupazione militare dei territori; ma sul momento prevalse la soddisfazione che indusse il Comitato di verificazione ad emanare, con un ottimismo destinato a durare poco, un proclama con cui annunciava «Siamo a quest'ora un popolo costituito, abbiamo un patto sociale solennemente sanzionato, avremo tra poco un governo stabile, una rappresentanza legale, un corpo di magistrati e di funzionari pubblici eletti»

Bologna, per un breve periodo, tra aprile e maggio 1797, sarà la capitale della neonata Repubblica.

Elezioni del Parlamento e del Direttorio Cispadano - Il passo successivo sul cammino della Repubblica furono le elezioni indette dall'1 al 3 aprile per il Corpo Legislativo organizzato in un sistema bicamerale composto da una camera bassa, il Consiglio dei Sessanta, ed una Camera alta, il Consiglio dei Trenta.

Se l'approvazione della Costituzione aveva dimostrato l'esistenza di un blocco "moderato" scontento della nuova realtà, il risultato elettorale fu, da questo punto di vista, ancora più evidente poiché gli eletti risultarono in netta prevalenza provenire dall'ambiente aristocratico, al cui successo aveva contribuito l'azione di molti ecclesiastici.
Erano infatti numerosi coloro che avevano abbracciato il nuovo corso solo per poterlo indirizzare, ma vi furono anche casi di aperta ostilità come accadde a Lugo dove fu eletto Matteo Manzoni, uno dei capi della rivolta del luglio 1796, oppure come quello del cardinal Mattei di Ferrara, che definì "eretica" la Repubblica in quanto vi era consentita la libertà di pensiero.
Analoga tendenza prevalse per le altre numerosissime cariche in palio in quella tornata elettorale, dai Giurati della Corte di Giustizia all'Accusatore Pubblico, dai Giudici Civili al Cancelliere Criminale, ai membri del Tribunale di Cassazione.

La fine della Repubblica Cispadana - L'annessione alla Cisalpina era ormai imminente (la nuova Repubblica fu solennemente inaugurata il 9 luglio) quando i dirigenti in carica a Bologna proposero che fosse almeno, per il territorio cispadano, l'efficacia dell'articolo della Costituzione Cisalpina sulla religione. Questa richiesta fu però scavalcata da una petizione, che raccolse decine di migliaia di firme, con cui si chiedeva l'unione delle due repubbliche; essa peraltro andava incontro ad una indicazione del Direttorio che da Parigi aveva scritto in tal senso al Generale, per impaurire l'Austria.

Anche Bonaparte, in una fase in cui le trattative di pace con l'Austria andavano a rilento, «prese partito di creare la Repubblica Cisalpina fondendo Cispadana e Transpadana, così riunendo sotto lo stesso governo 3 o 4 milioni di abitanti, garantendo una forza capace di influire sugli eventi a venire».
L'unione infine era caldeggiata, oltre che dalla Amministrazione Centrale del Ferrarese, anche dai dirigenti della Legione Cispadana, che lamentavano le precarie condizioni in cui veniva lasciata la truppa ed assicuravano il Generale sugli «auspici universali di quei liberi territori per una vasta unione». Di fronte alle petizioni ed agli ordini del Direttorio, Napoleone non ritenne necessaria una seconda imposizione: «Ho ricevuto nuovi ordini dal Direttorio per riunire Bologna e Ferrara con la Cisalpina. Ho preso un "mezzo termine" di lasciare che quei Paesi facciano quello che vogliono [...] Se vogliono unirsi non possiamo impedirglielo. Milano, 18 luglio 1797» (Corréspondances de Napoléon Ier, Paris, Pion-Doumaine, 1859, 2° vol, fiche 2025)
Ma fu solo a seguito del proclama pubblicato il 26 luglio, a firma di Gian Galeazzo Serbelloni, con cui il Direttorio Cisalpino dichiarava di accettare l'offerta di unione «in una sola e medesima famiglia per il vantaggio comune ed il bene della libertà», che il Generale si mosse, inviando a Bologna il fido aiutante di campo Eugenio di Beauharnais, con i dispacci che disponevano di cessare ogni attività di governo: quando essi vennero consegnati ai dirigenti bolognesi ancora in carica, erano le 22:30 del 29 luglio 1797 e in quel momento la Repubblica Cispadana cessò di esistere.

 La Repubblica Cisalpina.

I giacobini reagirono con manifestazioni di giubilo poiché da sempre ostili alle resistenze frapposte dai governanti cispadani, e già da qualche giorno avevano annunciato:
«Siamo Cisalpini! La cabala dell'egoismo, dell'impostura, del fanatismo è sventata.
Alza infine, o Bologna, il franco. Se una catena di fatali circostanze ti ha tratta a porre confidenza negli agenti della mai estinta senatoria oligarchia, ora che i tuoi segreti voti sono stati esauditi, spiega arditi voli e lanciati coraggiosa nella carriera delle solide libertà.»

Con il termine giacobinismo si intende un movimento e un'ideologia politica variegata, ma unita dal repubblicanesimo, dalla sovranità popolare, dal dirigismo economico e dall'anticlericalismo, risalenti in origine all'esperienza del “Club dei Giacobini”, (Club des Jacobins), associazione politica fondata a Parigi, nel novembre 1789, con sede nel convento domenicano di San Giacomo (Saint-Jacobus), in rue Saint-Honoré. Il nome ufficiale del loro movimento, dall'8 febbraio 1790, fu “Società degli Amici della Costituzione”

I rivoluzionari più radicali, non solo giacobini, ritenevano la religione cristiana dominante, in particolare quella cattolica, superstiziosa e tirannica, sostenendo che ogni essere umano si sarebbe dovuto ispirare a ideali illuministi come la ragione, la libertà e la natura.

Durante la Rivoluzione francese, soprattutto nella sua fase più radicale (durante il regime del Terrore: fine 1792 - luglio 1794) guidata dal leader del Club Maximilien de Robespierre, membro del Comitato di Salute Pubblica e della Convenzione nazionale, la vita della Repubblica francese era dominata soprattutto da membri appartenenti al Club, che sopravvisse a stento alla caduta di Robespierre e fu soppresso dalle autorità il 12 novembre 1794.

I Giacobini, come i Cordiglieri con cui formavano i Montagnardi (ad un certo punto li egemonizzarono facendoli coincidere), si distinguevano dai Girondini soprattutto per l'opposizione al liberismo e al federalismo, sostenendo lo statalismo, la democrazia e il centralismo, oltre che la radicalizzazione della rivoluzione, senza raggiungere gli estremi dei movimenti non partitici come gli Enragés e della fazione degli hebertisti (che pur appoggiata fortemente dai Sanculotti, rimase un movimento più legato alla borghesia del Terzo stato), ma spazzando via anche violentemente ogni residuo dell'Antico Regime e tutto ciò che era considerato controrivoluzionario.

Nel momento di massimo potere, il Club era considerabile come il partito istituzionale più radicale della Rivoluzione, situato all'estrema sinistra della Convenzione nazionale, da cui è nata la distinzione fra destra e sinistra.

La Convenzione Nazionale, durante la Rivoluzione Francese, segnò la nascita della distinzione tra destra e sinistra politica, principalmente per la disposizione dei seggi all'interno dell'aula. I deputati che sedevano alla destra del presidente erano i Girondini, più moderati, mentre quelli alla sinistra erano i Montagnardi, più radicali. Al centro, senza una posizione politica ben definita, si trovava la Pianura (o Palude).

In sintesi, i Giacobini erano più orientati verso le riforme sociali e un forte potere centrale, mentre i Girondini erano più propensi al decentramento, al libero mercato e alla moderazione.

Ispirato alle teorie di Jean-Jacques Rousseau e di alcuni illuministi, ma nella prassi ideata e attuata dai rivoluzionari come Marat e Robespierre (ispirati anche dalla visione rousseauiana idealizzata delle virtù antiche come tramandate da Plutarco, dagli stoici e da Cicerone e prendendo inoltre a modello parziale l'antica Repubblica Romana), il giacobinismo si diffuse in buona parte dell'Europa durante l'epoca rivoluzionaria, dopo il 1794 in forma più moderata (come nel triennio giacobino italiano del 1796-99 con la nascita delle repubbliche sorelle realizzate da Napoleone), diventando quasi un sinonimo di repubblicanesimo, ed ebbe un'influenza politica notevole nella storia francese per tutto il XIX secolo, in particolare negli eventi della Rivoluzione di luglio del 1830 contro assolutista Carlo X, ultimo sovrano della dinastia dei Borbone-Francia, della Rivoluzione francese del 1848 che portò alla Seconda Repubblica e, soprattutto, nell'esperienza della Comune di Parigi, la forma di organizzazione autogestita di stampo socialista libertario di Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871, riconosciuta come la prima grande esperienza di autogoverno della storia contemporanea.

A livello europeo il giacobinismo stimolò i movimenti patriottici rivoluzionari (i giacobini si autodefinivano anche come "Patrioti") e di ispirazione democratica, come la primavera dei popoli del 1848.

Successivamente, filosofi e politici marxisti comunisti come Lenin e Antonio Gramsci sostennero un rapporto di filiazione del bolscevismo dal giacobinismo e tale tesi è stata poi fatta propria, sia pure con notazioni e valutazioni diverse, dalla storiografia, a partire da Albert Mathiez (che vi ha visto anche gli elementi fondativi ideologici della socialdemocrazia e del socialismo democratico) e Jacob Talmon.


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