Stampa originale della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino. |
Il 26 agosto 1789 è emanata in Francia la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo
e del Cittadino, (Déclaration des Droits de l'Homme et du
Citoyen) un testo giuridico elaborato nel corso della Rivoluzione
francese contenente una solenne elencazione di diritti fondamentali
dell'individuo e del cittadino. Emanato basandosi sulla Dichiarazione d'indipendenza americana dalla corona britannica, tale
documento ha ispirato numerose carte costituzionali e il suo
contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti della
libertà e dignità umana. Dopo il successo della Rivoluzione
francese, l'Assemblea Nazionale Costituente decise di assegnare ad
una speciale Commissione di cinque membri, eletta il 14 luglio 1789, il compito di stilare una "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino" da inserire nella futura costituzione, nell'ottica del
passaggio dalla monarchia assoluta dell'Ancien Régime ad una
monarchia costituzionale. Basato sul testo proposto dal marchese di
La Fayette, il progetto della Dichiarazione venne discusso in
Assemblea dal 20 al 26 agosto e, nella redazione definitiva, fu
accettato dal re Luigi XVI il 5 ottobre per essere inserito come
preambolo nella Carta costituzionale del 1791. L'impatto di questa
elencazione di principi fu innovatore e rivoluzionario allo stesso
tempo. Sei mesi dopo la presa della Bastiglia e sole tre settimane
dopo l'abolizione del feudalesimo, la Dichiarazione attuò uno
sconvolgimento radicale della società come mai era avvenuto nei
secoli precedenti. La "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del
Cittadino" d'altro canto non fu un episodio casuale e gran parte del suo contenuto è
confluito a sua volta nella "Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo" adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Mentre la rivoluzione americana, pur di evidente stampo massonico, aveva mantenuto la fede religiosa come valore, (sulla banconota da un dollaro è scritto "Abbiamo fede in Dio") in Francia vengono decapitati i poteri e i privilegi del clero insieme a quelli degli aristocratici e i valori concernenti lo stato sono puramente laici, liberi da dogmi e figli della visione illuminista.
Olympe de Gouges |
All'interno del fermento culturale della rivoluzione francese c'erano anche le "suffragette", un movimento di emancipazione femminile
nato per ottenere il diritto di voto per le donne (dalla parola
"suffragio" che significa "dichiarazione della propria
volontà in procedimenti elettivi o deliberativi attraverso il voto"). Il
movimento presenta all'Assemblea Rivoluzionaria, all'inizio della
rivoluzione francese, nel 1789, il "Cahier de Doléances des
femmes", una prima richiesta formale di riconoscimento dei
diritti delle donne. In quegli anni, Olympe de
Gouges pubblica "Le prince philosophe", romanzo che
rivendica i diritti delle donne e inizia ad organizzare gruppi
di donne. Nel settembre del 1791 pubblica "La Dichiarazione dei diritti della
Donna e della Cittadina" (Déclaration des droits de la femme et
de la citoyenne), un testo giuridico francese che esige la piena
assimilazione legale, politica e sociale delle donne, sul modello
della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.
Primo documento a invocare l'uguaglianza giuridica e legale delle
donne in rapporto agli uomini, la Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina è pubblicata allo scopo di essere
adottata dall'Assemblée nationale e
costituisce un'imitazione critica della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino, che elenca i diritti validi solo per gli
uomini mentre le donne non dispongono del diritto di voto,
dell'accesso alle istituzioni pubbliche, alle libertà professionali,
ai diritti di possedimento, ecc. L'autrice vi difende, non senza
ironia sulle considerazioni dei pregiudizi maschili, la causa delle
donne, scrivendo che « La donna nasce libera e ha uguali diritti
all'uomo ». Olympe de Gouges criticò la Rivoluzione francese di
aver dimenticato le donne nel suo progetto di libertà e di
uguaglianza.
La sua azione tuttavia fu interrotta
quando iniziò a criticare lo stesso Robespierre, e nel 1793 venne
ghigliottinata.
Bandiera della Repubblica Cispadana, con stemma di faretra a 4 frecce. |
Napoleone valica il San Bernardo di David, 1801. |
Nel 1.797, nell'ambito delle guerre del generale della Repubblica francese Napoleone Bonaparte ai vecchi regimi, le monarchie assolute che non prevedevano alcun potere al di la di quello della monarchia: nessun parlamento e governo parlamentare, per cui nessuna costituzione che garantisse la democrazia attraverso il voto, in Italia vengono fondate la
Repubblica Cisalpina, con capitale Milano e la Repubblica Cispadana
comprendente i territori di Massa e Carrara, Reggio Emilia, Modena,
Bologna, Ferrara e Romagna, con capitale Bologna. Nella Repubblica Cispadana si indicono
elezioni aperte a tutti i maschi maggiorenni per eleggere un
parlamento. Viene inoltre promulgata una Costituzione e viene
adottato il tricolore come bandiera della libera Repubblica.
L'Europa nel periodo napoleonico con Francia e le sue espansioni militari in verde scuro, i territori controllati in verde chiaro e gli alleati in blu. |
Il 1.800 si era aperto dunque con la consapevolezza del diritto alle pari opportunità per le persone (inizialmente solo per gli uomini) nella gestione della "cosa pubblica", in latino Res publica, garantite da una Costituzione. Grazie alla rivoluzione industriale, all'urbanizzazione, a migliori condizioni igieniche ad una migliore situazione sanitaria dovuta all'applicazione delle scoperte scientifiche, emergevano nuove classi sociali e si andavano formando aggregazioni di massa. La Francia propagava le sue idee rivoluzionario-repubblicane e cercava di distruggere militarmente le monarchie assolute e l'impianto politico europeo nato dall'accordo fra l'imperatore Carlo Magno e il papato nell'800. Napoleone, il più bravo dei generali della rivoluzione, era in buona fede nella sua opera di promulgazione delle idee liberali e anti-clericali (la sola divinità era rappresentata dalla Scienza) care agli
ambienti massonici (le logge massoniche erano penetrate anche nel
mondo musulmano già dalla fine del Settecento, sull’onda
dell’entusiasmo suscitato in Egitto dal proclama che il giovane
generale Bonaparte aveva pubblicato in Alessandria il 2 luglio del
1798). In ogni paese o città che conquistava, Napoleone piantava l'albero della Libertà, promulgava il sistema repubblicano, toglieva i poteri all'aristocrazia e chiudeva parecchie chiese. Il suo potere crebbe poi a dismisura, fino ad ottenere il trono, contraddicendo i valori democratici repubblicani, ma sarà imperatore non di Francia ma dei francesi.
Carta dell'Europa della Restaurazione. |
Con la sconfitta di Napoleone, si riafferma il
principio di legittimità dei sovrani assolutistici dell'ancien regime con la Restaurazione del 1814, quando invece il secolo si chiuderà con l'affermazione dei principi di nazionalità e
autodeterminazione dei popoli. Durante quel secolo, si passerà dalla prevalenza di regimi autoritari e conservatori ad ordinamenti
sempre più liberali e democratici, caratterizzati da un'impegno
sociale crescente e dalla comparsa di movimenti d'opinione e partiti politici, espressione della nascente società delle masse.
Colori e A di Anarchia. |
Pierre-Joseph Proudhon |
Il comunismo anarchico o collettivismo, sostiene l'importanza dell'equilibrio tra gli individui nel corpo sociale e vede come finalità umana l'associazionismo, da cui deriverà l'anarco-sindacalismo e quelle correnti disposte a calarsi in piccoli compromessi riformistici con la società. Proudhon può essere considerato il campione di questo pensiero, che presagiva l'autoritarismo del pensiero marxista.
L'individualismo costituisce uno degli aspetti più romantici dell'anarchismo, responsabile del conflitto con il pensiero marxista comunista, anti-individualista per eccellenza e affine ad una certa destra nietzchiana, affascinata dal mito dell'oltre-uomo (erroneamente tradotto come super-uomo). Stirner può essere considerato il campione di questa posizione, dove l'”Io” si oppone alla società.
Le differenze fra anarchismo e socialismo, comunismo o marxismo in generale, è che gli anarchici non accetteranno mai il concetto di dittatura del proletariato; soprattutto non riconoscono nel proletariato l'“avanguardia” della rivoluzione, trovando assurdo ed improbabile che una classe sociale, una volta raggiunto il potere, scelga di privarsene per favorire l'avvento del comunismo totale. Nel corso della Storia, anarchici e socialisti (e comunisti) rivoluzionari hanno condiviso la volontà di attuare la Rivoluzione, ma nient'altro... Anzi... Durante la guerra civile spagnola, iniziata nel 1936, gli anarchici instaurarono a Barcellona una repubblica che osservava due leggi: la prima legge sentenziava che nessuno era tenuto ad osservare alcuna legge e la seconda legge precisava che la prima legge era comunque facoltativa. Il proliferare di anarchici e i loro successi impensierirono molto Stalin, che ne fece fucilare più che poté, favorendo così i falangisti e i fascisti.
Carta con i moti rivoluzionari europei nel 1848. |
Carlo Alberto di Savoia |
/valore_moneta_1861_2008.pdf, possiamo considerare che 40 lire nel 1861 corrispondevano a 175,88 € nel 2008.
Camillo Benso conte di Cavour |
Nel
1849 sorge nel Regno
di Sardegna, con i governi di Massimo d'Azeglio e dal 1852 di Camillo
Benso conte di Cavour, la Destra storica,
che governerà il Regno d'Italia fino al 1876. I ministeri della
Destra storica, dal primo governo Cavour al governo di Marco
Minghetti del 1876, conseguirono importanti risultati, primo fra
tutti l'unità d'Italia
compiuta nel 1861 e portata a termine nel 1870 con la breccia di
Porta Pia e la presa di Roma. Caratterizzata da un deciso intento laico nella gestione dello Stato, libero da orpelli e orientamenti di ordine religioso e da un liberalismo moderato, nel 1882 la Destra
storica si
trasformerà nel Partito Liberale
Costituzionale (PLC) o anche Unione Liberale, mentre la matrice
ideologica del raggruppamento della Sinistra storica può definirsi
liberale progressista.
Vignetta con la piovra del clericalismo nelle istituzioni. |
I "clericali" francesi,
che erano tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone
III, influenzavano
pesantemente la sua politica estera e in particolar modo
difendevano strenuamente l'indipendenza della sede pontificia e dei
suo domini dall'Italia unita,
che il Regno di Sardegna cercava di costituire,
e che avrebbe voluto Roma capitale.
Napoleone III |
Garibaldi conduce i suoi alla difesa della Repubblica Romana. |
Aurelio Saffi |
Carlo Armellini |
Fin da 1850, Camillo Benso conte di
Cavour si mette in luce per la sua posizione anticlericale,
pronunciando un discorso in difesa delle leggi Siccardi,
che abolivano il diritto
d'asilo e il foro
ecclesiastico, ancora in
vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna.
Urbano Rattazzi |
Nel 1852, nel Regno di Sardegna si era
formato il "grande ministero", originato dal
“connubio” fra il presidente del Consiglio dei ministri
Cavour della Destra storica con Urbano Rattazzi della
Sinistra storica, che si proponevano di modernizzare il Piemonte
laicizzando lo Stato.
Dovettero scontrarsi,
nel 1855, con i clericali piemontesi, guidati dal vescovo di
Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana, contrario alla
soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi
politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato
al governo, Cavour dovette affrontare un nuovo contrasto con i
clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II,
a causa del suo tentativo di introdurre il matrimonio civile
in Piemonte, che sarà attuato diversi anni dopo.
Il 2 dicembre 1852, dopo un ennesimo
colpo di stato, la Seconda Repubblica francese è dichiarata
ufficialmente conclusa. Nasce così il Secondo Impero Francese:
il Principe-presidente Luigi Napoleone, assume il titolo di Napoleone
III (Napoleone II sarebbe stato il figlio prematuramente
scomparso di Napoleone) mentre la carta costituzionale repubblicana
del 1852 è lasciata in vigore; semplicemente alla parola
"Presidente" è sostituita da quella di "Imperatore
dei Francesi".
Vignetta sulla laicità. |
Il 27
gennaio 1861 per il 1º turno e il 3 febbraio per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno di Sardegna (che diventerà Regno d'Italia il 17
marzo) le elezioni politiche.
Di fatto, hanno diritto al voto pochissime persone, come previsto nella legge elettorale contenuta nello Statuto emanato da Carlo Alberto
nel 1848: gli uomini di età superiore a 25 anni, alfabetizzati e che
paghino una tassa di 40 lire che attesti il loro censo. Il sistema elettorale è uninominale a doppio turno, per cui risulteranno eletti
al primo turno i candidati che abbiano riportato più del 50% dei voti o voti pari ad almeno un terzo
degli aventi diritto al voto. Nel caso in cui ciò non si verificasse
si terrà un ballottaggio. Su una popolazione di 22.176.477 residenti censiti in quell'anno, (dato ISTAT) gli aventi diritto al voto sono 418.695 uomini, pari all'1,88% della
popolazione, di cui votano in 239.583, il 57,2% degli aventi diritto e i voti validi saranno circa 229.760, il 95,9%.
Le
prime elezioni politiche del Regno d'Italia
sono vinte dalla destra storica,
a cui seguirà un governo di Cavour. All'opposizione vanno 80
garibaldini e la sinistra storica.
Leader: Camillo
Benso conte di Cavour Urbano Rattazzi Giuseppe Mazzini
Partito: Destra storica Sinistra storica Estrema
sinistra
Voti: circa 110.400, il 46,1 % circa 48.900, il 20,4 % circa
5.500, il 2,3 %
Seggi: 342 su 443 62 su 443 14 su 443
Giuseppe Mazzini |
L'Italia nel 1861. |
« Lentamente s'instaura quel costume,
che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui
il cattolico politico ha associazioni
professionali..circoli..scuole cui inviare i figli, esclusivamente
suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con
persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » scrive di quegli anni Arturo Carlo Jemolo, in “Chiesa e Stato in Italia negli
ultimi cento anni”. Mentre restano fuori dal processo di
unificazione italiana il Veneto e il Friuli, unite al Regno solo nel
1866, lo Stato Pontificio e alcuni territori irridenti, il Parlamento
si divide fra la corrente vicina a quella che era stata la
politica e l’ottica di Cavour, e quindi
moderata e una componente democratica che ha come
modello di riferimento le idee garibaldine e la cultura
mazziniana. Queste due realtà, identificate come Destra e
Sinistra storica, pur essendo fieramente anti-clericali,
erano tuttavia molto lontane dall’essere chiaramente delineate e
aggregavano consensi ed esponenti molto eterogenei tra di
loro.
Nel 1862 la Questione romana è
fonte di tensione costante anche per la politica interna italiana.
Giuseppe Garibaldi tenta una spedizione armata verso Roma. Nelle sue
intenzioni doveva essere una ripresa della spedizione dei Mille.
Partì con i suoi uomini dalla Sicilia, ma venne fermato
dall'esercito italiano il 29 agosto sull'Aspromonte: ferito, venne
fatto prigioniero e messo agli arresti domiciliari nell'isola di
Caprera. L'Italia non vorrà così mettere alla prova l'amicizia col potente
vicino francese.
Negli anni successivi il governo
italiano si mosse per vie diplomatiche: inizialmente propose alla
Francia il ritiro del contingente di stanza nell'Urbe ma la Francia
oppose un diniego. Si arrivò così alla Convenzione del 15
settembre 1864. Il Regno d'Italia si impegnò a rispettare
l'indipendenza dello Stato Pontificio e a difenderla, anche con
la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno);
la Francia acconsentì a ritirare le proprie truppe entro due anni,
in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di
organizzarsi in un'efficiente forza di combattimento.
L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva comunque assai
popolare, né il Regno rinunciò al proposito di fare della città la
sua nuova capitale, come sancito nel 1861, da Cavour in persona e
diverse furono le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa
Città eterna.
Papa Pio IX |
Il 22 ottobre (per il 1º turno) e il
29 ottobre (per i ballottaggi) 1865, si svolgono nel Regno
d'Italia le seconde elezioni politiche, quando la
capitale è stata da poco spostata da Torino a Firenze. Su una
popolazione stimata in 24.000.000 di abitanti (nel censimento del
1961, 22.176.477 abitanti e nel 1871, 27.299.883 abitanti, dati
ISTAT), hanno diritto di voto 504.265 uomini, il 2,10%
della popolazione residente e votano 276.523 persone, il 54,8%
degli aventi diritto. La destra storica rivince
confermando i governi di Alfonso La Marmora.
Partiti voti %
Destra storica 34,5
Sinistra storica 27,8
Estrema sinistra 2,6
Eletti non definibili 1,2
Altri candidati (?) 33,9
Nel 1866 la Chiesa sente la
difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno
d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione che
consente l'elezione di deputati cattolici purché nel
formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla
presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus
divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi
divine e della Chiesa"). La Camera ritiene nullo il
giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici sarà quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della
Chiesa influirà negativamente sulla politica italiana
post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei
politici italiani del tempo.
Il 10 marzo (per il 1º turno) e il 17
marzo (per i ballottaggi) 1867, si svolgono le terze elezioni
politiche nel Regno d'Italia. Su una popolazione stimata
in 25.000.000 di residenti, (22.176.477
abitanti censiti nel 1861 e 27.299.883 nel 1871, da dati ISTAT) hanno diritto
al voto 504.265 uomini, il
2,017% della popolazione, di cui votano in 276.523, il 54,8%
degli aventi diritto. Per effetto dei ballottaggi, pur avendo ottenuto meno voti, la
sinistra ottiene più seggi parlamentari della destra e, grazie anche al tradizionale "connubio" fra destra e sinistra il governo
sarà affidato, per la seconda volta, a Urbano
Rattazzi, della sinistra storica, a cui succederà poi Luigi Federico Menabrea, della destra storica.
Partiti % voti seggi
Destra storica 35,7 151
Sinistra storica 30,1 225
Estrema sinistra 2,7 -
Eletti non definibili 0,7 43
altri candidati 30,8 74
Totale 100, su 493 seggi al parlamento.
Il 3 novembre 1867 si combatte la
battaglia di Mentana, nel Lazio, uno scontro a fuoco che si
svolse quando le truppe pontificie, coadiuvate da un
battaglione francese, si scontrarono con i volontari di
Giuseppe Garibaldi, diretti a Tivoli per sciogliere la Legione,
essendo fallita la presa di Roma per la mancata insurrezione dei
romani.
L'invasione francese della Repubblica
Romana con la restaurazione di papa Pio IX del 1849, il fallito
tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (nel periodo
1862-67) e l'episodio di Mentana, sempre a difesa di papa Pio IX (nel
1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione
politica al Clero e ai
clericali del regime di Luigi Napoleone III.
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I bersaglieri italiani prendono Roma. |
Il 20 novembre 1870 per il 1º turno e
il 27 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia
le quarte elezioni politiche,
poco dopo la Breccia di Porta Pia e la presa di Roma e per
questo motivo molti cattolici obbediranno al “non expedit” del papa e non voteranno.
Come
previsto dalla legge elettorale emanata da Carlo Alberto
nel 1848, hanno diritto al voto pochissime persone e saranno esclusi
dal voto: nelle campagne tutti i giornalieri e quasi tutti i piccoli
proprietari, mezzadri e fittavoli e nelle città tutti gli operai,
quasi tutti gli artigiani e lo strato inferiore delle classi
intellettuali. Su una popolazione stimata in 27 milioni di
residenti, (27.299.883 censiti nel 1871, dato ISTAT) in
530.018 hanno diritto al voto, pari all'1,96% della popolazione.
I votanti sono 240.974, il 45,4% degli aventi diritto.
Partiti % voti
Destra storica 37,2
Sinistra storica 28,8
Estrema sinistra 1,9
Eletti non definibili 0,2
altri candidati 31,9
Totale 100, su 508 seggi al parlamento, ha la
maggioranza la destra storica per cui prosegue il governo di
Giovanni Lanza.
Decreto del 29 marzo 1871 della Comune di Parigi. |
Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano
emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la
Legge delle Guarentigie (ovvero Legge delle Garanzie) voluta
dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo
la presa di Roma del 20 settembre 1870. Respinta da papa Pio
IX con l'enciclica “Ubi nos” e mai accettata dalla Santa Sede,
rimase tuttavia in vigore per l'Italia sino alla Conciliazione del
1929.
Carlo Cattaneo |
Il congresso delibera che i punti
fondanti del programma dell'Estrema Sinistra sono:
- superamento del centralismo a favore
di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
- promozione dell'ideale federale degli
“Stati Uniti d'Europa” mutuato da Carlo Cattaneo;
- opposizione al nazionalismo,
all'imperialismo e al colonialismo.
- indipendenza della magistratura dal
potere politico;
- abolizione della pena di morte;
- tassazione progressiva;
- istruzione gratuita e obbligatoria;
- emancipazione sociale e nel lavoro
della donna;
- suffragio universale per uomini e
donne;
- un piano di lavori pubblici per la
riduzione della disoccupazione;
- sussidi, indennità, pensioni e
garanzie sociali per i lavoratori;
- riduzione dell'orario di lavoro;
- riduzione del servizio di leva.
Nel
1874 la Santa Sede pubblica la bolla del “Non éxpedit”
(in italiano: non conviene), con la quale il pontefice Pio
IX dichiara inaccettabile per
i cattolici italiani
partecipare alle elezioni politiche
del Regno d'Italia e all'intera vita politica italiana,
mentre si costituisce l'Opera dei congressi,
che può essere considerata come la nascita
di un vero e proprio partito cattolico italiano
“clericale”.
L'organizzazione rivendica la rappresentanza del "paese reale"
contro lo Stato liberale e si assume il compito di coordinare tutte
le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico,
scolastico e giornalistico.
Marco Minghetti |
Partiti % voti
Destra storica 33,3
Sinistra storica 32,5
Estrema sinistra 1,6
Eletti non
definibili 0,1
altri candidati 32,5
Totale 100, su 508 seggi al
parlamento, la destra storica ha una risicata maggioranza
e prosegue il secondo governo di Marco Minghetti.
Il collegio elettorale è
una suddivisione territoriale che comprende un certo numero di
elettori facenti parte del corpo elettorale e permette l'elezione di
un solo candidato al Parlamento per ciascun collegio
elettorale, quello che ha ottenuto più voti nel caso che sia
uninominale, nel
collegio plurinominale possono essere eletti più
rappresentanti al Parlamento. Il collegio uninominale è generalmente
adottato nei sistemi di voto maggioritari, quello plurinominale nei
sistemi proporzionali.
Nel caso di collegi uninominali, come è stato per la gran parte delle elezioni politiche del Regno d'Italia, l'appartenenza ad uno o l'altro schieramento politico degli eletti, non è sempre stato trasparente.
Può essere quindi utile consultare: http://legislature.camera.it/_dati/costituente/documenti/ministerocostituente
/p1_Vol2_5.pdf che nella premessa precisa: "Sino alle elezioni del 1919 le nostre statistiche ufficiali elettorali si sono costantemente astenute dal presentare dati numerici sul colore politico dei candidati e degli eletti. Una siffatta classificazione, (si dichiarava nelle varie relazioni) , si può fare soltanto nei Paesi dove le organizzazioni sono ben distinte e salde, mentre invece per l’Italia, in regime di Collegio uninominale, mancano documenti autentici per classificare i candidati, o almeno gli eletti, secondo il colore politico. Però sin dal 1880 studiosi di grande autorità e competenza non approvavano questo silenzio assoluto delle nostre statistiche ufficiali. L’importante compito, abbandonato dalla statistica ufficiale, veniva preso in considerazione da alcuni privati studiosi i quali cercavano di colmare questa lacuna con apposite monografìe, succedutesi quasi ininterrottamente dal 1874 al 1913."
/p1_Vol2_5.pdf che nella premessa precisa: "Sino alle elezioni del 1919 le nostre statistiche ufficiali elettorali si sono costantemente astenute dal presentare dati numerici sul colore politico dei candidati e degli eletti. Una siffatta classificazione, (si dichiarava nelle varie relazioni) , si può fare soltanto nei Paesi dove le organizzazioni sono ben distinte e salde, mentre invece per l’Italia, in regime di Collegio uninominale, mancano documenti autentici per classificare i candidati, o almeno gli eletti, secondo il colore politico. Però sin dal 1880 studiosi di grande autorità e competenza non approvavano questo silenzio assoluto delle nostre statistiche ufficiali. L’importante compito, abbandonato dalla statistica ufficiale, veniva preso in considerazione da alcuni privati studiosi i quali cercavano di colmare questa lacuna con apposite monografìe, succedutesi quasi ininterrottamente dal 1874 al 1913."
Il 5 novembre 1876
per il 1º turno e il 12 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel
Regno d'Italia le seste elezioni politiche. Su una
popolazione stimata in 28.000.000 residenti (27.299.883 censiti nel 1871 e 28.951.546 nel 1881, dati ISTAT), gli aventi diritto al
voto sono 604.931, pari al 2,16% della popolazione, di
cui votano 358.258 uomini, il 61% degli aventi diritto, con il 97,8%
di voti validi.
Partiti % voti
Ministeriali (Sinistra storica) 56,0
Opposizione (Destra storica) 12,4
Estrema sinistra 1,5
Totale 100, su 508 seggi al parlamento. Le elezioni del
1876 portano alla vittoria la sinistra storica e con
il governo di Agostino Depretis giunge la fine della fase dei governi della destra storica, che durava dal 1861,
intervallata solo da due brevi governi di Urbano Rattazzi. Depretis
formerà un governo che, oltre all'appoggio della Sinistra, si
reggerà anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che
aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Il governo Depretis sposta la
sinistra storica verso l'ala conservatrice del parlamento,
incontrando i moderati più progressisti, che erano stati inglobati
all'interno di una più grande coalizione. Lentamente sono estromessi
gli esponenti più progressisti della Sinistra, dando vita ad un
Grande Centro, che monopolizza la vita politica del Paese,
lasciando a pochi partiti minori il ruolo di opposizione di estrema
sinistra. Questa politica, in cui la dialettica e la differenza
ideologica fra le ali del Parlamento vengono sfumando, è detta
“trasformismo”,
e sarà resa possibile dalla riforma elettorale del 1882. Il nuovo governo
adotterà provvedimenti anticlericali, condivisi sia
dalla Destra che dalla Sinistra, come l'insegnamento
religioso facoltativo nelle scuole elementari, l'esclusione del clero
dalle commissioni scolastiche e il controllo diretto dello Stato
sulle opere pie.
Simbolo del partito radicale italiano. |
Nel
1878, dopo la morte di papa Pio IX
gli succede papa Leone XIII (1878-1903) che mostra fin dall'inizio
del suo pontificato, attenzione ai problemi sociali, al mondo del
lavoro e dei suoi conflitti (vedi “Rerum Novarum”), per cui
sembra potersi
delineare un'attenuazione dello scontro
tra Chiesa e Stato.
Il 16
maggio 1880 per il 1º turno e il 23 maggio per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno d'Italia
le settime elezioni politiche,
in cui hanno diritto al voto
622.743 uomini su 28.951.546 residenti censiti in quell'anno (dato
ISTAT), il 2,15% della popolazione,
di cui votano in 358.250, il 62,6 degli aventi diritto e i voti
validi saranno il 97,2%.
Partiti % voti
Ministeriali (Sinistra storica) 46,7
Opposizione (Destra storica) 20,7
Estrema sinistra 1,7
Altri candidati 30,8
Totale 100, su
508 seggi al parlamento, si conferma la maggioranza della
sinistra e prosegue il terzo
governo di Benedetto Cairoli.
Il 10 marzo 1882 il governo italiano acquisisce ufficialmente il possedimento etiopico di Assab (nella futura Eritrea, acquistato nel 1.869 per il governo italiano dalla compagnia genovese Rubattino) che il 5 luglio dello stesso anno diventa ufficialmente italiano. Con i governi di sinistra di Agostino Depretis e in seguito di Francesco Crispi, la politica italiana si rivela decisamente colonialistico-aggressiva e si organizzeranno almeno tre tentativi ufficiali del governo per l'acquisizione di porti nel mar Rosso, che possano fungere da base verso un futuro impero coloniale in Asia o in Africa.
Nel
1882, il quarto governo Depretis, della sinistra storica
salita al potere nel 1876, con una riforma elettorale
estende il diritto di voto ai cittadini che abbiano
compiuto 21 anni e che abbiano
superato con buon esito i primi due anni della scuola
elementare, in breve che siano
alfabetizzati. Inoltre si adotta il sistema dei collegi
plurinominali, scelta che si
riproporrà anche nelle elezioni del 1886 e del 1890, abbandonando
temporaneamente il sistema dei collegi uninominali.
Nel
1882 la Destra
storica si trasforma
nel Partito Liberale
Costituzionale (PLC) o anche Unione Liberale.
Il 29
ottobre 1882 per il 1º turno e il 5 novembre per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno d'Italia le ottave elezioni politiche per cui il
governo Depretis, della sinistra storica,
aveva elaborato una nuova legge elettorale:
l'età di accesso al
voto è abbassata da
25 a 21 anni ed il requisito di censo
cala da 40 a 19,8
lire di tasse da pagare. Inoltre, coloro che hanno superato l'esame
di terza elementare (e quindi sono alfabetizzati)
non sono soggetti
al requisito di
censo. Il risultato è
l'allargamento del suffragio da
circa 620.000 di uomini a oltre 2 milioni di aventi diritto al voto.
Inoltre è cambiato il meccanismo di elezione, i collegi uninominali
sono sostituiti da collegi plurinominali, ai quali è attribuito un
numero di seggi variabile tra 2 e 5. L'elettore ha diritto a tanti
voti quanti sono i seggi, con l'eccezione dei collegi da 5 seggi, nei
quali l'elettore dispone solo di quattro voti. I candidati risultano
eletti al primo turno se riportavano la maggioranza assoluta dei
voti, con un numero di voti almeno pari ad un ottavo degli aventi
diritto. In caso contrario, è necessario un ballottaggio al quale
accede un numero di candidati pari al doppio dei seggi da attribuire.
Su una popolazione stimata in 29.200.000 residenti (28.951.546
residenti censiti nel 1881, dato ISTAT), hanno diritto di
voto 2.017.829 uomini, pari al
6,91% della popolazione,
di cui votano in 1.223.851, il 60,7%.
Partiti % voti seggi
Ministeriali (Sinistra storica) 39,8 331
Opposizione (ex Destra storica) 19,0 144
Estrema sinistra 4,6 33
Altri candidati 36,6 -
Totale 100, su 508 seggi si
conferma la maggioranza della sinistra
e proseguono i governi di Depretis. Il notevole aumento
degli aventi diritto al voto
non muta lo scenario parlamentare.
Quando nel 1.884 il Khedivato si ritira dal Corno d'Africa, i diplomatici italiani stipulano un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua, che assieme ad Assab formeranno i cosiddetti “Possedimenti italiani nel Mar Rosso”, la futura Eritrea. Massaua diventa la capitale provvisoria del possedimento d'oltremare e il controllo italiano si estende nell'entroterra. L'occupazione italiana di Massaua segna l'inizio di una lunga e dispendiosa guerra contro l'Etiopia, in cui la finale annessione dell'Eritrea e della Somalia non potranno compensare le enormi spese militari che ritarderanno inevitabilmente il decollo industriale italiano: quel cattivo utilizzo dei capitali avrà inevitabili ripercussioni in tutto il paese.
Quando nel 1.884 il Khedivato si ritira dal Corno d'Africa, i diplomatici italiani stipulano un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua, che assieme ad Assab formeranno i cosiddetti “Possedimenti italiani nel Mar Rosso”, la futura Eritrea. Massaua diventa la capitale provvisoria del possedimento d'oltremare e il controllo italiano si estende nell'entroterra. L'occupazione italiana di Massaua segna l'inizio di una lunga e dispendiosa guerra contro l'Etiopia, in cui la finale annessione dell'Eritrea e della Somalia non potranno compensare le enormi spese militari che ritarderanno inevitabilmente il decollo industriale italiano: quel cattivo utilizzo dei capitali avrà inevitabili ripercussioni in tutto il paese.
Nel
1885, in un'Enciclica il papa
raccomanda ai
cattolici europei di
partecipare alla vita politica
dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro
governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica
attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat)
per ragioni grandissime e giustissime»... Cioè quello che era
consentito ai paesi cattolici europei, non
lo era però per l'Italia.
Per i governi di Crispi, il porto della città di Massaua, diventerà il punto di partenza per un progetto che avrebbe dovuto sfociare, con la spedizione italiana del Mar Rosso del 1885, nel controllo dell'intero Corno d'Africa, con inclusa la Somalia, zona abitata da popolazioni etiopiche, dancale, somale e oromo, autonome o sottoposte formalmente a diversi dominatori: vari sultanati (Harar, Obbia e Zanzibar i più importanti), emiri e capi tribali.
Carta dell'Eritrea, colonia italiana. |
Nel 1886, una circolare del
Sant'Uffizio recita così: «A togliere ogni equivoco, udito il
parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali
miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il “Non expedit”
contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.»
Il 23 maggio 1886 per il 1º turno e il
30 maggio per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le
none elezioni politiche.
Grazie alla riforma elettorale del 1882, gli aventi diritto al voto
sono 2.420.317 su una popolazione stimata in 30 milioni di residenti
(28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), l'
8,067% della
popolazione, di cui votano
1.415.801 uomini, il 58,5%.
Partiti % voti seggi
Ministeriali (Sinistra storica) 57.5 292
Opposizione (ex Destra storica) 27.9 142
Estrema sinistra 8.8 45
Dissidenti di
sinistra 26
Si
conferma la maggioranza della sinistra
e prosegue il settimo governo Depretis.
Francesco Crispi |
Dopo Depretis, la figura cardine della
politica italiana dal 1887 al 1896 è Francesco Crispi, della sinistra storica. Il modello
della sua politica sarà la Germania di Bismarck, dove le tensioni
sociali fra la classe operaia e la borghesia sembrano equilibrate. Sotto il suo governo la politica
coloniale sarà ripresa con più vigore, reprimerà nel sangue la rivolta dei fasci operai in Sicilia e
scioglierà il Partito Socialista, fondato da Turati a Genova nel
1892. Tuttavia emana una serie di riforme sociali quali la riduzione
della giornata lavorativa e la prima legge sull'assistenza sociale,
passata alla storia proprio come "legge Crispi".
Il 2 maggio 1889 Menelik II, incoronato nuovo imperatore d'Etiopia, firma con il regno d'Italia un equivocato trattato di pace. A seguito della sconfitta e della morte del Negus Neghesti (Re dei Re), Giovanni IV, in una guerra contro i dervisci sudanesi, l'esercito italiano di stanza a Massaua occupa una parte dell'altopiano etiopico, compresa la città di Asmara, sulla base di precedenti accordi intrapresi con Menelik, quando era ancora Negus del sud etiopico il quale, con la morte del rivale, era riuscito a farsi riconoscere come il nuovo Negus Neghesti. Con il trattato che ne segue, Menelik accetta la presenza degli italiani sull'altopiano e riconosce di utilizzare l'Italia come canale di comunicazione preferenziale con i paesi europei. Quest'ultimo riconoscimento viene interpretato dagli italiani (e tradotto dalla lingua amarica di conseguenza) come l'accettazione di un protettorato italiano, ma per i cinque anni seguenti, quella interpretazione del trattato di pace sarà fonte di discordie fra i due paesi. Intanto nell'area meridionale somala l'Italia ottiene dei protettorati tramite un accordo da parte del console italiano di Aden (nella penisola arabica) con i rispettivi governanti dei sultanati, che rappresenteranno i germi di quella che sarà la Somalia Italiana (dal 1.889 al 1.908 un protettorato e dal 1.908 una colonia italiana).
Nel
1890, nel Regno d'Italia,
il dislivello di analfabetismo tra Nord e Sud
produce diverse percentuali di aventi diritto al voto, pari al 10,4% della popolazione nell’Italia settentrionale, l’8,2 nell’Italia centrale, il 7,7 nell’Italia meridionale e il 7,6 nelle isole. Rimangono escluse dal voto, nel nord e nel centro
Italia, vaste zone della popolazione artigiana, operaia e rurale,
ancora analfabete, e nell’Italia meridionale la quasi totalità
dell’artigianato, dei piccoli coltivatori e del proletariato
rurale. Cresce l’influenza politica delle città,
meglio provviste di scuole elementari in confronto alle
campagne. Cresce così il peso del Nord alfabetizzato rispetto al Sud prevalentemente analfabeta.
Il 23
novembre 1890 per il 1º turno e il 30 novembre per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno d'Italia
le decime elezioni politiche in cui, su una popolazione stimata in 31 milioni di residenti
(28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT),
hanno diritto al voto
2.934.000 uomini, il 9,46% della popolazione,
di cui voteranno in 1.639.000, il 55,8% degli aventi diritto.
Partiti % voti
Ministeriali (Sinistra storica) 58,1
Opposizione (ex Destra storica) 6,9
Estrema sinistra 6,9
altri candidati 28,1
Totale 100
Si
riconferma il successo della sinistra
e prosegue il governo di Francesco Crispi.
Nel febbraio 1891 si verifica la prima
vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza su una
proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una
breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale
il paese è affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di
Rudinì, il 15 maggio 1892 è nominato Primo Ministro Giovanni
Giolitti, allora facente parte del gruppo crispino.
Come neo-presidente del Consiglio,
Giolitti si trova a dover affrontare prima di tutto l'ondata
di diffuso malcontento che la politica crispina aveva provocato con
l'aumento dei prezzi.
Partito Socialista Italiano |
Il 6
novembre 1892 per il 1º turno e il 13 novembre per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno d'Italia
le undicesime elezioni politiche
in cui, su una popolazione stimata in 31 milioni di residenti
(28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT),
hanno diritto al voto 2.934.000 uomini, come per 1890, quindi, il
9,46% della popolazione,
di cui voteranno in 1.639.000, il 55,8% degli aventi diritto. Con le
elezioni del 1892 si abbandona il sistema dei collegi plurinominali
adottato nelle elezioni del 1882, 1886 e 1890 e si torna al
sistema precedentemente in
vigore dei collegi uninominali.
Partiti %voti
Ministeriali (Sinistra storica) 51,2
Opposizione (ex Destra storica) 11,5
Estrema sinistra 6,9
Altri candidati 30,3
Totale 100
Nonostante
la flessione, la sinistra storica conserva la maggioranza
parlamentare e prosegue il primo governo di Giovanni Giolitti, appartenente al gruppo di Crispi nella sinistra storica.
Emile Zola pubblica la sua accusa. |
Dal 1894 il termine “clericale”
si diffonde in Spagna ed in Italia, meno in Germania e
per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree
cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società
civile. All'interno del partito clericale italiano nasce una
corrente che riflette l'azione sociale della Chiesa, specie nelle
campagne, dove si organizzano società cattoliche di mutuo soccorso,
cooperative di consumo contadine e sindacati bianchi.
E' la nuova
corrente della Democrazia Cristiana,
che chiede che la sua azione sociale trovi legittima rappresentanza e
valido riconoscimento nel parlamento italiano, poiché senza
politici che la tutelino, l'organizzazione sociale cattolica
non potrebbe sperare di sostenersi.
Don Romolo Murri |
Per questi obiettivi si batterono
don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo,
subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia
romana. Se prima non si fosse risolto il problema del rapporto
Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si sarebbe potuta
affrontare la questione sociale e politica.
Il 21 aprile 1895, a Bologna, viene
fondato, tra gli altri, da
Giuseppe Gaudenzi, il Partito Repubblicano Italiano
(PRI), che ha mantenuto immutati nome, simbolo (una foglia di edera)
e basi ideologiche, facilmente riconducibili, come riportato nello
Statuto del partito, al repubblicanesimo di Giuseppe Mazzini, Aurelio
Saffi e Carlo Cattaneo ai quali si aggiungeranno poi Ugo La Malfa e
Giovanni Spadolini. Inizialmente ancorato a posizioni
di sinistra non marxista, fortemente anti-monarchico e
anticlericale, nel corso degli anni ha assunto tratti laici e
liberal democratici.
Partito Repubblicano Italiano, immagine di Marcus Schmoeger. |
Il 26 maggio 1895 per il 1º turno e il
2 giugno per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le
dodicesime elezioni politiche che, per effetto della riduzione
del numero degli elettori disposto dalla riforma elettorale del
1894 (con il governo Crispi), per paura dell'avanzata del
socialismo, vede in 2.120.000 gli aventi diritto al voto, su una
popolazione di residenti stimata in 32 milioni (28.951.546
censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT), per cui ha
diritto al voto solo
il 6,62% della popolazione,
di cui i votanti sono 1.251.000 uomini, il 59,0% degli aventi
diritto.
Andrea Costa |
Partiti % voti seggi
Ministeriali (Sinistra storica) 65,75 334
Opposizione costituzionale (ex Destra storica) 20,47 104
Partito Radicale 9,25 47
Partito Socialista Italiano 6,8 15
Altri 1,58 8
Totale 100 su 508 seggi. Queste elezioni, il cui esito
permetterà di far proseguire il quarto governo di Francesco
Crispi, della sinistra storica, nonostante il restringimento
degli aventi diritto al voto, faranno entrare per la prima volta in
Parlamento degli esponenti del
Partito Socialista Italiano.
Nel 1895, l'Italia scatena la prima guerra italo-abissina contro l'Etiopia, attaccandola dai suoi territori in Eritrea e Somalia. Le differenti interpretazioni del trattato di pace stipulato nel 1.889, posero le basi per lo scoppio di un conflitto e la successiva avanzata italiana in Abissinia (o Etiopia), ma la pronta reazione delle truppe abissine costrinse inizialmente l'Italia alla resa. Dopo questa prima sconfitta, l'Italia subisce, il 1º marzo 1896, la definitiva e pesante disfatta di Adua, nella regione del Tigrai (o Tigré) dove i 15.000 soldati del generale Oreste Baratieri sono travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik II.
La battaglia di Adua in un celebre dipinto etiope. |
Il 26 ottobre 1896 si conclude la pace di Addis Abeba, con la quale l'Italia rinuncia alle sue mire espansionistiche in Abissinia. La disfatta provoca forti reazioni in tutta Italia, dove c'è chi propone un immediato rilancio del progetto coloniale e chi, come una parte del partito socialista, propone di abbandonare immediatamente le imprese colonialiste.
La disfatta di Adua segna la fine della Sinistra storica, con le
dimissioni di Crispi da presidente del consiglio, anche se si
continuerà a parlare di questo schieramento politico successivamente.
Il 21 marzo 1897 per il 1º turno e il
28 marzo per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le
tredicesime elezioni politiche
in cui, su una popolazione stimata in 32 milioni di residenti
(28.951.546 censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT),
hanno diritto di voto
2.458.388 uomini, il 7,68% della popolazione,
di cui votano in 1.241.486, il 50,5% degli aventi diritto.
Partiti % voti seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica) 64,37 327
Opposizione
costituzionale (ex Destra storica) 19,49 99
Partito Radicale 8,27 42
Partito
Repubblicano Italiano 4,92 25
Partito Socialista
Italiano 3,00 15
Totale 100 su 508 seggi parlamentari. Il
governo sarà guidato
da Antonio Di Rudinì, della destra storica,
mentre dal 24 maggio 1899 al 24 giugno 1900, sarà il governo
militare di Luigi Pelloux a
reggere il potere esecutivo, giustificato dalle rivolte scoppiate tra
il 1898 e il 1899, a causa della fame e della disoccupazione.
Nella crisi di fine secolo si
manifestano le conseguenze sul piano sociale della politica
protezionistica, come dimostrano i fatti di piazza del Duomo a Milano
del maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris non esita a sparare
con i cannoni ad alzo zero sulla folla che chiedeva "Pane e
lavoro" durante la protesta dello stomaco. Si era infatti
verificato un ulteriore aumento del prezzo del grano a causa delle
diminuite esportazioni dagli Stati Uniti, impegnati allora nella
guerra per Cuba. Sarebbe bastato togliere la tariffa protettiva, ma
ormai la classe dirigente italiana era terrorizzata dal socialismo
e preferiva ricorrere all'intervento repressivo del Regio
Esercito.
Antonio Di Rudinì |
Gaetano Bresci
intendeva vendicare l'eccidio e fare giustizia., e
perciò decise di ritornare in Italia dagli USA con l'obiettivo
di uccidere re Umberto, ritenendolo responsabile massimo
di quei tragici avvenimenti.
Luigi Pelloux |
Il 3
giugno 1900 per il 1º turno e il 10 giugno per i ballottaggi, si
svolgono nel Regno d'Italia
le quattordicesime elezioni politiche
che, su una popolazione stimata in 32.750.000 residenti (28.951.546
censiti nel 1881 e 32.963.316 nel 1901, dati ISTAT) assegna il
diritto di voto a
2.568.388 uomini, il 7,84% della popolazione,
di cui i votanti sono 1.497.970, il 58,3%.
Partiti % voti seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica) 58,27 296
Opposizione
costituzionale (ex Destra storica) 22,83 116
Partito Radicale 6,69 34
Partito Socialista
Italiano 6,50 33
Partito
Repubblicano Italiano 5,71 29
Totale 100 su 508 seggi parlamentari. Con
il governo di Giuseppe Saracco, torna al potere la sinistra
storica.
Il il
29 luglio 1900 si compie l'assassinio di re Umberto I per
mano dell'anarchico Gaetano Bresci e
salirà così al trono del Regno d'Italia Vittorio Emanuele III,
evento a cui i governi della sinistra faranno coincidere un periodo
di rapido miglioramento sociale, destinando le risorse alla
crescita nazionale e non
alle iniziative militari coloniali.
Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di
Giolitti alla Camera, emblematico della sua ideologia, contribuisce
alla caduta del governo Saracco,
responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro
di Genova, ed è in questo primo confronto con le parti sociali che si evidenzia la ventata di novità che Giolitti porta nel panorama politico dei cosiddetti "anni roventi": non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e quindi degli scioperi, purché non violenti né politici (possibilità, fra l'altro, secondo lui ancora piuttosto remota in quanto le agitazioni nascevano tutte da disagi di tipo economico). Come da lui stesso sottolineato nel suo discorso in Parlamento in merito allo scioglimento, in seguito ad uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, sono da temere massimamente le proteste violente e disorganiche, effetto di naturale degenerazione di pacifiche manifestazioni poiché represse con la forza: «Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza».
Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ha una notevole influenza che va oltre quella della sua carica di ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del Consiglio.
Gaetano Salvemini |
Gli scioperi che si susseguirono negli
anni 1901 e 1902 sia nel settore agricolo che in quello industriale,
sia nel più sviluppato Nord che nel Sud del paese, dimostravano che
tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano
ad incidere sulla precaria situazione della società italiana,
soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e presa in
considerazione solo come un serbatoio di voti da ottenere con la
corruzione dei deputati meridionali, gli "àscari" del
governo, con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra.
Gli intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini, non si
stancavano di accusare Giolitti, definito il "ministro della
malavita".
Erano
ancora valide, nel mondo cattolico, le dichiarazioni di papa
Pio IX (papa dal 1846 al 1878) sulla "non convenienza"
(non expedit) della partecipazione dei fedeli all'attività
politica del Regno d'Italia,
anche se l'ambiente delle associazioni cattoliche laicali,
come la Democrazia Cristiana, era in costante movimento. All'interno
dell'Opera dei Congressi, la principale associazione cattolica
italiana, divenne egemone il gruppo di don Romolo Murri,
che sosteneva la necessità di preferire l'accordo tattico con i
socialisti piuttosto che appoggiare i liberali.
Per i democristiani, il muro del “non expedit” sembrava potesse
incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di
costumi semplici e popolari. Nel 1903 compare invece
sull'”Osservatore Romano” una nota ufficiale così
redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe
di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri
giornali riguardo all'abolizione del “Non expedit”,
essendo esse assolutamente prive di fondamento.»
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritorna al
governo deciso ad una svolta radicale: si oppone, come aveva già
fatto, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fa dalle file
della Sinistra e non più dal gruppo crispino della sinistra storica
come in precedenza. L'età giolittiana sarà caratterizzata da
una notevole crescita economica e sociale, e si svolgerà nell'ultima
parte di quel periodo chiamato, a livello internazionale, Belle
Époque. Ebbe anche, sul finire, la ripresa del colonialismo italiano
con la guerra di Libia. Giolitti si può definire un liberale
progressista o un conservatore illuminato, sapeva adattarsi, cercando
di padroneggiarla, alla variegata realtà politica italiana. Egli
disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo
confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al
vestito. Egli dunque era convinto di dover governare un paese "gobbo"
che non aveva intenzione di "raddrizzare" ma
realisticamente governare per quello che era. La sua attenzione si
rivolse al partito socialista, per trasformarlo da avversario a
sostegno delle istituzioni ed allargare nello stesso tempo le basi
dello stato, e ai cattolici, che volle fare rientrare nel sistema
politico.
Giovanni Giolitti può essere considerato il primo vero architetto dell'edificio sociale italiano, anche se più dedito agli interessi del Nord a discapito di quelli del Sud Italia.
Giovanni Giolitti può essere considerato il primo vero architetto dell'edificio sociale italiano, anche se più dedito agli interessi del Nord a discapito di quelli del Sud Italia.
Il cambiamento di prospettiva politica perseguito da Giolitti, gli consente di
realizzare un po' più agevolmente quelle trasformazioni che si era proposto già nel all'epoca del suo primo mandato nel 1882: conciliare gli interessi della
borghesia con quelli dell'emergente proletariato (sia agricolo che
industriale). A questo proposito Giolitti è il
primo a proporre l'entrata nel suo governo come ministro al
socialista Filippo Turati, che rifiutò, convinto che la base
socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un
governo liberale borghese. Tuttavia, nonostante l'opposizione della
corrente massimalista, in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò
dall'esterno il governo Giolitti che in questo contesto poté varare
norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile),
sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti
furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli
scioperi a condizione che non turbassero l'ordine pubblico. Nelle
gare d'appalto furono inoltre ammesse le cooperative cattoliche e socialiste. L'apertura nei confronti dei
socialisti, insomma, fu una vera e propria costante di questa fase di
governo: Giolitti programmava, infatti, di estendere il consenso nei
riguardi del governo presso queste aree popolari, e in particolare
presso quelle aristocrazie operaie che, grazie ad una migliore
retribuzione salariale e, quindi, a un migliore tenore di vita,
raggiungevano il reddito minimo che consentiva il diritto di voto.
Giolitti era infatti convinto che non fosse utile a nessuno tenere
bassi i salari perché da un lato non avrebbe consentito ai
lavoratori di condurre una vita dignitosa, dall'altro avrebbe
strozzato il mercato provocando una sovrapproduzione.
Come hanno fatto notare alcuni storici,
la posizione di Giolitti si definiva in ragione della forza
organizzata raggiunta dal PSI e dalla CGL, che l'uomo politico
piemontese considerava due pilastri da cooptare in funzione della
stabilità dell'ordine costituito. Al nord il tentativo si
concretizzò, nel tentativo di creare uno strato di classe
lavoratrice riformista e almeno parzialmente appagata dal sistema,
anche attraverso la concessione di un numero sempre più
significativo di appalti e lavori pubblici alle cooperative
socialiste.
Dal 27 al 30 maggio 1904 si
costituisce ufficialmente il Partito Radicale Italiano nel
corso del I Congresso Nazionale, a Roma. All'epoca il leader era
Ettore Sacchi che, progressivamente, condusse il partito alla
partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell'età
giolittiana nel periodo 1903-1914. Contemporaneamente, un altro
esponente radicale, Giuseppe Marcora, sarà per molti anni alla
Presidenza della Camera dei deputati nel periodo 1904-1919. Nei
confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti, i
radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto
dei socialisti di Filippo Turati all'invito di Giolitti di aderire al
suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei
radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla
Presidenza della Camera. Dopodiché, tra il 1904 e il 1905, parte dei
deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti
II; successivamente, non vedendo soddisfatte le aspettative di
riforme democratiche, contribuirono alla sua caduta.
Il 28 luglio 1904 il papa Pio X
(1903-1914) decide di sciogliere l'associazione Opera dei
Congressi, dove i "sovversivi"
di don Romolo Murri, sensibili alle tematiche sociali, avevano
acquistato la maggioranza. Un altro sacerdote, don Luigi Sturzo, che
si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, si adegua alla
decisione pontificia in attesa di tempi migliori.
Giovanni Giolitti |
Nello
stesso anno la corrente moderata del clericalismo,
organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica
realizza accordi prelettorali con candidati liberali
moderati, in maggioranza
giolittiani. Giovanni Giolitti, in difficoltà dopo lo
sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti, aveva infatti
deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del
paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti, e in
quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali
avrebbero ottenuto il voto dei cattolici ma si sarebbero impegnati a
non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero.
Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati
cattolici no,
cattolici deputati sì.», anche se non la pensavano così i
cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.»
Lo stesso papa Pio X si mostra
favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali o la
nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a
divisioni nella Chiesa, preferisce quello per lui minore, per cui
apprezza l'intento
del conte Vincenzo Gentiloni e
dei cattolici vicini al suo orientamento, a schierarsi
con la monarchia e con i liberali giolittiani, per fermare
l'avanzata socialista, marxista e anarchica.
Il 6 novembre 1904 per il 1º turno e
il 13 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia
le quindicesime elezioni politiche,
nelle quali il papa Pio X consente delle eccezioni
al “non expedit”, permettendo anche ai cattolici di
partecipare alle elezioni, per la prima volta dal 1868, e ne
risulteranno eletti tre deputati cattolici. Su una popolazione stimata in
35.500.000 residenti (32.963.316 censiti nel 1901 e 35.841.563 nel
1911, dati ISTAT) hanno diritto di voto 2.541.327 uomini, il
7,158% della popolazione, di cui voteranno in 1.593.886, il 62,7%
degli aventi diritto.
Partiti % voti seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica) 66,73 339
Opposizione costituzionale (ex Destra storica) 14,96 76
Partito Radicale Italiano 7,28 37
Partito Socialista Italiano 5,70 29
Partito Repubblicano Italiano 4,72 24
Cattolici 0,59 3
Totale 100 su 508 seggi parlamentari. Con la vittoria della sinistra
storica, prosegue il secondo governo Giolitti.
Nel 1905 il governo italiano assume direttamente la responsabilità di creare una colonia nel sud della Somalia, a seguito delle accuse rivolte all'italiana Società del Benadir di aver tollerato o addirittura collaborato alla perpetuazione della tratta degli schiavi. L'organizzazione amministrativa venne affidata al governatore Mercantelli, che organizza la colonia nelle sei suddivisioni amministrative di Brava, Merca, Lugh, Itala, Bardera e Jumbo.
Eritrea e Somalia colonie del Regno d'Italia. |
Durante il suo III mandato (dal 29
maggio 1906) Giolitti continua essenzialmente la politica economica
già avviata nel suo secondo governo, e si preoccupa di risanare il
bilancio dello Stato, con una più equa ripartizione degli oneri
sociali, aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni
del Novecento. Il governo poté dare il via nel 1906 alla conversione
della rendita nazionale, diminuendo il tasso d'interesse dal 5% al
3,75% dando la possibilità, a chi non avesse accettato la
diminuzione della rendita, di poter ottenere l'intero rimborso dei
capitali sottoscritti; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo
richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello Stato.
Questa era, in realtà, un'operazione rischiosa, perché, per quanto
si potesse prevedere un limitato panico tra i creditori dello Stato,
le richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto,
comunque, ebbe successo perché queste furono assai limitate e la
possibilità della bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu
possibile perché la conversione della rendita provocò una generale
diminuzione del costo del denaro, che consentì di ottenere crediti
ad un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò un
nutrito consenso. Questa riduzione dei tassi d'interesse favorì
l'industria pesante, che risultava ancora arretrata a causa della
mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che
sarebbero stati necessari a modernizzarla.
La lira godeva di una stabilità mai
prima raggiunta al punto che sui mercati internazionali la moneta
italiana era quotata al di sopra dell'oro e addirittura era preferita
alla sterlina inglese.
Nel 1907 prosegue l'orientamento
papale a preservare il patrimonio di valori tradizionali
del mondo cattolico e
nel decreto “Lamentabili sane exitu” del 1907, Pio X condanna 65
proposizioni moderniste, decretando subito la condanna al modernismo
nell'enciclica “Pascendi dominici gregis”. Nello stesso anno, don
Murri è sospeso a divinis e diventerà deputato nelle file
dei radicali.
Vincenzo O. Gentiloni |
Le elezioni politiche del 1909
sono il primo banco di prova della collaborazione tra UECI e
moderati, dove diversi
cattolici si candidano nelle liste liberali e
in cui saranno eletti 21 "deputati cattolici" nelle
liste liberali di Giolitti.
Il 7 marzo 1909 per il 1º turno e il
14 marzo per i ballottaggi, si svolgono le sedicesime elezioni
politiche nel Regno d'Italia. Su una popolazione stimata in 35
milioni di residenti (32.963.316 censiti nel 1901 e 35.841.563 nel
1911), gli aventi diritto al voto sono 2.930.473, l'8,37%
della popolazione, di cui votano 1.903.687 uomini, il 65,0% degli
aventi diritto.
Filippo Turati |
Partiti % voti seggi
Ministeriali (ex Sinistra storica) 61,4 306
Opposizione costituzionale (ex Destra storica) 10,8 60
Partito Radicale Italiano (del 1904/22) 6,5 55
Partito Socialista Italiano 7,4 39
Partito Repubblicano Italiano 2,7 22
Cattolici 3,8 26
Totale 100 su 508 seggi parlamentari. Grazie anche ai voti dei cattolici, Giolitti e i socialisti riformisti di
Filippo Turati conseguono una chiara vittoria elettorale, ma
l'ingresso dei cattolici produce un'accentuazione in senso
conservatrice della politica italiana, mentre il partito liberale
avrebbe dovuto uscire dal suo moderatismo, che non soddisfaceva più
le classi sociali contrapposte, che si andavano estremizzando. L'11
dicembre, al terzo governo Giolitti, della sinistra storica,
subentrerà il secondo governo Sonnino, della destra storica.
Il nazionalismo italiano affonda
le proprie radici nell'esperienza del Risorgimento. Nella seconda
metà degli anni sessanta dell'Ottocento assumerà connotazioni e
forme politiche e culturali legate all'esperienza risorgimentale,
dando vita al fenomeno dell'irredentismo. Tale fenomeno raggiungerà
il suo massimo sviluppo agli inizi del secolo successivo. In questa
fase il nazionalismo italiano si presentò come movimento delle
classi borghesi in ascesa, appoggiato anche da intellettuali, artisti
e letterati, fra cui spiccano le figure di Niccolò Tommaseo, Giosuè
Carducci e Gabriele D'Annunzio. Sotto il profilo organizzativo e
politico fu importante la fondazione, nel 1910, ad opera di Enrico
Corradini e Luigi Federzoni dell'Associazione Nazionalista Italiana.
Il giornale Il Regno fu il primo organo ufficiale del movimento
nazionalista italiano, cui seguì il settimanale L'Idea Nazionale,
nel 1914 trasformato in quotidiano. Il nazionalismo svolse un ruolo
importante in molti momenti della storia d'Italia postrisorgimentale.
Per i nazionalisti l'Italia deve avere
una sua politica di ricongiungimento e deve recuperare le terre
italiane ancora sotto il dominio straniero, con un programma che
guardava al rafforzamento dell'autorità statale come rimedio contro
l particolarismo politico, e la guerra per l'affermazione del
prestigio italiano. Furono in prima linea come fautori
dell'interventismo nella prima guerra mondiale. L'associazione si
candidò come partito politico alle elezioni del 1913 e conquistò
alcuni deputati. Dopo la fine della guerra, i nazionalisti
alimentarono la campagna sulla "vittoria mutilata". Nel
febbraio 1923 l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) si fuse con
il Partito Nazionale Fascista (PNF), e da allora un'unità di destini
la legò al fascismo italiano.
In seguito, l'impero ottomano subisce l’aggressione dell’Italia che, pur alleata della Germania, amica dell'impero ottomano, tra 1.911 e 1.912 strappa all'impero le ultime residue province nordafricane che ancora, almeno formalmente, controllava: Tripolitania e Cirenaica.
Carta con le ex province ottomane nell'attuale Libia. |
Gli italiani occupano anche Rodi e il Dodecaneso e giungono a forzare lo stretto dei Dardanelli. Il 12 ottobre del 1.912, turchi e italiani accedevano alla faticosa pace di Losanna. Il sultano avrebbe invero volentieri ceduto Tripolitania e Cirenaica all’Italia in cambio di un suo governo nella sostanza coloniale, ma che formalmente rispettasse la sovranità ottomana: tale accordo era già stato accettato dall’Inghilterra per l’Egitto e dalla Francia per Algeria e Tunisia. Ma il governo di Giolitti, che aveva scatenato la guerra per distogliere l’attenzione degli italiani da forti difficoltà interne, aveva bisogno di un’affermazione piena, non di una transazione che sarebbe parsa un ripiego se non una mezza sconfitta. Così la guerra continuò per approdare alla costituzione di una “Libia italiana”.
All'inizio del conflitto, il governo di Giolitti era stato esortato anche dal poeta romagnolo e socialista di estrazione romantica Giovanni Pascoli, che reclamava un posto al sole per l'Italia
“La grande proletaria si è mossa” è il discorso pronunciato da Giovanni Pascoli nel novembre 1.911 a Barga, in occasione della campagna di Libia. E’ molto interessante leggere le parole del poeta in riferimento a questo avvenimento storico poichè svelano un Pascoli nazionalista e fortemente interventista, difficile da conciliare con il “socialista dell’umanità”, quale si definiva egli stesso. Questa guerra coloniale è presentata dal poeta come un’esigenza necessaria alla sopravvivenza dei cittadini italiani che, dopo anni trascorsi come lavoratori emigrati oltremare e oltralpe, dopo anni di sfruttamento e ingiurie, dovevano assolutamente procurarsi terre fertili da cui trarre il proprio sostentamento. Inoltre il paese aveva bisogno di dimostrare il proprio valore militare, e la campagna di Libia sembrava un’occasione ideale per potersi riscattare agli occhi dell’Europa: “Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar Carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora”. Questo tentativo di presentare la campagna di Libia come una guerra difensiva e non di attacco, unica modalità accettata dai socialisti, ignorava completamente il fatto che i libici avessero diritto alla autodeterminazione.
La guerra italo-turca (nota in italiano anche come guerra di Libia e per i turchi come Guerra di Tripolitania) fu combattuta dal Regno d'Italia contro l'Impero ottomano tra il 29 settembre 1.911 e il 18 ottobre 1.912, per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica. Le ambizioni coloniali spinsero l'Italia ad impadronirsi delle due province ottomane che nel 1934, assieme al Fezzan, avrebbero costituito la Libia, dapprima come colonia italiana ed in seguito come Stato indipendente. Durante il conflitto, fu occupato anche il Dodecaneso, arcipelago del Mar Egeo; quest'ultimo avrebbe dovuto essere restituito ai turchi alla fine della guerra, ma rimase sotto amministrazione provvisoria da parte dell'Italia fino a quando, con la firma del trattato di Losanna nel 1923, la Turchia rinunciò a ogni rivendicazione, e riconobbe ufficialmente la sovranità italiana sui territori perduti nel conflitto.
Carta con il Dodecaneso. |
Nel corso della guerra, l'Impero ottomano si trovò notevolmente svantaggiato, poiché avrebbe potuto rifornire il suo piccolo contingente in Libia solo attraverso il Mediterraneo e la flotta turca non fu in grado di competere con la Regia Marina. Gli Ottomani, così non riuscirono ad inviare rinforzi alle loro province nordafricane. Pure se minore, questo evento bellico fu un importante precursore della prima guerra mondiale. Osservando la facilità con cui gli italiani avevano sconfitto i disorganizzati turchi ottomani, i membri della Lega Balcanica attaccarono l'Impero prima del termine del conflitto italo-turco.
Nella guerra italo-turca si registrarono numerosi progressi tecnologici nell'arte militare tra cui, in particolare, l'impiego dell'aeroplano (furono schierati in totale 9 apparecchi) sia come mezzo offensivo che come strumento di ricognizione. Il 23 ottobre 1911 il pilota Carlo Maria Piazza sorvolò le linee turche in missione di ricognizione, e il 1º novembre dello stesso anno l'aviatore Giulio Gavotti lanciò a mano la prima bomba aerea (grande come un'arancia, si disse) sulle truppe turche di stanza in Libia. Altrettanto significativo fu l'impiego della radio con l'allestimento del primo servizio regolare di radiotelegrafia campale militare su larga scala, organizzato dall'arma del genio sotto la guida del comandante della compagnia R.T. Luigi Sacco e con la collaborazione dello stesso Guglielmo Marconi. Infine, il conflitto libico registrò il primo utilizzo nella storia di automobili in una guerra: le truppe italiane furono dotate di autovetture Fiat Tipo 2 e motociclette SIAMT.
Resta il fatto che la Libia, così come l'Eritrea, sarà un'unità inventata dall'Italia e non era mai stata un'entità politica unitaria, antefatto che potrebbe motivare l'attuale crisi libica. La Libia infatti non ha mai posseduto un tessuto sociale comune fra le varie tribù.
Guidata dalla forte personalità di Giovanni Giolitti, l'Italia fa progressi notevoli, coronati anche dalla fortunata guerra italo-turca. Tra il 1910 e il 1914, si conseguì in Italia la massificazione dell'istruzione secondaria e l'ingresso della donna del mondo del lavoro qualificato (con la "rivoluzione" della macchina da scrivere). Alla vigilia della prima guerra mondiale l'Italia, passando da un'economia prevalentemente agricola a una di stampo industriale, era divenuta la settima potenza industriale del mondo e aveva inoltre dato prova di buone capacità militari nel conflitto contro la Turchia.
La guerra italo-turca, realizzata con
l'appoggio diplomatico delle potenze dell'Intesa, voluta
dall'opinione pubblica italiana e dalla borghesia industriale
interessata alla produzione bellica, rappresenta l'inizio della fine
dell'età giolittiana. Alle delusioni seguite alla sanguinosa
conquista di quello "scatolone di sabbia", come dicevano i
socialisti turatiani, si aggiunse la preoccupazione per la
ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel bilancio
dello Stato.
Il quarto governo Giolitti dura dal 30
marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nasce come il tentativo, probabilmente
più vicino al successo, di coinvolgere al governo il Partito
Socialista, che comunque voterà a favore del governo. Il programma prevedeva la
nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del
suffragio universale maschile, progetti di considerevole valenza
"sociale" ed entrambi immediatamente realizzati. Nel
settembre del 1911 Giolitti, premuto dalle spinte nazionaliste (il
movimento nazionalista si era costituito come partito organizzato nel
primo congresso di Firenze nel 1910) da tuttavia inizio alla
guerra di Libia. Il conflittoavrà notevoli ripercussioni anche in
politica interna, dividendo il Partito Socialista e allontanandolo
dal governo in maniera irrimediabile.
Il 30 giugno 1912 viene approvata una
riforma elettorale che introduce il suffragio universale
maschile. L’elettorato attivo
è esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai
30 anni senza alcun requisito
di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età
inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del
servizio militare o il possesso di titoli di studio
già richiesti in precedenza. Il numero di aventi diritto al
voto aumenta notevolmente, passando dai circa tre milioni del 1909 ad
oltre 8.600.000. Questa legge
rimane in vigore solo per una legislatura
e sarà sostituita nel 1919, in un contesto profondamente mutato.
La riforma elettorale approvata era
stato il prezzo che Giolitti aveva dovuto pagare ai socialisti di
Leonida Bissolati per l'appoggio ottenuto durante la guerra
italo-turca. Molti nuovi elettori erano operai e il PSI riscuoteva
molti consensi nel mondo operaio.
Giolitti, e con lui vari
esponenti della classe politica che aveva governato l'Italia,
desiderava bloccare l'avanzata del Partito Socialista Italiano.
Prese perciò l'iniziativa di rivolgersi all'Unione Elettorale
Cattolica Italiana, contando sul precedente del 1909, e l'esperimento
della collaborazione con i cattolici fu rinnovato. Il partito liberale mise a disposizione
una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte
sua, Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati
liberali, al fine di far confluire i voti dei cattolici su quelli tra
loro che promettessero di fare propri i valori affermati dalla
dottrina cristiana e, parallelamente, di negare il proprio
sostegno a leggi anticlericali.
Per la stampa si chiamerà «Patto
Gentiloni», un accordo politico informale mai messo per iscritto
che propone ai candidati del Partito Liberale che avessero voluto il
sostegno dei votanti cattolici, di sottoscrivere i seguenti sette
punti programmatici:
- difesa delle congregazioni religiose,
- difesa della scuola privata,
- difesa dell'istruzione religiosa
nelle scuole pubbliche,
- difesa dell'unità della famiglia,
- difesa del "diritto di parità
alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai
principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",
- salvaguardia di una migliore
applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,
- conservazione e rinvigorimento “delle
forze economiche e morali del paese”, per un incremento
dell'influenza italiana in campo internazionale.
Il XIII congresso socialista, convocato
in forma straordinaria dal 7 al 10 luglio 1912 a Reggio Emilia,
inasprisce le divisioni che attraversano il Partito riguardo alla
Guerra di Libia. Trionfa la corrente massimalista e si
sancisce l'espulsione di una delle aree riformiste, capeggiata da
Bonomi, Cabrini e Bissolati: quest'ultimo, nel 1911 si era recato al
Quirinale per le consultazioni susseguenti la crisi del Governo
Luzzatti, causando il malcontento del resto del partito, compreso
quello di Turati, esponente di spicco dell'altra corrente
riformista. L'esponente socialista che al congresso si scaglia ferocemente contro i tre espulsi, aizzando la folla contro di loro,
è Mussolini, esponente nella corrente massimalista. In virtù di
quell'arringa, egli si guadagnerà una notevole fama all'interno del
PSI, che da lì a poco gli consentirà di diventare direttore
dell'Avanti!. Bissolati e i suoi, cacciati dal partito, daranno vita
al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI). Dopo il congresso socialista di Reggio Emilia del
1912 che aveva visto l'espulsione dell'ala moderata e il prevalere
della corrente massimalista, guidata da un giovane
anarco-sindacalista Benito Mussolini, divenuto direttore
dell'"Avanti!", tutto stava ad indicare che la lotta
politica si stava acutizzando tra l'estremismo di sinistra e una
borghesia passata alle tesi dell'imperialismo.
Benito Mussolini |
Pietro Nenni |
Furono forse queste preoccupazioni che
nell'imminenza delle elezioni del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca
di un più vasto consenso di massa con l'istituzione del suffragio
universale maschile e soprattutto con il patto Gentiloni con i
cattolici in funzione antisocialista.
Errico Malatesta |
I risultati elettorali
sembrarono premiare la politica giolittiana, ma era un'illusione:
ormai lo scontro tra la destra e la sinistra si combatteva nelle
strade come dimostreranno i disordini della "Settimana Rossa"
nel giugno del 1914, guidata dal socialista Mussolini, dal
repubblicano Pietro Nenni, dall'anarchico Errico Malatesta.
Questa
situazione sociale ingestibile politicamente convinse Giolitti, già
dimessosi nel marzo del 1914, di aver visto giusto nella sua
decisione di abbandonare almeno temporaneamente la vita politica.
Giolitti in realtà si era dimesso designando come suo successore il
conservatore Antonio Salandra, calcolando che dal fallimento della
politica di questi egli sarebbe potuto tornare al governo da sinistra
con un programma di più avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò
sbagliato: ormai non era più possibile alcuna mediazione tra
capitale e lavoro.
Il raggruppamento politico dei
Liberali, anche noto con il nome Unione Liberale, è stato il cartello
elettorale comprendente diversi partiti liberali, creato per le
elezioni politiche italiane del 1913 a seguito del Patto Gentiloni e la conseguente scomparsa dei
Ministeriali giolittiani. I suoi simboli elettorali consistevano
solitamente in una torcia, oppure uno scudo con aquila, o vari
utensili di lavoro. Esso è arrivato a comprendere 26 partiti.
Il 26 ottobre 1913 per il 1° turno e
il 2 novembre per i ballottaggi, si svolgono nel Regno d'Italia le
diciassettesime elezioni politiche,
le prime elezioni a suffragio universale maschile con
l'ormai tradizionale collegio uninominale a doppio turno e in cui è
operativo il cosiddetto «Patto
Gentiloni» fra clericali e liberali. Su una popolazione
stimata in 36.500.000 residenti (35.841.563 nel 1911 e 39.396.757 nel
1921), gli aventi diritto al voto sono 8.672.000 uomini, pari
al 23,758% della popolazione, di cui votano 5.100.615 uomini,
il 58,8% degli aventi diritto. I risultati sanciscono un grande
successo del Patto Gentiloni: il Partito Liberale ottiene una
schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti, di cui ben
228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai
cattolici. I deputati socialisti (PSI e Socialisti indipendenti e
sindacalisti) vedono salire a 58 il numero dei propri eletti, i
riformisti (Partito Socialista Riformista Italiano) eletti sono 21,
73 i radicali, 34 i cattolici (non aderenti al Partito Liberale) e 5
i nazionalisti.
Partiti Ideologia Leader
Liberali Liberalismo, Centrismo Giovanni
Giolitti
Partito Socialista Italiano (PSI) Socialismo, Socialismo rivoluzionario Filippo Turati
Partito Radicale Italiano (PR) Radicalismo, Anticlericalismo Francesco Saverio Nitti
Part. Dem. Costituzionale (PDC) Liberalismo sociale, Liberalismo vari
Unione Elett.Cattolica It. (UECI) Clericalismo, Cristianesimo democratico Vincenzo Ottorino Gentiloni
Part. Socialista Riform. It. (PSRI) Socialismo democratico, Socialdemocrazia Leonida Bissolati
Partito Democratico (PD) Socialismo liberale, Socialdemocrazia vari
Partito Repubblicano It. (PRI) Repubblicanesimo, Radicalismo Carlo Sforza
Cattolici conservatori Integrismo cattolico, Clericalismo, Tradizionalismo vari
Partiti voti % voti seggi
Liberali 2.387.947 47,6 270
Partito Socialista
Italiano 883.449 17,6 52
Partito Radicale
Italiano 522.522 10,4 62
Partito Democratico
Costituzionale 277.251 5,5 29
Unione Elettorale
Cattolica 212.319 4,2 20
Partito Socialista Riformista
Italiano 196.406 3,9 19
Partito Democratico 138.967 2,8 11
Partito Repubblicano
Italiano 102.102 2,0 8
Cattolici conservatori 89.630 1,8 9
Repubblicani dissidenti 71.564 1,4 9
Socialisti indipendenti 67.133 1,3 8
Radicali dissidenti 65.671 1,3 11
Totale 5.100.615 100 su 508 seggi. Con la netta vittoria dei liberali, grazie anche al «Patto Gentiloni», prosegue il IV governo Giolitti fino al
21 marzo 1914, quando governerà Antonio Salandra, del partito
liberale.
Fra il 1871 e il 1914 l'Europa era stata uno spazio civile più unitario che mai, caratterizzato da forti omogeneità e simbiosi di esperienze culturali e di orientamenti ideali. La relativa facilità con cui i gruppi dirigenti che vollero la guerra, la poterono scatenare, dimostrerà che le aggregazioni particolaristiche e le contrapposizioni di interessi conservavano un'influenza determinante rispetto ai motivi di omogeneità e di solidarietà. E' perciò legittimo parlare di guerra civile insita nel teatro europeo, per quella che sarà chiamata la prima guerra mondiale.
Nel
1914, con l'inizio della guerra mondiale, i clericali
si schierano con i neutralisti,
come apertamente espresso dal papa Benedetto XV (1914-1922) nella sua
condanna all'"inutile strage"
mentre, più in generale, nell'Italia neutrale del 1914/15, si
contrappongono due posizioni.
1) Da una parte le fazioni
politiche-sociali ostili alla guerra, schieramento vasto e
differenziato in cui ci sono i liberali guidati da Giolitti,
che temono lo sconvolgimento delle fragili strutture materiali e
morali dello stato italiano e che pensano di ottenere gli ultimi
territori italiani occupati dall'Austria-Ungheria, Trento e Trieste,
con una trattativa. Giolitti non credeva alla guerra, conosceva
l’impreparazione militare italiana, peraltro reduce dalla guerra di
Libia, prevedeva un conflitto di lungo periodo e pensava che il
crollo dell’impero austro-ungarico non avrebbe certo favorito il
nostro paese. Poi ci sono i cattolici e i socialisti che
da posizioni ideologiche distanti sono ostili alla guerra. Il primo
socialista a prendere posizione contro la guerra, prima ancora che
venisse ufficialmente dichiarata, è Mussolini, che sull'"Avanti" del
26 luglio 1914, proclama la “neutralità assoluta” e riprende il
vecchio detto di Andrea Costa: “Né un uomo, né un soldo. A
qualunque costo”. Morgari, Turati e Treves convocano il Gruppo
parlamentare socialista il 27 luglio del 1914 a Milano nei locali
dell’”Avanti”, dove si riprende il tema della “neutralità
assoluta” e ai lavoratori si raccomanda “di tenersi pronti per
quelle più energiche misure che il partito intendesse adottare”.
Da ricordare che le prime nette posizioni contro la guerra si
riferivano all’ipotesi di una discesa in campo dell’Italia coi
paesi della Triplice alleanza, dunque a fianco dell’Austria, che
aveva iniziato la guerra contro la Serbia. Più sfumata era, fra i
socialisti, la contrarietà all’ipotesi di una discesa in campo
dell’Italia a fianco dell’Intesa. Il comunicato finale della
Direzione socialista, riunita il 3 agosto, attribuisce infatti ogni
responsabilità del conflitto alle “cupidigie balcaniche
dell’imperialismo austro-ungarico”. Il giorno prima Mussolini
aveva scritto: “In caso di spedizione punitiva contro l’Italia da
parte di un’Austria vittoriosa è probabile che molti di quelli che
oggi si sono occupati di anti patriottismo saprebbero compiere il
loro dovere”. L’Avanti, il 4 agosto, parla “ di orda teutonica
scatenata su tutta l’Europa” il 6 di “sfida germanica contro
latini, slavi, ed anglosassoni”, mentre su “Critica sociale”,
Turati ipotizza una non ben decifrabile “neutralità non
dogmatizzante e imperativa”. Fino a quel punto, le posizioni di
Mussolini sulla diversa valutazione dell’intervento italiano
alleato agli imperi o contro gli imperi centrali, erano più o meno
quelle di Turati. E quando lo stesso Mussolini, il 10 settembre,
scrisse l’articolo sull’”Avanti” in cui si osservava la
necessità di scegliere “tra i due mali, il minore e cioè la
vittoria dell’Intesa”, nessuno lo contestò. Ma il 18 ottobre
Benito Mussolini, ancora direttore del quotidiano ufficiale del
partito socialista "L'Avanti", fino ad allora sostenitore della
neutralità italiana come da direttive di partito, pubblica in terza
pagina un articolo in cui sostiene che il mantenimento della linea di
neutralità avrebbe ghettizzato il movimento, relegandolo in
posizione subalterna. Egli propone perciò di armare il popolo per la
guerra e, una volta essa terminata, rivolgersi contro le strutture
dello Stato liberale e borghese, dando luogo alla Rivoluzione
e al trionfo del socialismo. Ciò gli costa l'allontanamento dal
giornale il 20 ottobre 1914 e, nemmeno un mese dopo esce con la prima
copia di un nuovo quotidiano da lui fondato, il Popolo d'Italia,
dalla linea fortemente interventista, guadagnandosi inoltre il 29
novembre l'espulsione dal partito socialista a causa delle sue
provocazioni nei confronti dei compagni. Il 14 novembre 1914, in un
articolo intitolato Audacia, scrive sulle colonne del nuovo giornale:
«Oggi - io lo grido forte - la propaganda antiguerresca è la
propaganda della vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed
esaspera l'istinto della conservazione individuale.
Ma per ciò
stesso è una propaganda antirivoluzionaria … E riprendendo la
marcia è a voi, giovani d'Italia; giovani delle officine e degli
atenei; giovani d'anni e giovani di spirito; giovani che appartenete
alla generazione cui il destino ha commesso di fare la storia; è a
voi che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle
vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie... “Guerra”».
Sotto l'influsso di Mussolini e di Salvemini, l'allora studente
universitario socialista Antonio Gramsci scriverà un articolo sul
settimanale socialista di Torino Il Grido del Popolo il 31 ottobre
1914 dal titolo "Neutralità attiva e operante" con il quale anch'esso
si discosta dalla linea ufficiale del partito e che spaccherà le
fila dei giovani socialisti torinesi. Anche il socialista Palmiro
Togliatti si arruolerà volontario nell'esercito per partecipare ai
combattimenti.
Palmiro Togliatti |
2) Il fronte interventista,
guidato dai nazionalisti che, al mito socialista della lotta
di classe e della rivoluzione, sostituiscono la guerra come
garanzia dell'ordine sociale, del comando delle classi superiori
su quelle inferiori. La nuova destra nazionalista di Enrico Corradini
e Alfredo Rocco indica la necessità di imparare ad andare in piazza,
strappandola all'egemonioa della sinistra, se si vuole essere
politicamente all'altezza dei tempi; sono linguaggi e forme nuove
dell'azione politica dell'età delle masse. La piazza interventista
brulica, in Italia, di tecnici della mobilitazione popolare che
vengono anche da sinistra, come il socialista riformista, deputato di
Trento al parlamento di Vienna, Cesare Battisti, il socialista
massimalista Benito Mussolini, che in precedenza era neutralista, i
sindacalisti rivoluzionari Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, i
social-riformisti Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini. Queste
conversioni, dall'Internazionale dalla bandiera rossa alla Patria e
al tricolore, si collocano nel quadro di una nuova compatibilità,
della destra con la piazza e quindi di una generale rifusione dei
linguaggi e dei simboli della politica. Quel che accomuna destra e
sinistra interventista, è l'obiettivo di portare, comunque, l'Italia
in guerra, nonostante gran parte degli strati popolari e gli stessi
rappresentanti delle istituzioni siano contrari. Sono invece
favorevoli alla guerra la corona, gli ambienti di corte e i
militari.
Tutto farebbe propendere i nazionalisti
verso la triplice alleanza, gli imperi centrali, se l'imperialismo
italiano non fosse entrato in rotta di collisione, nel mar Adriatico,
con l'imperialismo austro-ungarico, per cui la destra nazionalista si
allea con quelle correnti della sinistra che idealizzano la guerra
democratizzandone i fini: Trento e Trieste all'Italia per completarne
il Risorgimento e giusti confini nazionali per tutti i popoli. Il
presidente del consiglio dei ministri, il conservatore Antonio
Salandra, userà invece l'inconsueta formula del “sacro
egoismo” dell'Italia, nel portare avanti una doppia trattativa
segreta e parallela con i due fronti già in guerra e il ministro
degli esteri Sidney Sonnino firmerà in segreto, nell'aprile del 1915
il patto di Londra, che impegna l'Italia ad entrare nel conflitto,
entro un mese, al fianco della Triplice Intesa contro
L'Austria-Ungheria.
Il 23 maggio 1.915, il Regno d'Italia
dichiara guerra all'Austria-Ungheria, avviando le operazioni belliche
a partire dal giorno seguente. L'Italia dichiarerà poi guerra
all'Impero ottomano il 21 agosto 1915, al Regno di Bulgaria il 19
ottobre 1915 e all'Impero tedesco il 27 agosto 1916. Con l'entrata in
guerra dell'Italia al fianco dell'Intesa, in accordo al patto segreto
di Londra, si aprirà un terzo fronte a sud, fra Italia ed Austria.
Il maggio del 1915 sarà definito “radioso” dal poeta-soldato
nonché vate, Gabriele D'Annunzio, che inciterà le piazze
interventiste con le sue parole immaginifiche e gli attraenti slogan
che si diffonderanno in seguito sia nella politica così come nella
pubblicità commerciale: il discorso del 5 maggio dallo scoglio di
Quarto (GE), là dove erano partiti i mille di Garibaldi, i discorsi
romani, gli “Eia Eia Alalà” ("Eia!" era il grido con
cui, secondo la tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il
suo cavallo Bucefalo; Alalà era una divinità femminile della
mitologia greca che accompagnava in battaglia Ares, il dio della
guerra e il grido di battaglia degli opliti greci era dunque
"Alalà!") insieme poi alle reclame che D'Annunzio nello
stesso tempo avava preparato per il liquore “Aurum” e per i
grandi magazzini “La Rinascente” di cui avava inventato il nome.
Il vecchio stile della politica Giolittiana precipiterà, anche per
l'infortunio lessicale del “parecchio”, che Giolitti disse, si
sarebbe potuto ottenere, da una semplice trattativa con l'impero
austro-ungarico, preoccupato dall'eventuale apertura di un nuovo
fronte bellico con l'Italia. Era l'ultimo oltraggio all'immagine
grandiosa del Paese da parte di chi veniva definito un sensale
(mediatore contrattuale) della politica, mentre veniva apprezzato il
“sacro egoismo” di Antonio Salandra. Così, il parlamento
italiano fu completamente emarginato dalla decisione di entrare
in guerra, evento che avrebbe preannunciato l'avvento del
conservatorismo autoritario al potere nel dopoguerra.
Nello stesso mese di maggio del 1915, un sottomarino tedesco affonda il transatlantico inglese “Lusitania”, il lugubre segnale che nel conflitto non ci sarebbero state limitazioni territoriali e negli obiettivi militari era prevista anche la distruzione delle popolazioni civili oltre agli apparati militari nemici.
Per la prima volta la guerra era non solo mondiale ma anche totale. Fu quindi la prima guerra globale, resa possibile dal progresso ottenuto nelle società industriali. Era la prima guerra della nuova civiltà industriale: la potenza delle armi, le capacità organizzative, i mezzi di trasporto, le forze produttive e le risorse finanziarie erano state notevolmente incrementate dalle economie industriali dei paesi coinvolti nel conflitto.
L'entrata in guerra dell'Italia apre un
lungo fronte sulle Alpi Orientali, esteso dal confine con la Svizzera
a ovest fino alle rive del mare Adriatico a est: qui, le forze del
Regio Esercito sostennero il loro principale sforzo bellico contro le
unità dell'Imperiale regio Esercito austro-ungarico, con
combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, nell'Altopiano
di Asiago e soprattutto nel Carso, lungo le rive del fiume Isonzo.
Contemporaneamente alle operazioni belliche, la guerra ebbe anche una
profonda influenza sullo sviluppo industriale del paese oltre
ad avviare grandi cambiamenti in ambito sociale e politico. Il fronte
interno giocò un ruolo fondamentale per il sostegno dello sforzo
bellico: gran parte della vita civile e industriale fu completamente
riadattata alle esigenze economiche e sociali che il fronte imponeva,
e comparve la militarizzazione dell'industria, la soppressione
dei diritti sindacali a favore della produzione di guerra, i
razionamenti per la popolazione, l'entrata della donna nel mondo del
lavoro e moltissime altre innovazioni sociali, politiche e culturali.
La guerra impose uno sforzo popolare mai visto prima; enormi masse di
uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul fronte di
battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di
trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della
morte, che impose ai combattimenti la necessità di dover affrontare
enormi conseguenze psicologiche collettive ed individuali, che
andavano dalla nevrosi da combattimento, al reinserimento nella
società fino alla nascita delle associazioni dei reduci.
Le guerre del passato, che avevano
obiettivi limitati, non furono condotte fino all'annientamento del
nemico. Nella precedente età degli imperi, gli obiettivi della politica e
dell'economia si erano fusi e la competizione bellica aveva come posta la
crescita economica. La guerra totale illimitata invece, coinvolgeva
l'intera società. Tutte le strutture sociali, politiche, economiche e
culturali subirono delle trasformazioni a ritmo fortemente
accelerato: lo sviluppo industriale ed economico metteva a
disposizione dei belligeranti mezzi di distruzione estremamente
potenti. Per la prima volta la fitta rete delle comunicazioni
ferroviarie e stradali, i collegamenti telefonici e telegrafici
furono utilizzati sull'intera rete continentale, per scopi bellici.
Le più recenti invenzioni tecniche e scientifiche furono rapidamente
riconvertite in strumenti di morte. In primo luogo la chimica, con
l'uso di gas asfissianti, con l'invenzione del motore a scoppio si
semplificava il trasporto delle truppe e si costruì una nuova e
potente arma, la cui efficacia fu riconosciuta al fine del conflitto:
il carro armato. Altra nuova invenzione fu l'arma aerea, sia per la
ricognizione che per i bombardamenti dall'alto (e i primi furono
gli italiani in Libia durante la guerra italo-turca del 1911/12).
Tutti gli apparati interni furono utilizzati: gli scienziati, furono
impegnati fino allo spasimo nelle ricerche, le tecniche di
organizzazione furono perfezionate e tutto l'apparato industriale fu
sconvolto dalla pressione di una domanda di prodotti bellici
travolgente.
La produzione divenne un interesse
diretto dello stato, un elemento decisivo della sua sicurezza e
in quanto tale fu assoggettata al controllo pubblico. Requisizioni,
ripartizioni pubbliche delle materie prime, militarizzazione dei
lavoratori, furono gli aspetti più evidenti della nuova situazione.
Nasce così l'economia moderna:
programmata, centralizzata, pianificata e organizzata dallo stato,
quindi un colpo mortale al modello liberale e liberista.
Il 1917 sarà un anno tragico e
cruciale per le sorti del conflitto. La guerra si sta protraendo da
troppo tempo e popoli ed eserciti sono ormai materialmente e
moralmente stremati; tuttavia non se ne vede la fine. Gli scarsi
risultati ottenuti, gettano in una crisi profonda gli eserciti. Sui
diversi fronti si diffondono gli ammutinamenti dei soldati. Le
gerarchie militari dei paesi belligeranti, per garantire la
disciplina, ordinano un gran numero di fucilazioni. Nell'esercito
italiano, dopo la rotta di Caporetto di novembre, saranno fucilati
anche un gran numero di ufficiali, una barbarie che denuncia quanto
vacillasse il potere centrale.
A Mosca scoppia la rivolta di febbraio
e in tutto l'impero zarista dilaga la rivoluzione russa, che rovescia
il governo dell'impero zarista e che con la presa del potere
bolscevica nella rivoluzione d'ottobre porta alla formazione della
Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, mentre cinque anni
più tardi, nel 1922, in seguito alla guerra civile russa, costituirà
l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dove, formalmente,
Lenin applicherà le teorie sociali ed economiche di Karl Marx e
Friedrich Engels, messe nel cassetto poi dall'imperialismo di Stalin.
La Russia uscirà così dal sistema
degli stati europei. Dalla Rivoluzione russa nascerà una nuova
frattura nel continente; al sistema capitalistico degli stati
occidentali si contrapporrà il nuovo sistema comunista sovietico,
che nel biennio 1919-21 ispirerà in tutta l’Europa la nascita
dei partiti comunisti e, in alcuni paesi (Germania, Ungheria,
Italia), tentativi rivoluzionari, tutti peraltro falliti. Di
fronte al pericolo rosso le potenze europee favoriranno
l’affermazione di regimi autoritari di destra, soprattutto negli
stati confinanti con l’Unione Sovietica, secondo la politica del
“cordone sanitario”.
Il 12 novembre 1920, il liberale Giovanni Giolitti, con il Trattato di Rapallo, raggiunge un accordo con gli jugoslavi: l'Italia acquisirà quasi per intero il litorale ex-austriaco comprendente le città di Gorizia e Trieste col loro circondario, nonché la quasi totalità dell'Istria e le isole quarnerine di Cherso e Lussino. Della Dalmazia promessa col patto di Londra all'Italia andranno la città di Zara, le isole di Làgosta e Cazza e l'arcipelago di Pelagosa. Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Fiume veniva riconosciuta città indipendente, ma D'Annunzio non riconobbe validità al Trattato di Rapallo giungendo a dichiarare guerra all'Italia: il poeta e la formazione irregolare di Arditi vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze armate italiane (cosiddetto Natale di sangue della fine di dicembre del 1920).
L'11 febbraio 1917, Antonio Gramsci
scrive: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere
partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e
partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è
vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della
storia... ...Odio gli indifferenti anche per questo:
perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la
vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e
specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere
inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover
spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle
coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città
futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale
non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al
caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è
in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si
sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non
parteggia, odio gli indifferenti”.
Sul fronte italiano, dopo una lunga serie di inconcludenti battaglie, si verifica l'offensiva degli austro-ungarici e dei contingenti tedeschi venuti dal fronte russo, dove il conflitto era terminato per via della Rivoluzione d'Ottobre, che nella battaglia di Caporetto dell'ottobre-novembre 1917 costringe gli italiani alla ritirata fino alle rive del fiume Piave, dove la resistenza italiana si consolida. Alla rotta segue una lunga serie di fucilazioni di militari e di un gran numero di ufficiali, barbarie che denota quanto vacillasse il potere centrale.
Alla fine del 1917, dopo la rivoluzione bolscevica d'ottobre, disintegrato l'impero degli zar, il governo rivoluzionario russo decide di uscire dallo stato di guerra, firmando poi il Trattato di Brest Litovsk con gli imperi centrali il 3 marzo '18, mentre da immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi. Tra di essi si rinviene il "Patto di Londra", la cui pubblicazione avrà vasta risonanza internazionale, causando grave imbarazzo alle potenze firmatarie e suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica mondiale, ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Patto di Londra darà il via ad una modifica degli orientamenti politici internazionali che influirà notevolmente sulla sua non completa attuazione a guerra finita. La risoluta opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, dei suoi celebri "Quattordici punti" e, non a caso, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi, alcuna validità. La rivoluzione d'ottobre segnerà inoltre una nuova e definitiva frattura nel continente: al sistema capitalistico degli stati europei e statunitensi, si oppone il nuovo sistema comunista sovietico.
Il 3 novembre viene siglato l'armistizio di Villa Giusti, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino a Padova, sede del quartier generale italiano, fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia in rappresentanza dell'Intesa. L'Impero austro-ungarico si dissolve e terminano le ostilità, costate alle forze armate italiane circa 650.000 caduti e un milione di feriti.
Il 4 novembre è la data del bollettino della vittoria firmato dal gen. Armando Diaz e per l'Italia si conclude la I guerra mondiale. «Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 Bollettino di guerra n. 1268 La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito»
Carta del fronte italiano, da Caporetto al Piave. Da https://it.wikipedia.org/ wiki/ Battaglia_di_Caporetto#/media / File:Battle_of_Caporetto_IT.svg |
Alla fine del 1917, dopo la rivoluzione bolscevica d'ottobre, disintegrato l'impero degli zar, il governo rivoluzionario russo decide di uscire dallo stato di guerra, firmando poi il Trattato di Brest Litovsk con gli imperi centrali il 3 marzo '18, mentre da immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi. Tra di essi si rinviene il "Patto di Londra", la cui pubblicazione avrà vasta risonanza internazionale, causando grave imbarazzo alle potenze firmatarie e suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica mondiale, ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Patto di Londra darà il via ad una modifica degli orientamenti politici internazionali che influirà notevolmente sulla sua non completa attuazione a guerra finita. La risoluta opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, dei suoi celebri "Quattordici punti" e, non a caso, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi, alcuna validità. La rivoluzione d'ottobre segnerà inoltre una nuova e definitiva frattura nel continente: al sistema capitalistico degli stati europei e statunitensi, si oppone il nuovo sistema comunista sovietico.
Carta della battaglia finale del Piave con Vittorio Veneto. Da Speciale "La Stampa" del 16 gennaio 1914. |
A fine ottobre 1918, la pressione italiana e il cedimento di un esercito austriaco, ormai politicamente e moralmente minato da processi disgregativi, spalancano alla conquista italiana le terre del Veneto e del Friuli con la successiva presa di Trento e Trieste nei primi giorni di novembre. L'Italia, che è riuscita a riprendersi dalla rotta di Caporetto del novembre'17, avvenuta per la sottovalutazione dei movimenti delle armate austro-tedesche a nord del fronte giuliano, e che ha resistito vittoriosamente agli attacchi nemici sulla linea del Piave e del Grappa, con l'avvicendamento al comando del gen. Diaz sferra la decisiva controffensiva di Vittorio Veneto fino alla rotta delle forze austro-ungariche e tedesche. Nei primi giorni di novembre la vittoria si completa con la presa di Trento e Trieste.
Il 3 novembre viene siglato l'armistizio di Villa Giusti, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino a Padova, sede del quartier generale italiano, fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia in rappresentanza dell'Intesa. L'Impero austro-ungarico si dissolve e terminano le ostilità, costate alle forze armate italiane circa 650.000 caduti e un milione di feriti.
Il gen. Armando Diaz al fronte. |
Le guardie rosse durante un'occupazione. |
Nel 1.919, in Italia, inizia il biennio rosso degli scioperi indetti dai socialisti, che erano stati in non interventisti riguardo alla Grande Guerra, quando invece la maggioranza dei socialisti europei aveva rinnegato le scelte della seconda internazionale del 1889 per lanciarsi in un conflitto suicida, dettato da motivazioni nazionalistiche. Mentre la presa del potere dei bolscevichi, nell'ambito della rivoluzione russa d'ottobre del 1917, aveva rigenerato l'ideale socialista europeo, spinto dall'idea leninista di un'esportazione mondiale della presa del potere da parte della classe operaia, in Italia divampa il "biennio rosso", locuzione con cui viene comunemente indicato il periodo compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920. In tale periodo si verificarono, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione. Le agitazioni si estesero anche alle zone rurali e furono spesso accompagnate da scioperi, picchetti e scontri. Una parte della storiografia estende la locuzione ad altri paesi europei, interessati, nello stesso periodo, da analoghi moti. L'espressione "biennio rosso" entrò nell'uso comune già nei primi anni venti, con accezione negativa; venne utilizzata da pubblicisti di parte borghese per sottolineare il grande timore suscitato, nelle classi possidenti, dalle lotte operaie e contadine, e quindi per giustificare la reazione fascista che ne seguì. Negli anni settanta, il termine "biennio rosso", questa volta con connotazioni positive, venne ripreso da una parte della storiografia, politicamente impegnata a sinistra, che incentrò la sua attenzione sulle agitazioni del 1919-20, considerandole come uno dei momenti di più forte scontro di classe e come esperienza esemplare nella storia delle relazioni che intercorrono fra l'organizzazione della classe operaia e la spontaneità delle sue lotte. L'economia italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la guerra, che si protrasse a lungo; infatti, nel biennio 1917-1918 il reddito nazionale netto era sceso drasticamente, e rimase, fino a tutto il 1923, ben al di sotto del livello d'anteguerra, mentre il tenore di vita delle classi popolari era, durante la guerra, nettamente peggiorato. Secondo una statistica, dando il valore 100 al livello medio dei salari reali nel 1913, questo indice era sceso a 64,6 nel 1918. Nell'immediato dopoguerra si verificarono inoltre un ingentissimo aumento del debito pubblico, un forte aggravio del deficit della bilancia dei pagamenti, il crollo del valore della lira e un processo inflativo che portò con sé la repentina diminuzione dei salari reali. Il peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari (già duramente provate dalla guerra) fu la causa immediata dell'ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle città sia nelle campagne, compresi i pubblici dipendenti, cosicché l'anno 1919 totalizzò complessivamente in Italia oltre 1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti. Mentre gli operai scioperavano prevalentemente per ottenere aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro (la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere fu ottenuta, nelle grandi industrie, nell'aprile 1919), gli scioperi nelle campagne, che coinvolsero nel 1919 più di 500.000 lavoratori, ebbero obiettivi diversi a seconda delle categorie: i sindacati dei braccianti lottavano per ottenere il monopolio del collocamento e l'imponibile di manodopera, mentre mezzadri e salariati fissi cercarono di ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti a loro più favorevoli; contemporaneamente si verificarono, soprattutto nel Lazio e nel meridione, importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari. Si ebbe un'ondata di moti contro il carovita (in Toscana ricordati come "Bocci-Bocci") che attraversò tutta la penisola tra la primavera e l'estate del 1919, cui il governo non riuscì a mettere un freno. Come in tutta l'Europa post-bellica, anche in Italia gli ex combattenti, costituiti in proprie associazioni, divennero un elemento importante del quadro politico. Le associazioni di reduci in Europa erano caratterizzate da alcune istanze comuni a tutte: la difesa del prestigio internazionale del proprio paese e la rivendicazione di importanti riforme politiche e sociali. In Italia gli orientamenti politici degli ex combattenti furono vari.
Il 21 marzo 1919 Benito Mussolini fonda il Fascio Milanese di Combattimento e i 120 uomini che danno vita al movimento verranno detti poi Sansepolcristi dal nome della piazza nella quale avvenne la riunione. Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista Italiano e convertito alle idee del nazionalismo e della prima guerra mondiale, riuscì a fondere la confusa congerie di idee, aspirazioni, frustrazioni degli ex combattenti reduci dalla dura esperienza della guerra di trincea, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria che subito si contraddistinse per la violenza dei metodi impiegati contro gli oppositori. In questo clima nacque il fascismo, ufficialmente il 23 marzo 1.919 a Milano. Quel giorno a piazza San Sepolcro, all'interno di Palazzo Castani – sede in quel tempo del Circolo per gli Interessi Industriali, Commerciali e Agricoli della provincia di Milano – i cui locali erano stati presi in affitto – si radunò un piccolo gruppo di circa 120 ex combattenti, interventisti, arditi e intellettuali, che fondarono i Fasci italiani di combattimento. Il programma di questo gruppo fu essenzialmente volto alla valorizzazione della vittoria sull'Austria Ungheria, alla rivendicazione dei diritti degli ex-combattenti, al "sabotaggio con ogni mezzo delle candidature dei neutralisti". Seguì quindi un programma economico-sociale che prevedeva, fra l'altro, l'abolizione del Senato, tasse progressive, pensione a 55 anni, giornata lavorativa di otto ore, abolizione dei Vescovati, sostituzione dell'Esercito con una milizia popolare. Dopo il primo congresso nazionale, tenutosi a Firenze nell'ottobre 1.919, i Fasci italiani di combattimento si presentarono alle elezioni politiche italiane del 1.919, nella circoscrizione di Milano, con una lista capeggiata da Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti, senza ottenere alcun seggio, avendo raccolto solo 4.795 voti, su circa 370.000. Le violenze perpetrate dallo squadrismo fascista durante il convulso periodo del biennio rosso in Italia, di cui l'esempio più famoso fu l'assalto all'Avanti!, costituirono una violenta offensiva contro i sindacati e i partiti di ispirazione socialista (ma anche cattolici), in particolar modo nel centro-nord d'Italia (soprattutto Emilia-Romagna e Toscana), causando numerose vittime nella sostanziale indifferenza delle forze di polizia. Il movimento fu appoggiato anche da diversi personaggi come Dino Grandi, l'unico accreditato competitore di Mussolini per la leadership all'interno del movimento.
Solo una minoranza di ex combattenti aderì ai Fasci di combattimento; molti di più furono i reduci che diedero il proprio consenso alle idealità democratiche espresse dai "quattordici punti" del presidente statunitense Woodrow Wilson.
L'Associazione Nazionale Combattenti, nel suo congresso di fondazione che ebbe luogo nell'aprile 1919, propose l'elezione di un'Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di deliberare un nuovo assetto democratico dello Stato. Una parte della storiografia ha ritenuto che l'incomprensione e l'ostilità, che il Partito Socialista riservò in quegli anni alle istanze espresse dai reduci, abbiano contribuito a spingere questi ultimi a destra, verso il nazionalismo e il fascismo. Un'altra parte della storiografia ha rilevato, tuttavia, che l'atteggiamento socialista di opposizione alla guerra era in continuità con il pacifismo e il neutralismo che tale partito aveva già espresso prima e durante il grande conflitto, atteggiamento che era d'altronde largamente condiviso dai suoi elettori e che il partito molto difficilmente avrebbe potuto sconfessare a guerra finita. Peraltro, sia nel 1915 sia nel 1919 l'orientamento neutralista (che fosse di matrice cattolica, giolittiana o socialista) era quello ampiamente maggioritario in Italia, cosicché l'interventismo e il bellicismo finirono per assumere più facilmente un carattere antidemocratico. Due furono, comunque, i principali orientamenti politici nei quali si articolò il movimento degli ex combattenti: uno più radicale, che trovò espressione nell'associazione degli arditi e nei nazionalisti estremisti come D'Annunzio, Marinetti e Mussolini e un secondo orientamento più moderato, rappresentato dalla Associazione Nazionale Combattenti, la quale in politica estera non condivideva lo sciovinismo dei nazionalfascisti mentre in politica interna era piuttosto vicina alle posizioni di Nitti e di Salvemini. Gli ex combattenti furono anche protagonisti, in quegli anni, di importanti lotte sociali, soprattutto nell'Italia meridionale: specialmente in Calabria, in Puglia e nel centro-ovest della Sicilia ebbero luogo rilevanti occupazioni di terre già facenti parti di latifondi, per un'estensione che è stata stimata fra i quarantamila e i cinquantamila ettari nel biennio 1919-20; questi movimenti furono spesso guidati dalle associazioni dei reduci, a differenza dell'Italia settentrionale, dove i moti contadini ebbero prevalente carattere bracciantile e furono perlopiù egemonizzati dai socialisti.
Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti (antifascista, fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Italiano e il primo nato dopo l'unità d'Italia), sottoscrive il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali e le parti del Tirolo comprendenti Cortina d'Ampezzo e le odierne Province Autonome di Bolzano e di Trento furono annesse al Regno d'Italia.
Foto segnaletiche di Mussolini in Svizzera. Da @CorriereBologna. |
Solo una minoranza di ex combattenti aderì ai Fasci di combattimento; molti di più furono i reduci che diedero il proprio consenso alle idealità democratiche espresse dai "quattordici punti" del presidente statunitense Woodrow Wilson.
L'Associazione Nazionale Combattenti, nel suo congresso di fondazione che ebbe luogo nell'aprile 1919, propose l'elezione di un'Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di deliberare un nuovo assetto democratico dello Stato. Una parte della storiografia ha ritenuto che l'incomprensione e l'ostilità, che il Partito Socialista riservò in quegli anni alle istanze espresse dai reduci, abbiano contribuito a spingere questi ultimi a destra, verso il nazionalismo e il fascismo. Un'altra parte della storiografia ha rilevato, tuttavia, che l'atteggiamento socialista di opposizione alla guerra era in continuità con il pacifismo e il neutralismo che tale partito aveva già espresso prima e durante il grande conflitto, atteggiamento che era d'altronde largamente condiviso dai suoi elettori e che il partito molto difficilmente avrebbe potuto sconfessare a guerra finita. Peraltro, sia nel 1915 sia nel 1919 l'orientamento neutralista (che fosse di matrice cattolica, giolittiana o socialista) era quello ampiamente maggioritario in Italia, cosicché l'interventismo e il bellicismo finirono per assumere più facilmente un carattere antidemocratico. Due furono, comunque, i principali orientamenti politici nei quali si articolò il movimento degli ex combattenti: uno più radicale, che trovò espressione nell'associazione degli arditi e nei nazionalisti estremisti come D'Annunzio, Marinetti e Mussolini e un secondo orientamento più moderato, rappresentato dalla Associazione Nazionale Combattenti, la quale in politica estera non condivideva lo sciovinismo dei nazionalfascisti mentre in politica interna era piuttosto vicina alle posizioni di Nitti e di Salvemini. Gli ex combattenti furono anche protagonisti, in quegli anni, di importanti lotte sociali, soprattutto nell'Italia meridionale: specialmente in Calabria, in Puglia e nel centro-ovest della Sicilia ebbero luogo rilevanti occupazioni di terre già facenti parti di latifondi, per un'estensione che è stata stimata fra i quarantamila e i cinquantamila ettari nel biennio 1919-20; questi movimenti furono spesso guidati dalle associazioni dei reduci, a differenza dell'Italia settentrionale, dove i moti contadini ebbero prevalente carattere bracciantile e furono perlopiù egemonizzati dai socialisti.
Le Venezie ottenute con i trattati di Saint-Germain e Rapallo. |
Il 12 settembre 1919 , alcuni Arditi, ex-combattenti italiani, guidati dal poeta D'Annunzio, occupano militarmente la città di Fiume chiedendone l'annessione all'Italia.
Il 13 giugno 1920 cade il governo Nitti, poiché impotente contro D'Annunzio e si instaura il quinto e ultimo governo Giolitti, che riuscirà a sbloccare la situazione.Il 12 novembre 1920, il liberale Giovanni Giolitti, con il Trattato di Rapallo, raggiunge un accordo con gli jugoslavi: l'Italia acquisirà quasi per intero il litorale ex-austriaco comprendente le città di Gorizia e Trieste col loro circondario, nonché la quasi totalità dell'Istria e le isole quarnerine di Cherso e Lussino. Della Dalmazia promessa col patto di Londra all'Italia andranno la città di Zara, le isole di Làgosta e Cazza e l'arcipelago di Pelagosa. Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Fiume veniva riconosciuta città indipendente, ma D'Annunzio non riconobbe validità al Trattato di Rapallo giungendo a dichiarare guerra all'Italia: il poeta e la formazione irregolare di Arditi vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze armate italiane (cosiddetto Natale di sangue della fine di dicembre del 1920).
Don Luigi Sturzo |
Con l'avvio del biennio rosso e
la fondazione dei fasci di combattimento, l'Unione nazionale
di Carlo Ottavio Cornaggia Medici si scinde dal Partito Popolare
Italiano.
Il 16 novembre 1919 si svolgono nel
Regno d'Italia le diciottesime elezioni politiche,
per la prima volta si adotta un sistema elettorale
proporzionale. Nessun partito riuscirà a presentarsi in tutti
i 54 collegi in cui era divisa l'Italia. Solo il PSI e il PPI
riuscirono a presentarsi in modo uniforme in 51 collegi col medesimo
contrassegno, rispettivamente la falce e martello e lo scudo
crociato. Tutte le altre forze politiche si presentarono con nomi
e simboli diversi da collegio a collegio. Si potevano contare 281
simboli per 1.260 candidati, di cui 252 eletti.
Su una popolazione stimata in
38.800.000 residenti (35.841.563 nel 1911 e 39.396.757 nel 1921), gli
aventi diritto al voto sono 10.239.326 uomini, pari al 26,39%
della popolazione e di cui i votanti sono 5.793.507, pari al
56,58% degli aventi diritto.
Per
la prima volta, il partito liberale è nettamente ridimensionato,
visto che i cattolici adesso votano per il loro partito,
il Partito Popolare e il partito più votato
è quello socialista.
Francesco Saverio Nitti |
Partiti voti % voti seggi
Partito Socialista
Italiano 1.834.792 32,28 156
Partito Popolare
Italiano 1.167.354 20,53 100
Liste liberali,
democratici e radicali 904.195 15,91 96
Liste del partito
democratico 632.310 10,95 60
Liste del partito
liberale 490.384 8,63 41
Liste del partito
dei combattenti 232.923 4,10 20
Liste del part.
radicale + radicali ind. 110.697 1,95 12
Liste del partito
economico 87.450 1,54 7
Liste del Part.
Soc. Rif.+Un.Soc. 82.172 1,45 6
Liste radicali,
rep., soc., combattenti 65.421 1,15 5
Liste del partito
repubblicano 53.197 0,94 9
Liste socialiste
indipendenti 33.948 0,60 1
Totale 5.684.833 100 su 508 seggi. Prosegue il
governo del radicale Francesco Saverio Nitti.
Nel 1920 è in corso una battaglia
parlamentare fra i socialisti (che dichiaravano che in certi
casi il divorzio «in virtù dei soli principi religiosi non
si può rigettare») e il Partito popolare italiano, cioè i
cattolici, che di
divorzio non volevano sentire parlare.
Intanto prosegue il biennio rosso, A Fiume, il 20 aprile 1.920, gli autonomisti di Riccardo Zanella, ostili ai legionari dannunziani, con l'appoggio dei socialisti, proclamano lo sciopero generale.
Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori sono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l'aumento del prezzo del pane indebolì il governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1.920 per lasciare il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari sia tra i manifestanti. Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista L'Ordine Nuovo, ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista. » (1.926, Antonio Gramsci)
Il 15
gennaio 1921 a Livorno si apre il XVII Congresso Nazionale del
Partito socialista che termina con la scissione della componente
comunista che il 21 gennaio darà vita al Partito comunista
d'Italia. Tra i fondatori del
nuovo partito, vi sono personaggi di spicco, messisi in evidenza
durante i moti del biennio rosso, come Amadeo Bordiga e Antonio
Gramsci.
Le espansioni della rivolta dei bersaglieri. |
Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori sono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l'aumento del prezzo del pane indebolì il governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1.920 per lasciare il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari sia tra i manifestanti. Nel marzo 1.920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1.920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista L'Ordine Nuovo, ammise la momentanea sconfitta: « La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria. » (Antonio Gramsci)
Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1.920. La scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso una occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Fu indetto uno sciopero da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie e infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.
Le occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e della sua incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare. Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche: « Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni. » (Giovanni Giolitti)
Antonio Gramsci. |
La vicenda dell'occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l'accordo.
In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l'occupazione delle fabbriche come emblematica di un'epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato - secondo questa interpretazione - solo dall'avvento al potere di Mussolini. Su questo argomento, abbiamo già visto l'opinione espressa da Gramsci nel 1.926, secondo la quale la rivoluzione fallì solo a causa dell'insipienza dei dirigenti socialisti. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l'occupazione delle fabbriche avesse realmente la possibilità di costituire l'occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa.
Nelle elezioni amministrative del novembre 1.920, il Partito socialista italiano ottenne ancora un successo, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2.022 comuni su 8.346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell'Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l'assistenza sociale, la riscossione e l'impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune. Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1.919. Nelle elezioni amministrative del 1.920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti "blocchi nazionali" o "blocchi patriottici" che spesso comprendevano anche i fascisti. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie.
L'avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l'altro, dall'atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra. Ad esempio Piero Operti, che nell'ottobre 1.920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un'aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate. Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell'epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali. Di fatto, verso la fine del 1.920, dopo la conclusione della vicenda dell'occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale, iniziò la sua tumultuosa ascesa politica che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche.
Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio Rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell'epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell'ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone. La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l'episodio più efferato fu l'eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti, dove restarono uccisi undici braccianti, tra cui due donne.
Logo del Partito Comunista d'Italia |
Il 15
maggio 1921 si svolgono nel Regno d'Italia
le diciannovesime elezioni politiche.
Hanno diritto al voto tutti i cittadini di sesso maschile
maggiorenni, ovvero che abbiano compiuti i 21 anni. Rispetto alle
precedenti elezioni del 1919, in base al R.D. 2 aprile 1921, n. 320,
vengono tolte le limitazioni d'età agli elettori analfabeti e i
seggi sono aumentati da 508 a 535, suddivisi in 34 collegi
elettorali. Sono inoltre le prime elezioni a cui partecipano i
votanti dei territori neoannessi della Venezia Tridentina e della
Venezia Giulia. Su una popolazione di 39.396.757 residenti, hanno
diritto di voto 11.457.164
uomini, il 29,08% della popolazione,
di cui i votanti sono 6.701.496, pari al 58,4%.
Partiti voti %voti seggi
Partito Socialista
Italiano 1.631.435 24,7 123
Partito Popolare
Italiano 1.347.305 20,4 108
Blocchi Nazionali 1.260.007 19,7 105
Liberali
Democratici 684.855 10,4 68
Liberali 470.605 7,1 43
Partito
Democratico Sociale Italiano 309.191 4,7 29
Partito Comunista
d'Italia 304.719 4,6 15
Partito
Repubblicano Italiano 124.924 1,9 6
Partito
Democratico Riformista 122.087 1,8 11
Partito dei
Combattenti 113.839 1,7 10
Liste di slavi e
di tedeschi 88.648 1,3 9
Partito Economico 53.382 0,8 5
Socialisti
Indipendenti 37.892 0,6 1
Partito Dissidente
e Cristiano del Lavoro 29.703 0,4 0
Fasci di
combattimento 29.549 0,4 2
Totale 100 su 535 seggi. Nelle
elezioni del 1921 i Fasci italiani di combattimento si presentarono
nella lista Blocchi Nazionali, ed elessero 35 deputati, tra cui lo
stesso Mussolini, che
risultò terzo deputato più votato
d'Italia. L'elezione di tre deputati fascisti Farinacci, Grandi e
Bottai fu invalidata nel 1922, poiché tutti sotto l'età minima che
era di trent'anni al momento dell'elezione.
Il 4
luglio si instaura un governo retto dal socialista
riformista Ivanoe Bonomi, dal
26 febbraio 1922 seguiranno due governi del liberale Luigi Facta e il
31 ottobre 1922 sarà il fascista Benito Mussolini a
governare, fino al
1943.
Il
partito Popolare, che in quello stesso anno aveva ottenuto un buon
successo alle elezioni, era minato al suo interno per la eterogeneità
delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza del futuro papa Pio
XI (1922-1939) e del clero. Era quindi inevitabile quella scissione
nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione
del fascismo mentre l'altra, i
clericofascisti,
s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo.
Mussolini e i quadrumviri. |
Il 26 aprile si dissolve il partito radicale italiano con la
confluenza nel Partito Democratico Sociale Italiano
Il 24 ottobre, il
governo Facta non riesce ad arginare lo strapotere delle squadre
fasciste; Mussolini dichiara: "O ci daranno il potere o lo
prenderemo calando su Roma".
Il 28 ottobre
avviene la Marcia su Roma. Mussolini con i quadrumviri Bianchi,
Balbo, De Bono e De Vecchi, guida 14.000 camice nere nella capitale.
Il 31 ottobre,
Mussolini presenta al Re la lista dei ministri e il suo Governo
ottiene la fiducia del parlamento, votato anche dalle forze moderate
ed ottiene addirittura l'assenso di Giolitti. Mussolini diventa capo
del governo in Italia.
Il 16 novembre,
Mussolini tiene alla camera il famoso "discorso del bivacco".
« Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli:
potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente
di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
». Le squadre fasciste vengono trasformate nella Milizia
Volontaria.
Nel febbraio 1923 l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) si fonde con il Partito Nazionale Fascista (PNF), e da allora un'unità di destini la legò al fascismo italiano.
Il 6 aprile 1924 si svolgono le
ventesime elezioni politiche nel Regno d'Italia. Hanno
diritto di voto tutti i cittadini maggiorenni di sesso maschile. Sono
le uniche elezioni disciplinate dalla cosiddetta "legge
Acerbo" (n. 2444 del 18 novembre 1923), un proporzionale con
voto di lista e premio di maggioranza. Alla consultazione
partecipano 23 liste con 1306 candidati, di cui 346 sono deputati
uscenti e 41 avevano esercitato il loro mandato nel corso della XXV
Legislatura.
Oltre alla Lista Nazionale (nota anche
come "listone") e alla Lista Nazionale bis, si
presentano ben sette liste liberali e quattro liste democratiche di
opposizione, due liste socialiste, due liste autonomiste
(slavi-tedeschi e sardisti) e una lista ciascuna per popolari,
comunisti, repubblicani, demosociali ed agrari. Solo tre liste si
presentano in tutto il regno: la Lista Nazionale il cui leader è
Benito Mussolini, il Partito Popolare Italiano il cui leader è
Alcide De Gasperi e il Partito Socialista Unitario il cui leader è
Giacomo Matteotti, che il 10 giugno pronuncierà un vibrante
atto d'accusa contro il metodo violento fascista durante la
competizione elettorale, che gli costerà la vita. Su una
popolazione stimata in 39.900.000 residenti (39.396.757 censiti nel
1921 e 41.043.489 censiti nel 1931), hanno diritto di voto
11.939.452 uomini, pari al 29,92% della popolazione, di cui
votano in 7.614.451, il 63,78% degli aventi diritto. I voti nulli e
contestati non assegnati sono 448.949, il 6,27% mentre il quorum
premio è assegnato a 1.903.613 voti, il 25%.
Partiti voti % voti seggi
Lista Nazionale (PNFascista, destra,
liberal-nazionali, nazional-pop) 4.305.936 60,09 355
Lista Nazionale bis (fascisti
estremisti e fiancheggiatori fidati) 347.552 4,85 19
Partito Popolare Italiano 645.789 9,01 39
Partito Socialista Unitario 422.957 5,90 24
Partito Socialista Italiano 360.694 5,03 22
Partito Comunista d'Italia 268.191 3,74 19
Partito Repubblicano Italiano 133.714 1,87 7
Partito Democratico Sociale Italiano 111.035 1,55 10
Bandiera nazionale (liberali di
Giovanni Giolitti) 78.099 1,09 4
Orologio (liberali indipendenti Alfonso
Rubilli e Gianfranco Tosi) 74.317 1,04 4
Partito dei Contadini d'Italia 73.569 1,03 4
Stella nera (opposizione costituzionale
Giovanni Amendola) 72.941 1,02 8
Slavi e Tedeschi 62.491 0,87 4
Cavallo (opposizione cost. Vincenzo
Giuffrida: nittiani e socialriformisti) 45.365 0,63 5
Stella bianca (opposiz. Ivanoe Bonomi:
dem. autonomi, LDN, dissidenti) 33.473 0,47 -
Bandiera nazionale (liberali A.
Pezzullo, G. Barattolo e Giuseppe Toscano) 29.936 0,42 3
Bandiera nazionale e corona reale
(Camillo Corradini) 29.574 0,41 2
Partito Sardo d'Azione 24.059 0,34 2
Aquila sormontata da stella (fascisti
dissidenti R. Sala e Cesare Forni) 18.062 0,25 1
Bilancia (liberali Silvestro Graziano) 12.925 0,18 1
Etna (opposizione costituzionale Ettore
Lombardo Pellegrino) 6.153 0,09 1
Stemma di Bari (liberali indipendenti
Nicola De Grecis) 5.275 0,07 1
David fromboliere (liberali
indipendenti Giuseppe Maria Fiamingo) 3.395 0,05 -
Totale 7.165.502 100 su 535 seggi. In base alla nuova legge elettorale
(legge 18 novembre 1923 n. 2444, nota come "legge Acerbo"),
alla lista più votata a livello nazionale - purché avesse almeno il
25% - venivano assegnati i 2/3 dei seggi in tutte le circoscrizioni
(ciò significava l'elezione in blocco di tutti i candidati della
lista, essendo essi 356), mentre gli scranni rimanenti erano
assegnati alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti e secondo
ordine di preferenza personale. Il "listone", cui
spettavano 356 seggi, a causa della sopravvenuta morte di uno dei
suoi candidati, Giuseppe De Nava, perse un seggio a favore del PCI,
in quanto lista con maggiori resti. Dal 31 ottobre 1922
sarà il fascista Benito Mussolini a governare,
fino al 1943.
Giacomo Matteotti |
Il 27 luglio, i deputati
dell'opposizione, guidati da Giovanni Amendola, tranne i
membri del PCI, si ritirano dalla Camera nella speranza che
questo "Aventino" mandi in crisi il governo. Il
fascismo accusa il colpo, ma proprio la divisione tra comunisti e
"aventiniani" permette al governo di promulgare numerose
leggi a proprio favore.
Il 27 dicembre scoppia la bomba del
memoriale Rossi. L'ex capo dell'ufficio stampa del Duce accusa
Mussolini di essere il mandante dell'omicidio Matteotti.
In Russia, a seguito delle ferite
riportate in un attentato anni prima, muore Lenin.
Durante il 1924, il Centro Nazionale
Italiano di Paolo Mattei-Gentili ed Egilberto Martire, provocano
ulteriori scissioni nel Partito Popolare Italiano.
Il 3 gennaio 1925 Mussolini, con
un discorso alla camera dei deputati, si accolla tutte le
responsabilità delle violenze fasciste. Si instaura così il
regime dittatura fascista con le sue caratteristiche violente ed
antidemocratiche. « Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e
al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è
avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un
uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che
olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della
migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato
un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione
a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un
determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la
responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e
morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad
oggi. »
Questo discorso prelude all'avvento
della dittatura.
Il 4 novembre 1925 Tito Zaniboni,
ex deputato socialista, attenta alla vita di Mussolini, ma il
suo gesto viene sventato dall'intervento della polizia.
Nel biennio 1925-1926 vengono emanati
una serie di provvedimenti liberticidi: sono sciolti tutti i
partiti e le associazioni sindacali non fasciste, venne soppressa
ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata
la pena di morte e venne creato un Tribunale speciale con amplissimi
poteri, in grado di mandare al confino, con un semplice provvedimento
amministrativo, le persone sgradite al regime.
Il 24 dicembre 1925 una legge cambia
le caratteristiche dello stato liberale: Benito Mussolini cessa
di essere presidente del Consiglio, cioè primus inter pares tra i
ministri e diventa primo ministro segretario di Stato, nominato dal
re e responsabile di fronte a lui e non più al Parlamento; a loro
volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo
ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo
ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà
essere discusso dal Parlamento senza l'approvazione del primo
ministro. Il 4 febbraio 1926 i sindaci elettivi vengono sostituiti da
podestà nominati con decreto reale, mentre gli organi elettivi quali
consigli e giunte vengono sostituiti da consulte comunali di nomina
prefettizia. Il 16 marzo 1928 la Camera dei deputati è chiamata a
votare il criterio per il rinnovo della rappresentanza nazionale. Il
criterio prevede una lista unica di 400 candidati scelti dal Gran
Consiglio del Fascismo su proposta dalle organizzazioni dei
lavoratori e dei datori di lavoro nonché da altre associazioni
riconosciute. Gli elettori approveranno o meno tale lista. La riforma
passa, quasi senza discussioni, con 216 sì e 15 no. Giolitti è uno
dei pochi a protestare, ma viene messo subito a tacere da Mussolini
con la frase: «Verremo da lei a imparare come si fanno le elezioni».
Al Senato del Regno le proteste sono leggermente più animate, ma la
legge passa con 161 favorevoli e 46 contrari. L'8 dicembre si chiude
così la 28ma legislatura.
Inizialmente benvisti da Mussolini, i
clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal
fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche
ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti
Lateranensi del 1929.
L'11 febbraio 1929 si stipulano i
“Patti Lateranensi” (nome che deriva dal palazzo di San Giovanni
in Laterano, in cui avvenne la firma dei patti), gli accordi di mutuo
riconoscimento tra il Regno d'Italia e la Santa Sede, grazie ai
quali per la prima volta dall'Unità d'Italia, sono stabilite
regolari relazioni bilaterali tra Italia e Santa Sede.
I Patti furono negoziati tra il cardinale Segretario di Stato Pietro
Gasparri per conto della Santa Sede e il presidente del Consiglio dei
ministri nonché Duce d'Italia Benito Mussolini per conto del Regno
d'Italia. Il rapporto tra Stato e Chiesa era precedentemente
disciplinato unilateralmente dalla cosiddetta «legge delle
Guarentigie», approvata dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871
dopo la presa di Roma ma mai riconosciuta dai Pontefici, da Pio IX in
poi, per cui la somma stanziata anno per anno dal governo italiano
veniva conservata in un apposito conto, in attesa di concludere un
accordo con la Santa Sede.
I Patti Lateranensi constano di tre
distinti documenti:
- il primo riconosce l'indipendenza e
la sovranità della Santa Sede ed è l'atto fondativo dello
Stato della Città del Vaticano;
- il secondo, la "Convenzione
Finanziaria", prevede un risarcimento di 750 milioni di lire
a beneficio della Chiesa. Regola quindi le questioni sorte dopo
le spoliazioni degli enti ecclesiastici a causa delle leggi eversive,
- terzo, il Concordato che
definisce le relazioni civili e religiose in Italia tra la
Chiesa e il Governo, mentre fino a quel momento, dalla nascita del
Regno d'Italia, le relazioni fra i due enti erano sintetizzate nel
motto: «libera Chiesa in libero Stato». È inoltre prevista
l'esenzione, per il nuovo Stato denominato «Città del
Vaticano», dalle tasse e dai dazi sulle merci
importate e il risarcimento di "1 miliardo e 750
milioni di lire e di ulteriori titoli di Stato consolidati al 5
per cento al portatore, per un valore nominale di un miliardo di
lire" per i danni finanziari subiti dallo Stato
pontificio in seguito alla fine del potere temporale.
Il governo italiano acconsentì
inoltre a rendere le proprie leggi
sul matrimonio e il
divorzio conformi a quelle
della Chiesa cattolica di Roma (Mussolini si pronuncia
contro il divorzio e dovettero passare 34 anni prima che la legge sul
divorzio venisse rimessa in discussione) e di rendere il clero esente
dal servizio militare. I Patti garantirono alla Chiesa il
riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato in
Italia, con importanti conseguenze sul sistema scolastico
pubblico, come l'istituzione dell'insegnamento della religione
cattolica, già presente dal 1923 e tuttora esistente seppure con
modalità diverse. Con i Patti Lateranensi sembra acquietarsi lo
scontro tra la Chiesa e lo Stato fascista, che raccoglie un vasto
consenso popolare dalla pacificazione con il papa e le gerarchie
ecclesiali, anche se l'imprevedibilità e il populismo insiti in
Mussolini rendevano poco affidabile quella politica di «buon
vicinato» che i cattolici si auguravano.
Fronte della scheda elettorale del sì |
Gli elettori potevano votare SÌ o NO
per approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del
Fascismo. L'elettore veniva fornito di due schede di uguali
dimensioni, bianche all'esterno, recanti all'interno la formula:
"Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran
Consiglio Nazionale del Fascismo?"; nella scheda con il SI
l'interno era anche corredato da due bande tricolore, in quella con
il NO la scheda si presentava bianca.
L'elettore doveva al momento del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la scheda scartata per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la scheda prescelta affinché si assicurassero che essa fosse "accuratamente sigillata".
Questo farraginoso sistema aveva
di fatto un effetto inibitorio verso l'elettore che non poteva avere
una certezza assoluta sulla segretezza del voto, proprio a causa di
quest'ultimo passaggio, anche se formalmente la legge sembrava
garantire la riservatezza. In caso di vittoria dei NO si sarebbero
dovute ripetere le elezioni con l'ammissione di altre liste proposte
da enti o associazioni autorizzati dalla legge, con almeno 5000
firmatari aventi diritto al voto (Regio decreto nº 1993 del 2
settembre 1928, in particolare l'art. 57). Su una popolazione stimata
in 40.700.000 residenti (39.396.757 censiti nel 1921 e 41.043.489
censiti nel 1931), hanno diritto di voto 9.460.737 uomini,
pari al 23,24% della popolazione, di cui votano in 8.661.820,
il 91,5% degli aventi diritto... Un record!
L'elettore doveva al momento del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la scheda scartata per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la scheda prescelta affinché si assicurassero che essa fosse "accuratamente sigillata".
Retro della scheda elettorale del sì, con i colori che traspaiono. |
voti % voti
SÌ 8.517.838 98,33
NO 135.773 1,56
Nulle 8.209 0,11
Totale 8.661.820 100
Dal 31 ottobre 1922,
sarà il dittatore fascista Benito Mussolini a governare,
fino al 25 luglio 1943.
Nel 1931 emergono nuovi dissapori fra
Stato e Chiesa, quando il fascismo chiede la chiusura dell'Azione
Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di
presenza nella società.
Il 25 marzo 1934 si sarebbero dovute
svolgere le
ventiduesime elezioni politiche del
Regno d'Italia ma,
come nel 1929, la dittatura fascista impone un plebiscito. Il
Suffragio universale maschile vigente dal 1912 (il diritto al voto)
continua ad essere ristretto ai soli cittadini maschi iscritti a un
sindacato o a una associazione di categoria, in servizio permanente
nei corpi armati dello Stato, oltre ai religiosi e la votazione si
svolge di nuovo in forma plebiscitaria. Gli elettori potevano votare
SÌ o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran
Consiglio del Fascismo. L'elettore veniva fornito di due schede di
uguali dimensioni, bianche all'esterno, recanti all'interno la
formula: "Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran
Consiglio Nazionale del Fascismo?"; nella scheda con il SI
l'interno era anche corredato da due bande tricolore, in quella con
il NO la scheda si presentava bianca. L'elettore doveva al momento
del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina
elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la
scheda scartata per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la
scheda prescelta affinché si assicurassero che essa fosse
"accuratamente sigillata". Questo farraginoso sistema aveva
di fatto un effetto inibitorio verso l'elettore che non poteva avere
una certezza assoluta sulla segretezza del voto, proprio a causa di
quest'ultimo passaggio, anche se formalmente la legge sembrava
garantire la riservatezza. In caso di vittoria dei NO si sarebbero
dovute ripetere le elezioni con l'ammissione di altre liste proposte
da enti o associazioni autorizzati dalla legge, con almeno 5000
firmatari aventi diritto al voto (Regio decreto nº 1993 del 2
settembre 1928, in particolare l'art. 57). Su una popolazione stimata
in 41.855.000 residenti (41.043.489 censiti nel 1931 e 42.398.489 nel
1936), hanno diritto di voto
10.433.536 uomini, pari al 24,92% della popolazione,
di cui votano in 10.041.997, il 96,2%... Un ulteriore record!
voti % voti
SÌ 10.026.513 99,84
NO 15.265 0,15
Nulle 219 0,01
Totale 10.041.997 100
Il 3 ottobre 1935 scoppia la guerra
d'Etiopia o seconda guerra italo-etiopica (talvolta nota anche come
guerra d'Abissinia o campagna d'Etiopia), condotta dal Regno d'Italia
contro l'Impero d'Etiopia.
Le colonie italiane intorno al corno d'Africa con indicate le località di rilievo nelle guerre coloniali. |
Il 9 maggio 1936 si conclude il
conflitto, dopo sette mesi di combattimenti, l'invasione totale del
territorio etiope e con l'assunzione della corona imperiale da parte
di Vittorio Emanuele III (la cosiddetta "Proclamazione
dell'Impero"),. La guerra fu caratterizzata dall'utilizzo di
armi chimiche, su richiesta del maresciallo Pietro Badoglio, per casi
estremi e difensivi ed accolta da Mussolini. Peraltro le ostilità
non cessarono con la fine delle operazioni di guerra convenzionali,
ma si prolungarono con la crescente attività della guerriglia etiope
dei cosiddetti arbegnuoc ("patrioti") e con le dure
misure repressive attuate dall'Italia.
Gli effettivi impiegati nel conflitto
furono: 464.000 soldati italiani, 60.000 ascari eritrei, 25.000 dubat
somali, 7.800 ascari libici da parte del il Regno d'Italia e 300.000
uomini gli etiopici.
Le perdite fino al 31 dicembre 1936
furono: 3.731 soldati e 619 civili italiani morti (totale 4.350), tra
i 3.000 e i 4.500 ascari morti e circa 9.000 feriti per il Regno
d'Italia e circa 275.000 soldati morti con circa 500.000 feriti per
l'impero d'Etiopia.
L'aggressione dell'Italia contro
l'impero d'Etiopia, all'epoca uno dei due soli stati (assieme alla
Liberia) indipendenti dell'Africa, ebbe delle conseguenze anche da
parte della comunità internazionale che si espresse con delle
sanzioni economiche all'Italia fascista, che reagirà, vista
l'impossibilità ad importare merci, con l'autarchia, la
produzione in proprio di tutto quello che prima si importava.
Nel 1936, durante la Guerra civile
spagnola i clericali di tutta Europa si schierano
apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il
regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica
apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain.
Secondo un'altra versione, meno nota
della prima, di Edda Ciano (figlia di Mussolini e moglie di
Galeazzo Ciano) nemmeno il Duce, Benito Mussolini, intendeva allearsi
con la Germania di Hitler, nonostante il governo tedesco insistesse,
nella speranza di un'alleanza con Regno Unito e Francia. Così
Mussolini decise di proporre un'alleanza a Hitler con accordi
talmente svantaggiosi per i tedeschi da costringerlo a rifiutare. Il
delicatissimo compito fu affidato a Galeazzo Ciano. In questo modo
Mussolini sperava di ottenere altri tre o quattro anni durante i
quali l'Italia si sarebbe preparata militarmente ad un eventuale
conflitto in Europa, egli sperava inoltre che le democrazie
europee cambiassero idea riguardo la loro decisione nel 1935 (
dopo la Guerra d'Etiopia) di rompere i rapporti diplomatici con
l'Italia Fascista. Pur non essendo stabilita la data dell'inizio dei
conflitti, cosa che appariva ormai inevitabile, Benito Mussolini si
assicurò di comunicare più volte a Adolf Hitler che l'Italia non
sarebbe stata pronta alla guerra prima di due o tre anni, e
ribadendolo nell'agosto dello stesso anno, attraverso una lettera
conosciuta comunemente come "memoriale Cavallero", dal nome
dell'ufficiale incaricato di consegnare il messaggio.
1938, Mussolini ed Hitler in parata a Monaco il giorno prima della firma del Patto di Monaco, da Wikipedia. |
Il 18 settembre 1938, a Trieste, Benito
Mussolini, annuncia ed elenca dal balcone del Municipio, in occasione
della sua visita alla città, le leggi razziali fasciste,
un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi
(leggi, ordinanze, circolari, ecc.) rivolti prevalentemente - ma non
solo - contro le persone di religione ebraica, applicati inizialmente
dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Saranno
abrogate con i regi decreti-legge nn. 25 e 26 del 20 gennaio 1944,
emessi durante il Regno del Sud. La
legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra
italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie
dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le
pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere
pubblicistico - come banche e assicurazioni - di avere alle proprie
dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei
stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei
stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di svolgere la
professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte
le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei
ragazzi ebrei - che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non
vivessero in zone in cui i ragazzi ebrei erano troppo pochi per
istituire scuole ebraiche - nelle scuole pubbliche, il divieto per le
scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione
avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la
creazione di scuole - a cura delle comunità ebraiche - specifiche
per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare
solo in quelle scuole. Infine vi fu una serie di limitazioni da cui
erano esclusi i
cosiddetti arianizzati:
il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di
tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse
per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di
fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu
disposta l'annotazione dello stato di razza ebraica
nei registri dello stato civile.
Il 22 maggio 1939 si sigla il Patto
d'Acciaio (in tedesco Stahlpakt), un accordo tra i governi del
Regno d'Italia e della Germania nazista, firmato dai rispettivi
ministri degli Esteri, Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop. Viene
stipulato a Berlino nella Cancelleria del Reich, alla presenza di
Hitler e dello Stato Maggiore tedesco. Il patto stringe un'alleanza
sia "difensiva" sia "offensiva" fra i due Paesi.
Nello specifico le parti sono obbligate a fornire reciproco aiuto
politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che
mettano a rischio i propri "interessi vitali". Questo aiuto
sarebbe stato esteso al piano militare qualora si fosse scatenata una
guerra. Inoltre i due Paesi si impegnano a consultarsi
permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di guerra,
a non firmare eventuali trattati di pace separatamente. La durata del
trattato fu inizialmente fissata in dieci anni. Nell'ampio preambolo
veniva garantita l'inviolabilità della frontiera tra Reich e Regno
d'Italia del Passo del Brennero e si riconosceva l'esistenza di uno
"spazio vitale" dell'Italia che la Germania si impegnava a
non infrangere. Il patto propriamente detto, che fu subito reso
pubblico, era completato da un protocollo segreto nel quale si
rimarcava l'alleanza politica fra le due dittature e si dava accenno
ai metodi attraverso cui la collaborazione economica, militare e
culturale già prevista dal patto avrebbe dovuto implementarsi. Il
fatto che l'accordo avesse sia carattere difensivo che offensivo
costituiva una sostanziale novità nella storia delle relazioni
internazionali, in quanto la durata inusitata (dieci anni) e lo
sbilanciamento della potenza bellica delle due nazioni forniva alla
Germania il potere di iniziativa, che comportò la definitiva
soppressione dell'autonomia italiana circa la propria politica
estera. Alcuni membri del governo italiano, compreso il
firmatario Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, si erano
opposti al patto, ma invano.
Al riguardo lo stesso Ciano, nel
dicembre 1943, mentre era detenuto in vista del processo di Verona
che lo avrebbe condannato a morte, scrisse nelle note introduttive al
suo diario: « L'alleanza era stata firmata nel maggio. Io l'avevo
sempre avversata ed avevo fatto in modo che le persistenti offerte
tedesche fossero per lungo tempo rimaste senza seguito. Non vi era -
a mio avviso - nessuna ragione per legarci - vita e morte - alla
sorte della Germania nazista. Ero stato invece favorevole ad una
politica di collaborazione perché, nella nostra posizione
geografica, si può e si deve detestare la massa di ottanta
milioni di tedeschi, brutalmente piantata nel cuore dell'Europa,
ma non si può ignorarla. La decisione di stringere l'alleanza fu
presa da Mussolini, all'improvviso, mentre io mi trovavo a Milano con
Ribbentrop. Alcuni giornali americani avevano stampato che la
metropoli lombarda aveva accolto con ostilità il ministro tedesco e
che questa era la prova del diminuito prestigio personale di
Mussolini. Inde ira [da ciò l'ira]. Per telefono ricevetti l'ordine,
il più perentorio, di aderire alle richieste tedesche di alleanza,
che da più di un anno avevo lasciato in sospeso e che pensavo di
lasciarcele per molto tempo ancora. Così nacque il Patto d'acciaio.
E una decisione che ha avuto influenze tanto sinistre sulla vita e
sul domani dell'intero popolo italiano è dovuta, esclusivamente,
alla reazione dispettosa di un dittatore contro la prosa, del tutto
irresponsabile e senza valore, di alcuni giornalisti stranieri... »
Galeazzo Ciano |
Il 23 maggio, tuttavia, il giorno dopo
la firma del Patto d'Acciaio Hitler tenne un consiglio di guerra
segreto: all'ordine del giorno c'era l'attacco alla Polonia. Per i
tedeschi, il compito degli italiani doveva essere quello di
contenere la reazione di Francia e Inghilterra nel Mediterraneo.
L'emanazione delle leggi razziali e l'alleanza di Mussolini con
la Germania nazista e pagana, rendono sempre più tesi i rapporti fra chiesa e regime fascista.
Nel
1939, per la XXX legislatura non ci sono state elezioni
politiche, che avrebbero dovute
essere le ventitreesime del Regno d'Italia, neppure plebiscitarie, e
i membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni sono tutti
nominati.
Nel 1939, a pochi mesi dallo scoppio
della seconda guerra mondiale, è eletto papa Pio XII
(1939-1958), che passa da una dichiarata neutralità ad una
adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e
ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia
sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia.
1 settembre 1939. |
- L'Italia proclama la propria non belligeranza, mentre Francia e Gran Bretagna (definite poi gli Alleati) si schierano contro i tedeschi.
- Durante la seconda guerra mondiale, il clericalismo supporta i regimi di Jozef Tiso in Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.11 giugno 1940. |
- 28 giugno: Italo Balbo, camicia nera della prima ora, attuale governatore della Libia, viene abbattuto per errore dalla contraerea italiana nei cieli di Tobruk.
- 28 settembre: Italia, Germania e Giappone firmano il Patto Tripartito, e verranno definite le potenze dell'Asse.
- 15 ottobre: Mussolini inizia la disastrosa campagna contro la Grecia.- Viene pubblicato “Per chi suona la campana” di H. Hemingway.
Nel 1941, il 27 novembre, dopo la resa del duca Amedeo d'Aosta sull'Amba Alagi cadono le ultime forze italiane a Gondar, nell'Africa Orientale, segnando la fine dell'Impero. In pochi mesi l'esercito britannico, con la collaborazione della resistenza etiopica, libera il territorio etiopico dopo 5 anni di occupazione italo-fascista. La Germania invade l'Unione Sovietica.
Nel 1942, per la prima volta dall'inizio del conflitto, Mussolini fa un resoconto dei costi umani pagati fino a quel momento dall'Italia: 42.000 morti e 232.000 prigionieri.
L'inizio della disfatta della Germania nazista e dei suoi alleati è segnata dalla battaglia di Stalingrado, svoltasi tra l'estate del 1942 ed il 2 febbraio 1943, che oppose i soldati dell'Armata Rossa sovietica alle forze tedesche, italiane, rumene ed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd), sul fronte orientale.
Ubicazione di Stalingrado, oggi chiamata Volgograd, nel cerchietto rosso. |
La battaglia, iniziata nell'estate 1942 con l'avanzata delle truppe dell'Asse (tedeschi, italiani, rumeni ed ungheresi) fino al Don e al Volga, ebbe termine nell'inverno 1943, dopo una serie di fasi drammatiche e sanguinose, con l'annientamento della 6ª Armata tedesca rimasta circondata a Stalingrado e con la distruzione di gran parte delle altre forze germaniche e dell'Asse impegnate nell'area strategica meridionale del fronte orientale. Le truppe italiane furono massacrate e i pochi che tornarono, dovettero farlo a piedi, fra i ghiacci della steppa russa. Questa lunga e gigantesca battaglia, definita da alcuni storici come "la più importante di tutta la Seconda guerra mondiale", segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l'inizio dell'avanzata sovietica verso ovest che sarebbe terminata due anni dopo con la conquista del palazzo del Reichstag e il suicidio di Hitler nel bunker della Cancelleria durante la battaglia di Berlino. Quindi furono i sovietici i primi a vincere decisamente sui tedeschi e furono loro a prendere Berlino.
Nel 1943, il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo, con 19 voti a favore su 28, vota la mozione di sfiducia a Mussolini, che è invitato a rinunciare a tutte le sue cariche. Dino Grandi fu l'estensore dell'ordine del giorno che provocò la caduta di Mussolini. Fu decisivo infatti, il suo voto e fu essenziale la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo.
Nel 1943, il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo, con 19 voti a favore su 28, vota la mozione di sfiducia a Mussolini, che è invitato a rinunciare a tutte le sue cariche. Dino Grandi fu l'estensore dell'ordine del giorno che provocò la caduta di Mussolini. Fu decisivo infatti, il suo voto e fu essenziale la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo.
Da tempo, condiviso da Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, Grandi riteneva che una via d'uscita per evitare la disfatta militare dell'Italia avrebbe potuto sortire soltanto dalla sostituzione (ovvero dalla deposizione) del duce, che nell'identificazione personale con il Regime (Fascismo = Mussolini, e viceversa) aveva condotto, a loro vedere, l'idea fascista originaria ad essere condizionata e compromessa dai suoi errori. Ciano, invece, pragmaticamente vedeva davanti a sé una soluzione "all'italiana": Mussolini, disse al suo interlocutore, «se ne andrà e noi in qualche modo ci aggiusteremo». E previde anche le prossime attribuzioni di alcuni ministeri.
23 luglio 1943 |
Pietro Badoglio nel '34 |
È l'inizio della guerra civile tra partigiani antifascisti e "repubblichini" filo-nazisti.
Formazione di partigiani in movimento durante la Resistenza. |
Il sentimento diffuso, come conseguenza prima di questa penosa situazione, fu l’odio contro i tedeschi che già nel corso del tempo era venuto maturando fra le gente: il tedesco, sia pure nei pochi giorni di totale dominio, era stato un padrone brutale, ed era ora anche un padrone sconfitto, che fuggiva. Al sud, dopo l’armistizio, la popolazione era insorta contro i tedeschi. A Napoli la guerriglia esplose disordinata, improvvisata, ma insistente e spavalda: dal 27 al 30 settembre alcune centinaia di persone, tra cui molti scugnizzi irridenti e speso intrepidi, tennero sotto scacco le truppe tedesche in ritirata costringendo il loro comandante a firmare un accordo per cui gli insorti consentivano a lasciar partire senza molestie un reparto asserragliato al Vomero in cambio della restituzione dei civili catturati. E tuttavia, nelle quattro giornate di Napoli si contarono 66 vittime civili. Episodi analoghi di resistenza spontanea della popolazione si registrarono in varie altre località della Campania e della Basilicata: di particolare rilievo fu la sollevazione di Matera, ove undici ostaggi perdettero la vita, fatti saltare in aria con la caserma dove erano stati rinchiusi. Lo storico Roberto Battaglia attribuisce a queste azioni un alto contenuto sociale: non c’era solo la collera contro l’occupante, ma “un improvviso e quasi brusco risveglio ad un clima durissimo di combattimento e di sacrificio, già preannunciato e anticipato dagli episodi di rivolta contadina … verificatisi nelle stesse regioni durante l’ultima fase del regime fascista”. La Resistenza fu una sollevazione popolare, una reazione di massa nel momento in cui le sofferenze della guerra, i disagi gravissimi per la popolazione, le distruzioni delle città e le perdite di vite umane diedero agli italiani la tragica misura della brutale follia del fascismo e della profondità del baratro in cui esso aveva precipitato il Paese. Da quella ormai chiara percezione dell’immane catastrofe nacque la Resistenza, con il rinnovato bisogno di libertà, con il ritorno appassionato ai valori della democrazia, infine con il recupero di una dignità nazionale che sarà poi il motore della ricostruzione. Al diffuso sentimento e allo sforzo coraggioso, spesso eroico, della popolazione civile si affiancò l’impegno patriottico di quei corpi militari che, ricostituitisi dopo l’armistizio, andarono a combattere contro i tedeschi per la liberazione del paese. Questo profondo cambiamento dell’anima del popolo italiano, per più di venti anni smarritosi in larga maggioranza nell’adesione acritica ad una nefasta ideologia nazionalistica che lo ha aveva privato della libertà e dei diritti fondamentali di cittadinanza riconosciuti in tutti i paesi civili, fu pagato a caro prezzo.
Il 23 settembre, col nome di Stato Nazionale Repubblicano, fu costituita la Repubblica Sociale Italiana (o RSI, o Repubblica di Salò). Creata da Benito Mussolini, per espressa volontà di Adolf Hitler, dopo che il Regno d'Italia, nel contesto della Seconda guerra mondiale, aveva concluso il 3 settembre 1943 l'armistizio di Cassibile con le forze anglo-americane. Il suo primo consiglio dei ministri si tenne il 28 settembre 1943, alla Rocca delle Caminate, presso Forlì, per nominare i responsabili del nuovo governo repubblicano fascista ed è informalmente nota come Repubblica di Salò; tuttavia, la cittadina lombarda sulle rive del Garda non era né la capitale de facto, né la città sede del Capo di Stato e del governo, ma a Salò avvenivano gli incontri di relazione estera, essendo anche sede del Ministero della Cultura Popolare e degli Esteri e la maggior parte dei dispacci ufficiali recavano l'intestazione "Salò comunica...". Considerata uno "Stato fantoccio" della Germania nazista (lo stesso Mussolini ne era consapevole), la Repubblica Sociale Italiana non fu riconosciuta dalla comunità internazionale. Fu considerata erede del Regime fascista italiano dalla Germania, che la riconobbe ma esercitò su di essa un protettorato de facto. Fu riconosciuta anche dall'Impero giapponese e dalla maggioranza degli altri Stati dell'Asse: la Slovacchia, l'Ungheria, la Romania, la Croazia, la Bulgaria, la Francia di Vichy e il Manciukuò. Fondamenti ideologico-giuridico-economici della Repubblica Sociale Italiana furono il fascismo, il socialismo nazionale, il repubblicanesimo, la socializzazione, la cogestione, il corporativismo e l'antisemitismo. La Repubblica Sociale Italiana, proclamata il 23 settembre 1943, rivendicava la propria sovranità su tutto il territorio del Regno d'Italia, ma per gli sviluppi bellici poté esercitarla solo sulle province non soggette all'avanzata alleata. Inizialmente la sua attività amministrativa si estendeva nominalmente fino alle province settentrionali della Campania, ritirandosi progressivamente sempre più a nord, in concomitanza con l'avanzata degli eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i tedeschi istituirono due "Zone d'operazioni" comprendenti rispettivamente: le province di Trento, Bolzano e Belluno (Zona d'operazioni delle Prealpi), e le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d'operazioni del Litorale adriatico), che furono sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia, anche se non formalmente annesse al Terzo Reich. A nord l'exclave di Campione d'Italia rimase sotto la sovranità del Regno. Venuta meno de facto negli ultimi giorni dell'aprile 1945, la RSI cessò ufficialmente di esistere con la resa di Caserta del 29 aprile 1945 (operativa dal 2 maggio). La RSI fu in realtà un protettorato tedesco, sfruttato dai nazisti per legalizzare alcune loro annessioni e per ottenere mano d'opera a basso costo. Voluto dal Terzo Reich come apparato per amministrare i territori occupati del Nord e Centro Italia, lo Stato della RSI era infatti una struttura burocratica non dotata di potere autonomo effettivo, che in realtà era detenuto dai tedeschi. Con il funzionamento di uno Stato fantoccio i tedeschi potevano così riscuotere le spese di occupazione, stabilite nell'ottobre 1943 a 7 miliardi di lire, passate successivamente a 10 miliardi (17 dicembre 1943) e infine a 17 miliardi. L'intero apparato della Repubblica di Salò era infatti controllato dai militari tedeschi, memori del "tradimento" che gli italiani avevano consumato con l'armistizio dell'8 settembre. Il controllo non veniva esercitato solo sulla direzione della guerra e degli affari militari ma spesso anche sull'Amministrazione della Repubblica. Le stesse autorità militari potevano avere infatti anche funzioni civili. In tal modo «...una vasta rete di autorità avente competenze militari ma anche civili fu stesa dai tedeschi nell'Italia da essi controllata...». Alla Repubblica Sociale non fu consentito di poter riportare in patria i militari internati dai tedeschi in seguito all'8 settembre, ma solo di poter reclutare volontari fra di essi per la costituzione di divisioni dell'Esercito da addestrarsi in Germania. In Italia il volontariato fascista e la militarizzazione di organizzazioni esistenti dotarono la RSI di forze armate numericamente consistenti (complessivamente fra i 500 e gli 800.000 uomini e donne sotto le armi), ma queste furono impiegate, a volte anche contro il loro desiderio, soprattutto in operazioni di repressione, sterminio e rappresaglia contro i partigiani e le popolazioni accusate di offrirgli sostegno. Unità della Xª Mas, comandata dal principe Junio Valerio Borghese, parteciparono comunque ai combattimenti contro gli Alleati ad Anzio, in Toscana, sul fronte carsico e sul Senio; le divisioni addestrate in Germania si batterono sul fronte della Garfagnana (Monterosa e Italia) e su quello francese (Littorio e Monterosa). Reparti singoli furono incorporati in grandi unità tedesche, mentre nelle retrovie battaglioni del Genio italiani furono utilizzati dai comandi germanici per la costruzione di opere difensive, per le opere di riattamento delle vie di comunicazione danneggiate dall'offensiva aerea nemica e dai sabotaggi e come salmerie da combattimento. Contributi marginali alle operazioni militari contro gli Alleati furono compiuti dal naviglio sottile della Marina Nazionale Repubblicana e dai reparti di volo dell'Aeronautica Nazionale Repubblicana; più intenso fu l'impiego dei reparti contraerei, inquadrati nella FlaK tedesca, e paracadutisti, sul fronte francese e laziale. Il grosso delle forze armate repubblicane fu impiegato soprattutto come presidio territoriale e guardia costiera. La creazione della Repubblica Sociale Italiana sotto diretta tutela della Germania fu l'inizio della caccia all'ebreo anche in territorio italiano, cui contribuirono attivamente reparti e bande armate della RSI. Talvolta il movente era costituito da ricompense in denaro «...essendo a conoscenza che i tedeschi pagavano una certa somma per ogni ebreo consegnato nelle loro mani, vi furono elementi delle Brigate Nere, delle SS italiane, delle varie polizie che infestavano il Nord, pronti a dedicarsi a questa caccia con tutto lo slancio possibile...». Secondo Liliana Picciotto Fargion, risulta che del totale degli ebrei italiani deportati, il 35,49%, venne catturato da funzionari o militari italiani della Repubblica Sociale Italiana, il 4,44% da tedeschi ed italiani insieme e il 35,49% solo da tedeschi (il dato è ignoto per il 32,99% degli arrestati). Fra le retate completamente organizzate ed eseguite da italiani della RSI assume particolare rilievo il rastrellamento di Venezia effettuato tra il 5 ed il 6 dicembre 1943: 150 ebrei furono arrestati in una sola notte. La stessa triste vicenda del rastrellamento e della deportazione degli ebrei romani (effettuata dai tedeschi sotto il comando di Herbert Kappler) vide l'attiva collaborazione delle autorità della Repubblica Sociale Italiana e in particolare del commissario Gennaro Cappa, responsabile del Servizio Razza della Questura di Roma. Il 30 novembre 1943 fu emanato da Buffarini Guidi l'Ordine di polizia n°5 secondo il quale gli ebrei dovevano essere inviati in appositi campi di concentramento. Il 4 gennaio 1944 gli ebrei vennero privati del diritto al possesso. Subito dopo iniziarono ad essere emessi i primi decreti di confisca che già il 12 marzo successivo ammontavano a 6.768 (fra terreni, fabbricati, aziende, ecc.); agli ebrei venivano sequestrati anche arti ortopedici, medicine, spazzole da scarpe e calzini usati. Nel frattempo iniziarono le deportazioni, effettuate dai nazisti con l'aiuto e la complicità della R.S.I. come si è già avuto modo di segnalare. Guido Buffarini Guidi concesse ai tedeschi l'uso del Campo di Fossoli, nei pressi di Carpi, nel modenese, attivo fin dal 1942 e preferì ignorare l'apertura del Campo di concentramento della Risiera di San Sabba che, sebbene situato nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico, faceva ancora parte de iure della R.S.I. Le cifre degli italiani di religione ebraica deportati fino alla caduta della R.S. I., se rapportate alla consistenza complessiva della comunità israelita presente in Italia (costituita da 47.825 unità nel 1931, di cui 8.713 ebrei stranieri), sono elevate e rappresentano la quarta o la quinta parte del totale. Secondo fonti affidabili, i deportati furono 8.451 di cui solo 980 fecero ritorno; agli scomparsi nei campi di concentramento e di sterminio vanno aggiunti tuttavia 292 ebrei uccisi in Italia. In totale vennero assassinati dai nazifascisti 7.763 ebrei italiani. Le Brigate Nere furono l'ultima creazione armata della Repubblica Sociale. L'idea di un «esercito fascista», politicizzato, di partito, era sempre stata uno dei cavalli di battaglia del segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini, che aveva proposto l'istituzione di un corpo con queste caratteristiche sin dai primi del '44, ma aveva ottenuto ben poco: il suo «centro di arruolamento volontario», nel quale si sarebbero dovuti presentare in massa i fascisti non ancora sotto le armi, rimase deserto: in circa tre mesi, solo il 10% degli iscritti, circa 47.000 su 480.000, rispose alla chiamata. La Guardia Nazionale Repubblicana fu sempre a corto sia di uomini che di mezzi. Pavolini riuscì però a sfruttare due opportunità che gli si offrirono una di seguito all'altra: l'occupazione di Roma da parte degli Alleati a giugno, e l'attentato a Hitler a luglio. Mussolini, scosso da questi avvenimenti, cedette ed emanò il decreto (pubblicato sulla Gazzetta il 3 agosto) per l'istituzione del Corpo ausiliario delle Camicie Nere. Il nuovo corpo, sottoposto a disciplina militare ed al Codice penale militare di guerra, fu costituito da tutti gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano di età compresa tra i diciotto e sessanta anni non appartenenti alle Forze Armate, organizzati in Squadre d'Azione; il segretario del Partito dovette trasformare la direzione del Partito in un ufficio di Stato maggiore del Corpo ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere, le Federazioni si trasformarono in Brigate del Corpo ausiliario, il cui comando fu affidato ai capi politici locali. Il decreto, in poche parole, come recitava il testo, faceva sì che «la struttura politico-militare del Partito si trasformasse in un organismo di tipo esclusivamente militare». Fu Pavolini a coniare la denominazione «Brigate Nere», con la quale voleva esprimere la loro contrapposizione alle formazioni partigiane della Resistenza legate ai partiti di sinistra, «Brigate Garibaldi», «Brigate Giustizia e Libertà», «Brigate Matteotti». Essendo segretario del Partito, e quindi comandante delle Brigate, spettò a lui compito di scegliere i suoi collaboratori: Puccio Pucci, funzionario del CONI, fu il suo più stretto aiutante, ed il primo capo di Stato maggiore fu il console Giovanni Battista Raggio. Il loro tentativo di riesumare lo squadrismo degli inizi (ma su scala più vasta) non si rivelò molto efficace: dei 100.000 uomini previsti da Pavolini se ne reperirono formalmente circa 20.000, e di questi solo 4.000 furono combattenti, militi cioè realmente operativi. Furono inquadrati nelle cosiddette Brigate Nere mobili, che sarebbero risultati gli unici reparti di questa milizia a combattere contro i partigiani.
Per le armi e i mezzi di trasporto le Brigate mobili dipendevano dai militari tedeschi, inizialmente più che contenti di poter contare sui fascisti repubblicani per le imprese antipartigiane, e specialmente per il "lavoro sporco". Le Brigate avrebbero composto un poco invidiabile e davvero poco onorevole curriculum: paesi incendiati, donne e bambini passati per le armi, deportazioni, sequestri, torture, esecuzioni sommarie. Ai crimini tipici delle azioni di contro-guerriglia, si aggiunsero quelli tipici di reparti che avevano arruolato ogni sorta di elemento, includendo anche più di un criminale: i rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana elencano numerosi casi di saccheggio, furto, rapina, arresto illegale, violenze a cose e persone. L'indisciplina e la violenza gratuita e scoordinata manifestate dalle Brigate sono dati accertati dagli stessi comandanti tedeschi, che persero il loro iniziale - seppur tiepido - entusiasmo verso la loro istituzione registrando come le Brigate fossero incapaci di coordinarsi con i reparti della Wehrmacht e non obbedissero agli ordini (che generalmente ignoravano); le loro violenze erano tali che, nelle zone in cui operavano, per reazione popolare, i partigiani aumentavano di numero. Il comandante in capo delle SS in Italia, generale Karl Wolff, forse per evitare un ulteriore aggravio del problema (ma anche perché stava per prendere iniziative di colloqui separati con gli Alleati e voleva operare un gesto di «distensione»), decise di mettere fuori combattimento le Brigate Nere mobili, prosciugando i loro canali di rifornimento.
Il piano Beveridge nell'edizione italiana. |
Quello stesso anno si stipulano gli Accordi di Bretton Woods. La conferenza di Bretton Woods si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell'omonima località nei pressi di Carroll (New Hampshire), per stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia del mondo di un ordine monetario totalmente concordato, pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Mentre ancora non si era spento il secondo conflitto mondiale, si preparò la ricostruzione del sistema monetario e finanziario, riunendo 730 delegati di 44 nazioni alleate per la conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite (United Nations Monetary and Financial Conference) al Mount Washington Hotel, nella città di Bretton Woods (New Hampshire). Dopo un acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono gli Accordi di Bretton Woods. Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò avvenne nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.
Churchill, Roosvelt e Stalin a Jalta. |
La Russia zarista, incapace di competere industrialmente, cercò di chiudere e colonizzare parti dell'Asia Orientale, mentre gli americani richiedevano la competizione aperta per i mercati. Nel 1917, la rivalità divenne intensamente ideologica. Gli americani non dimenticarono mai che l'appena costituito governo sovietico, a causa della situazione interna, negoziò una pace separata con la Germania nella Prima guerra mondiale, lasciando gli Alleati soli a combattere le Potenze Centrali. D'altra parte la sfiducia sovietica nei confronti degli USA derivava dallo sbarco di truppe statunitensi in Russia nel 1918, le quali furono coinvolte, direttamente o indirettamente, nell'assistere i Bianchi zaristi anti-bolscevichi nella guerra civile russa. Da parte degli Alleati, la rottura da parte dell'URSS del Patto di Monaco del 1938 e la successiva firma del Patto Molotov-Ribbentrop con il terzo Reich del 1939, contribuirono ad alimentare un clima di sfiducia nei confronti dei sovietici.
Durante il secondo conflitto mondiale, i sovietici non dimenticarono le ripetute assicurazioni, a lungo disattese, di Franklin D. Roosevelt, che USA e Regno Unito avrebbero aperto un secondo fronte sul continente europeo. Infatti, mentre gli USA combattevano nel Mediterraneo e in Italia, prestavano aiuto ai sovietici solo bombardando pesantemente l'Europa Continentale e un'invasione Alleata su vasta scala del continente avvenne solo nel D-Day del giugno 1944, più di due anni dopo la richiesta dei sovietici e alla fine della guerra, l'URSS aveva sofferto perdite tremende, fino a venti milioni di morti.
Franklin Delano Roosvelt |
25 aprile 1945 in Italia. |
L' 8 maggio 1945 la Germania si arrende mentre il Giappone si arrenderà in agosto, dopo lo sgancio di due bombe atomiche americane. Le truppe sovietiche e quelle degli Alleati occidentali (USA, Regno Unito e Francia), erano dispiegate in determinate posizioni, essenzialmente lungo una linea al centro dell'Europa che venne chiamata Linea Oder-Neisse. Secondo lo spirito di Jalta, i vincitori potevano stare dove si trovavano e nessuno avrebbe usato la forza diretta per cacciar via gli altri. A parte alcuni aggiustamenti minori, questa sarebbe diventata la "Cortina di ferro" della Guerra Fredda.
1945, truppe russe alla Porta di Brandeburgo a Berlino. |
Così Berlino, simbolo del nazismo e capitale della Germania hitleriana, venne a trovarsi nel territorio della Germania Est, ossia sotto l'influenza sovietica, venendo comunque suddivisa fra i vincitori del conflitto in 4 zone, tre delle quali, a Berlino ovest, controllate dagli Alleati democratici, con un corridoio via terra, all'interno della Germania dell'est, per poterla raggiungere. La quarta zona, Berlino est (la parte orientale della città) rimase appannaggio dell'Unione Sovietica, divenendo la capitale della Germania orientale, la RDT.
Quando la guerra finì in Europa, l'8 maggio 1945, le truppe sovietiche e occidentali (USA, Regno Unito e Francia), erano dispiegate in determinate posizioni, essenzialmente lungo una linea al centro dell'Europa che venne chiamata Linea Oder-Neisse. A parte alcuni aggiustamenti minori, questa sarebbe diventata la "Cortina di ferro" della Guerra Fredda. In retrospettiva, Jalta significò l'accordo per cui entrambe le parti potevano stare dove si trovavano e nessuna avrebbe usato la forza diretta per cacciar via l'altra. Questo tacito accordo si applicava anche all'Asia, come evidenziato dall'occupazione statunitense del Giappone e dalla divisione della Corea.
Nel 1946 Inizia il processo alla Germania nazista, a Norimberga.
Su una popolazione stimata in 45 milioni di residenti (42.398.489 residenti censiti nel 1936 e 47.515.537 censiti nel 1951) votarono 12.998.131 donne e 11.949.056 uomini, per un totale di 24.947.187 votanti, il 55,438% della popolazione.
12.717.923 (il 54,3% dei votanti) cittadini furono favorevoli alla repubblica e 10.719.284 (il 45,7% dei votanti) cittadini furono favorevoli alla monarchia
La notte fra il 12 e 13 giugno 1946, il Consiglio dei ministri conferì al presidente Alcide De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano mentre l'ex re Umberto II lasciò il paese il 13 giugno 1946. Alla sua prima seduta del 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio.
Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assunse per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948.
Indice del blog "Politica":
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Finita la guerra, per
il referendum sulla scelta fra monarchia o repubblica, la
Chiesa appoggia apertamente la causa monarchica trasformando
l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra
cristianesimo e
comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il
referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolge un appello agli Italiani
e senza accennare esplicitamente alla monarchia o alla repubblica,
invita i votanti affinché scelgano tra il materialismo e il
cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana.
Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano
annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe
stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale.
Nasce la Repubblica Italiana. La nascita della Repubblica Italiana avviene nel 1946, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno, indetto per determinare la forma di stato dopo il termine della seconda guerra mondiale. Si trattò di un passaggio di grande importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale ed un momento della storia nazionale assai ricco di eventi, cause, effetti e conseguenze, che è stato anche considerato una rivoluzione pacifica dalla quale si produsse l'attuale forma di Stato. La nascita della Repubblica fu accompagnata da polemiche circa la regolarità del referendum che la sancì. I presunti brogli elettorali ed altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, tuttavia, non sono stati mai accertati dagli storici, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica.
Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello Stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta in una consultazione politica nazionale) elessero anche i componenti dell'Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale.La Repubblica italiana. |
Su una popolazione stimata in 45 milioni di residenti (42.398.489 residenti censiti nel 1936 e 47.515.537 censiti nel 1951) votarono 12.998.131 donne e 11.949.056 uomini, per un totale di 24.947.187 votanti, il 55,438% della popolazione.
La Costituzione italiana da http://cmapspublic2.ihmc. us/rid=1M51LJ77F-19Z5NRJ-1P5M/Costituzione%20 della%20Repubblica%20Italiana.cmap |
La notte fra il 12 e 13 giugno 1946, il Consiglio dei ministri conferì al presidente Alcide De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano mentre l'ex re Umberto II lasciò il paese il 13 giugno 1946. Alla sua prima seduta del 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio.
Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assunse per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948.
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