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Le colonne del tempio di Saturno,
nel Foro di Roma. Clicca
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Nel 451/450
a.C. a Roma vengono scritte le leggi delle XII tavole
(duodecim tabularum leges), un corpo di leggi compilato dai
decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico derivate da pronunce pontificali tramandate oralmente per molto tempo. Rappresentano la
prima codificazione scritta del diritto romano, dopo i più
antichi mores (consuetudini o costumi) e la lex regia,
non scritti. « [...] mi pare che il solo libro delle XII tavole
superi per autorità ed utilità le biblioteche di tutti i filosofi »
(Marco Tullio Cicerone, De Oratore, I - 44, 195). Le fonti antiche,
per giustificare questa innovazione, accennano a contatti con
Ermodoro di Efeso, discendente del filosofo Eraclito e in effetti
proprio nel VI-V secolo a.C., il mondo greco conobbe la legislazione
scritta.
Il racconto tradizionale, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, narra che i patrizi, che nel Senato possedevano il loro organo di governo, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo e abbandonando definitivamente la monarchia nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la classe sociale) il governo della città, nominando ogni anno due consoli che condividessero il potere esecutivo. La plebe rimaneva quindi "classe inferiore", componente solo della massa cittadina, rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature, l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. I patrizi inoltre, finirono per abusare della loro posizione dominante, utilizzando ad esempio l'istituto del nexum, per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ceto nelle cause contro i plebei e annullando le decisioni dei comizi centuriati.
Essendo l'esercito romano composto per lo più da cittadini agricoltori, le continue guerre di Roma con i popoli vicini rendevano spesso impossibile alle famiglie della classe plebea, che si sostenevano con il diretto lavoro dei campi svolto dal capofamiglia e dai figli maschi, pagare i debiti che contraevano per sopravvivere durante la loro assenza. La conseguente e fiscale applicazione del nexum permetteva perciò al patriziato di impadronirsi delle terre e perfino delle vite degli sfortunati agricoltori-combattenti e dei loro famigliari.
Il Nexum era una forma di garanzia, forse la più solenne che fosse prevista nell'ordinamento legale di Roma, codificato in forma scritta nelle Leggi delle XII tavole: « Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo diritto (cioè il tenore e la portata del diritto dipenderanno esattamente dalle parole proferite). » (Leggi delle XII tavole - TABVLA VI sulla Proprietà). La sua solennità probabilmente derivava dal fatto che le garanzie sottintese al nexum erano della massima delicatezza per chi vi si sottoponeva. Con l'accettazione del nexum il debitore forniva come garanzia di un prestito l'asservimento di se stesso, o di un membro della sua famiglia su cui avesse la potestà (un figlio ad esempio), in favore del creditore fino all'estinzione del debito. Il "nexum" trovò spesso applicazione anche come "negotium imaginarium": in questo caso il "nexus" chiedeva al creditore di un proprio debito rimasto insoluto di accettare la propria persona in qualità di "nexus"; questo accadeva perché nel sistema processuale romano arcaico il soggetto insolvente "iudicatus" era suscettibile di "addictio" definitiva al creditore, il quale poteva ridurlo in schiavitù od ucciderlo. L'estinzione del debito poteva avvenire con il pagamento in contanti, in beni oppure con servizi prestati per un determinato tempo che, naturalmente veniva fissato in relazione al debito. In genere, d'altronde, il nexum portava alla schiavitù perpetua di chi vi era sottoposto per le ovvie implicazioni dell'operatività di chi era asservito. Non potendo gestire la propria vita in modo da allargare i guadagni diventava sempre più difficile all'asservito poter raccogliere le somme necessarie a pagare il riscatto. Probabilmente per la rarità dell'evento, la manomissione del soggetto avveniva in forma solenne e celebrata davanti alle magistrature della città. Si parlava, in questo caso di solutio per aes et libram.
Con il termine manomissione (manumissio) si indica in diritto romano l'atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù. All'interno della disciplina giuridica romana classica erano conosciute tre forme di manomissione: la manumissio vindicta, la manumissio testamento e la manumissio censu. Queste tre manumissiones si caratterizzano poiché, oltre alla libertà, consentono al servo di acquistare simultaneamente anche la cittadinanza romana, e sono dette manomissioni civili.
Nel 352 l'azione dei mensari nominati dai consoli Publio Valerio Publicola e Gaio Marcio Rutilo, limitò l'azione del
nexum il cui istituto pare sia stato
abolito nel 312 a.C. dopo che già dal 342 a.C. Appio Claudio Cieco aveva posto mano ad una prima riforma per favorire il reclutamento di truppe durante le Guerre sannitiche.
I mensari erano stati un gruppo di cinque aristocratici cittadini che nella Roma del IV secolo a.C. si adoperarono per aiutare i cittadini plebei che, a causa di difficoltà economiche dovute al protrarsi delle guerre, rischiavano di cadere sotto le prescrizioni del nexum, la schiavitù per debiti.
Le leggi, fino al 450 a.C. circa (promulgazione delle Leggi delle XII tavole da parte dei Decemviri), erano tramandate per tradizione orale da un pater familias al successore e solo i patrizi avevano accesso a questa conoscenza. L'ovvia conseguenza era che le interpretazioni delle leggi, e perfino la decisione di quale fosse il giorno giusto per il dibattimento di una causa, restavano in mano ai patrizi attraverso i collegi degli auguri che decretavano i "giorni fausti" e i "giorni infausti".
D'altra parte anche le leggi delle XII tavole non portarono che miglioramenti limitati. La fissazione su bronzo e l'apposizione del testo nel Foro romano, richiedevano anche la definizione di altre decisioni accessorie. Anche i giorni infausti, dovettero essere ben definiti, poiché in quei giorni era chiusa ogni attività forense. Queste leggi, inoltre, rimanevano molto discriminatorie nei confronti della plebe. Basti citare la legge che vietava il matrimonio fra componenti dei due ordini e che fu abrogata dopo pochi anni con l'approvazione - fra immani contrasti - della Lex Canuleia nel 445 a.C.
In questa situazione di oppressione, grazie al Conflitto degli ordini, con varie secessioni della plebe, i plebei riuscirono ad ottenere l'istituzione dei tribuni (rappresentanti delle tribù) della plebe, la cui autorità per proteggerli dagli eccessi dei patrizi fu da questi accettata. Queste prime forme di emancipazione furono ottenute proprio grazie alla secessione, cioè la decisione di uscire in massa dalla città e di non rientrarvi fino alla soddisfazione delle richieste, rendendo impossibile la chiamata della leva militare contro i confinanti ed eventuali nemici e convincendo così Senato e patrizi alla diminuzione del loro potere quasi assoluto. I contrasti continuarono per anni, fino al 367 a.C. quando Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio riuscirono a far promulgare le leges Liciniae Sextiae. Con queste fu stabilito che uno dei due consoli dovesse sempre essere eletto fra i componenti dell'ordine plebeo. Non molto tempo dopo, come conseguenza, ai plebei fu aperto l'accesso alle cariche di dittatore, censore e pretore.
Il tribuno della
plebe Gaio Terenzilio Arsa aveva proposto, nel 462 a.C., la nomina di
una commissione composta da appositi magistrati con l'incarico di
redigere un codice di leggi scritte per sopperire all'oralità delle
consuetudini (i mores) allora in vigore. Il Senato, dopo
un'iniziale opposizione (la proposta fu riformulata l'anno
seguente dai cinque tribuni della plebe), votò
nel 454 a.C. l'invio di una commissione di tre membri nominati dai
concilia plebis in Grecia, per studiare le leggi di Atene e
delle altre città. Tito Livio ci fornisce i nomi dei tre componenti
la commissione: Spurio Postumio Albo Regillense, Aulo Manlio Vulsone
e Servio Sulpicio Camerino Cornuto. Nel 451 a.C. fu istituita una
commissione di decemviri legibus scribundis che rimpiazzò le
magistrature ordinarie, sia patrizie che plebee, sospese in
quell'anno. I componenti della commissione furono scelti tra gli
ex-magistrati patrizi. Lo stesso Tito Livio ce ne fornisce i nomi:
Appio Claudio Crasso, console; Tito Genucio Augurino, console; Tito
Veturio Crasso Cicurino; Gaio Giulio Iullo; Aulo Manlio Vulsone;
Servio Sulpicio Camerino Cornuto; Publio Sestio Capitone; Publio
Curiazio Fisto Trigemino; Tito Romilio Roco Vaticano; Spurio Postumio
Albo Regillense. Seguendo il testo liviano furono nominati decemviri
i tre della commissione inviata ad Atene, in qualità di "esperti"
e "gli altri furono eletti per far numero" (supplevere
ceteri numerum). Le Dodici Tavole (non sappiamo se di legno di
quercia, d'avorio o di bronzo) vennero affisse nel Foro,
dove rimasero fino al saccheggio ed all'incendio di Roma del 390 a.C.
da parte dei Celti di Brenno. Cicerone narra che ancora ai suoi tempi
(nel I secolo a.C.) il testo delle Tavole veniva imparato a memoria
dai bambini come una sorta di poema d'obbligo (ut carmen
necessarium) e Livio le definisce come “fonte di tutto il
diritto pubblico e privato (fons omnis publici privatique iuris)”.
Il linguaggio delle tavole è ancora un linguaggio arcaico ed
ellittico. Alcuni studiosi suppongono che le norme siano state
scritte in metrica, per facilitarne la memorizzazione. Secondo lo
storico Ettore Pais, i redattori non introdussero grandi novità ma
si sarebbero limitati a redigere per iscritto gli antichi mores.
La prima Secessione della Plebe nel 449 a.C. - Nel periodo arcaico, dalla fondazione di Roma fino a circa la metà del IV secolo, non esistevano leggi scritte. I diritti dei cittadini erano garantiti dallo Ius Quiritium: un insieme di riti e regole giuridici e religiosi tramandati oralmente la cui interpretazione era affidata al collegio sacerdotale dei pontefici, che era di composizione patrizia. Questa situazione era vista dai plebei come un elemento a loro svantaggio nella lotta per la loro emancipazione nei confronti dei patrizi.
Nel 462 a.C. il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa presentò una legge che dal suo nome fu chiamata appunto Lex Terentilia, che proponeva la formazione di un comitato di cinque cittadini al quale doveva essere affidato l'incarico di stendere definitivamente le norme che vincolassero il potere dei consoli, allora praticamente senza limiti.
Naturalmente questa proposta si scontrò con l'opposizione del Senato e, anche se venne ripresentata l'anno successivo e poi ancora in seguito, non riuscì mai ad essere approvata. Questo fallimento non fu comunque totale in quanto creò i presupposti affinché nel 452 a.C. si poté trovare un accordo fra patrizi e plebei per istituire una commissione di decemviri che dovevano preparare un codice di leggi che definisse i principi dell'ordinamento romano. Si stabilì anche che durante la permanenza dei decemviri nel loro ufficio, tutte le altre magistrature dello Stato sarebbero state sospese e le loro decisioni non sarebbero state soggette ad appello.
Il primo decemvirato assunse la carica nel 451 a.C. e al termine del mandato presentò un codice di leggi scritte in dieci tavole che fu approvato dai Comizi centuriati.
Visto il positivo risultato ottenuto, e non essendo ancora del tutto completato il lavoro, si decise la nomina di un secondo collegio di decemviri per l'anno 450 a.C. Questo secondo decemvirato non fu però all'altezza del primo; infatti se da un lato produsse due nuove leggi, che si aggiunsero alle precedenti per formare le cosiddette Lex Duodecim Tabularum che formeranno il nucleo della legislazione romana per parecchi secoli, dall'altro, per quanto riguarda la gestione del governo, fu caratterizzato da un comportamento che divenne via via più violento e dispotico, soprattutto nei confronti della plebe.
La situazione si aggravò quando, giunti alle Idi di maggio, cioè al termine del loro mandato annuale, i decemviri non si dimisero dal loro incarico creando un situazione di grande tensione sia fra la plebe che fra i patrizi. La necessità di indire una leva per rispondere alle scorrerie operate da Equi e Sabini costrinse ad accantonare momentaneamente la questione, ma due crimini commessi dai decemviri riportarono in evidenza il problema. Il primo di questi crimini fu l'uccisione di Lucio Siccio Dentato, un valoroso soldato, ex Tribuno della plebe, che non aveva fatto mistero delle sue critiche verso i decemviri. Il secondo evento ebbe per protagonista Appio Claudio Crasso, l'unico decemviro ad essere stato eletto sia nella prima che nella seconda magistratura. Secondo il racconto di Livio, Appio Claudio si era invaghito di una bella giovane plebea, Virginia, figlia di Lucio Verginio, un ufficiale dell'esercito, e promessa in sposa a Lucio Icilio, tribuno della plebe. Respinto dalla ragazza Appio decise di ottenerla con l'inganno ed allo scopo ordì una sordida trama con l'aiuto di un suo cliente. Quando, anche grazie alla sua posizione di decemviro, stava per ottenere ciò che voleva, il padre della ragazza, pur di non lasciarla cadere nelle mani di Appio, la uccise con un coltello e maledisse Appio per questa morte.
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Raffigurazione dell'uccisione di Virginia da parte del padre, per non lasciarla ad Appio Claudio Crasso. |
Questo evento scatenò gravi tumulti, prima fra la folla presente, ma poi questi si estesero all'esercito accampato fuori Roma, che marciò quindi sulla città prendendo possesso dell'Aventino.
Intanto in città il Senato convocato da uno dei decemviri cercava una soluzione. Vennero inviati tre ex-consoli come ambasciatori sull'Aventino per chiedere alla popolazione quali fossero le loro richieste, ma questi risposero che avrebbero comunicato le loro richieste solo a dei loro rappresentanti. Allora il Senato fece pressione contro i decemviri affinché si dimettessero, ma questi resistettero.
Visto che non si giungeva a nessuna soluzione, la popolazione sull'Aventino elesse dei propri rappresentanti e decise di uscire dalla città e ritirarsi sul Mons Sacer a ricordare al Senato gli eventi di alcuni anni prima. Conosciuta questa decisione i senatori rimproverarono i decemviri di essere responsabili di questa grave situazione e ne chiesero con forza le dimissioni. Particolarmente attivi in questa azione di pressione verso i decemviri furono i senatori Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato. Alle fine i decemviri cedettero chiedendo che fosse loro garantita la protezione dalla rabbia della folla. Il Senato inviò quindi Lucio Valerio e Marco Orazio sul Mons Sacer con l'obiettivo di concordare le condizioni per la cessazione della rivolta.
Fu concordato che sarebbero stati ripristinati il potere dei tribuni della plebe e il diritto d'appello, entrambi sospesi con l'elezione del primo decemmvirato. La plebe tornò quindi in città dove sul colle Aventino, con l'ausilio del Pontefice massimo Quinto Furio, elesse i propri tribuni, fra cui Lucio Verginio, Lucio Icilio e Publio Numitorio, rispettivamente, padre, fidanzato e zio materno di Virginia. Furono poi eletti consoli Lucio Valerio e Marco Orazio. Durante il loro consolato furono emanate diverse legge che confermarono e rafforzarono i diritti della plebe. Fra queste la Leges Valeriae Horatiae che riguardavano fra l'altro il diritto di appello, l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni.
Secondo alcuni storici, gli eventi relativi a Lucio Siccio Dentato e Virginia, anche se riportati da Livio e altri autori, non sono da considerarsi completamente storici. Infatti gli autori dell'epoca dovettero basarsi su notizie tramandate secondo una tradizione orale in quanto, a causa del sacco di Roma del 390 a.C., la documentazione scritta antecedente quel periodo andò dispersa. È pertanto probabile che nei fatti raccontati ci sia un base di verità che poi si è andata arricchendo nella tradizione orale con elementi tesi a darle dei connotati più eroici.
Estratti dalle XII Tavole:
Tavola I (procedura civile)
« Se (l'attore) lo cita in giudizio, (il convenuto) ci vada. Se non ci va, (l'attore) chiami dei testimoni. Quindi lo afferri.»
Se si sottrae o tenta di fuggire, si imponga la mano.
Se la malattia o l'età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, non gli sia data alcuna lettiga.
Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sia il limite ultimo del processo.
Tavola II (procedura civile)
Grave malattia... o un giorno stabilito contro il nemico... se qualcuno di questi è un impedimento per il giudice o qualsiasi partito, quel giorno i procedimenti devono essere sospesi.
Uno che cerca testimonianza da un assente deve gridare davanti alla sua porta ogni quarto giorno.
Tavola III (procedura esecutiva)
Per un debito riconosciuto, una volta emessa sentenza regolare, il termine di legge sarà di trenta giorni. Dopo ciò, ci sia l'imposizione della mano (manus iniectio) e il debitore sia trascinato in giudizio. Se il debitore non paga la condanna e nessuno garantisce per lui, il creditore può portare via con sé il convenuto in catene. Lo può legare con pesi di almeno 15 libbre. Il debitore può sfamarsi come desidera. Se egli non riesce a sfamarsi da solo, il creditore deve dargli una libbra di grano al giorno. Se vuole può dargliene di più.
Al terzo giorno di mercato, (i creditori) possono tagliare i pezzi. Se prendono più di quanto gli spetti, non sarà un illecito. Nei confronti dello straniero, è perpetuo l'obbligo di garantire la proprietà della merce.
Tavola IV (genitori e figli)
Un bambino chiaramente deformato deve essere ucciso.
« Se un padre vende il figlio per tre volte consecutive perde la patria potestà su di lui. »
Tavola V (eredità)
« Se una persona muore senza aver fatto testamento, il parente maschio prossimo erediterà il patrimonio. »
« Se questo non c'è erediteranno gli uomini della sua gens. »
« Se qualcuno impazzisce, il suo parente più prossimo maschio e i gentili avranno autorità su di lui e sulla sua proprietà. »
Tavola VI (proprietà)
« Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo diritto (cioè il tenore e la portata del diritto dipenderanno esattamente dalle parole proferite). »
« Nessuno deve spostare travi da edifici o vigne. »
Tavola VII (mantenimento delle strade)
« Mantengano le strade: se cadono in rovina, i passanti possono guidare le loro bestie ovunque vogliano. »
« Se la pioggia fa danni [...] la questione sarà risolta da un giudice. »
Tavola VIII (illeciti)
« Coloro che hanno cantato un maleficio. »
« Se una persona mutila un'altra e non raggiunge un accordo con essa, sia applicata la legge del taglione. »
« Chiunque rompa l'osso di un altro, a mano o con un bastone, deve pagare trecento sesterzi se è un libero; centocinquanta se è uno schiavo; se abbia commesso altrimenti offesa la pena sia di venticinque. »
« Chi si appropriasse con la magia del raccolto o il grano di un altro [...]. »
« Se avrà tentato di rubare nottetempo e fu ucciso, l'omicidio sia considerato legittimo. »
« Se di giorno [l'omicidio è legittimo] se [il ladro] si sarà difeso con un'arma [e se il derubato avrà prima tentato] di gridare aiuto. »
« Se un patrono froda il cliente, sia condannato alla sacertà. »
« Chi sia stato chiamato a testimoniare o a pesare con una bilancia, se non testimonia, sia disonorato e reso incapace di ulteriore testimonianza. »
« Se una lancia sfugge dalla mano o viene lanciata per sbaglio (uccidendo qualcuno ndt), si sacrifichi un ariete. »
Tavola IX (principi del processo penale e controversie)
« Non devono essere proposte leggi private a favore o contro un singolo cittadino (privilegi). »
Tavola X (regole per i funerali)
« Nessun morto può essere cremato né sepolto in città. »
« Quando un uomo vince una corona, o il suo schiavo o bestiame vince una corona per lui [...]. »
« Nessuno deve aggiungere oro (a una pira funebre). Ma se i suoi denti sono tenuti insieme dall'oro e sono seppelliti o bruciati con lui, l'azione sia impunita. »
Tavola XI (matrimonio)
« è vietato il matrimonio fra plebei e patrizi. »
Tavola XII (crimini)
« Se uno schiavo ha commesso furto o un male [...]. »
« Se qualcuno abbia portato in giudizio una falsa vindicia (rivendicazione n.d.r.) (il pretore?) dia tre arbitri, e paghi il doppio (del bene?) e dei frutti. »
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